Messa da requiem

Chi è come te, Signore,
che liberi il debole dal più forte?
(Sal 35, 10a) 


Eccomi qui, davanti al computer, come al solito senza niente da scrivere. Parto sempre in questo modo. E mentre inizio penso sempre a M. C. Mi dico, ma lui lo sa che so dattilografare e scrivo? C’è sempre questo pensiero sotto la mia attività di scrittura, è come se volessi che lui sapesse che scrivo. E che ho un computer potente come il suo. E che so usare il computer per produrre le mie opere. Come fa lui. Anche se lui fa il grafico. Però questa cosa è iniziata dopo che è rimasto vedovo. Da quel momento, il pensiero compare sempre quando mi metto a scrivere. La povera F., speriamo riposi in pace. Forse dovrei pregare per lei. Forse è in Purgatorio. Non era una cattiva persona. Solo, era atea. Come M. Questo compromette la possibilità di andare in Paradiso. Poiché è per fede che siamo salvati. Però entrambi sono battezzati, quindi con la loro buona vita, pur non avendo mai pronunciato una sola volta il nome di Gesù per invocarlo, possono essersi guadagnati il Purgatorio. Forse la mia presenza potrebbe aiutare M. a credere alla vita eterna e a pensare a sua moglie come a un’anima sempre presente. Potrebbe sentirsi meno sconfortato. Forse cercherebbe la mia amicizia, per provare a credere. Ma ha già i suoi amici. Quante volte abbiamo provato a essere amici, non ha mai funzionato. La verità, secondo me, è che siamo amici, lo siamo sempre stati. È bastato condividere i tempi dell’infanzia, a Magognino, o da mio padre. Ciò ha fatto di noi amici d’infanzia. La colpa è mia se non ci siamo frequentati. Lui sarebbe sempre stato disponibile. Bisogna dire che una volta abbiamo provato a frequentarci, ma è stato il periodo in cui era appena morto mio padre, o stava morendo, e in cui da poco mi ero lasciato con l’E., ed ero piuttosto lamentoso, sapevo parlare solo dei miei problemi, perché occupavano la mia mente e mi ossessionavano. Non apprezzai, al tempo, come M. riceveva il mio dolore. Per lui tutto doveva essere solo divertimento e risate. Al tempo non lo sopportai, e lasciai perdere di uscire con lui e i suoi amici, perché capivo che davo fastidio. Forse è anche per questo che adesso fa tanto la parte di quello che si sente bene pur essendo rimasto vedovo. È divenuta una questione di principio, come se il fatto di non avermi aiutato quando ne avevo bisogno fosse sempre stato il suo modo di pensare in merito a questi problemi. Quante cose si possono scoprire con la scrittura! Questa cosa l’ho appena scoperta, non l’avevo mai pensata. Sono fragile, faccio fatica a fare amicizie (o forse sono diventato così dopo le numerose botte ricevute dagli amici negli anni in cui sono stato male e nessuno mi ha aiutato perché a quell’età non ne avevano voglia, nessuno mi è stato vicino come volevo io, tutti erano disponibili, sì, ma a continuare a fare le cose che volevano loro, a patto che fossi stato disposto e capace di adattarmi a loro), mi lascio andare al dolore, a gustare il dolore, a viverlo, e forse in questo esagero, nel senso che probabilmente ho anche usato i dolori che mi sono capitati come alibi per non far nulla e non vivere, soprattutto per smettere di studiare e allo stesso tempo per non iniziare a lavorare. M., invece, è più forte di me come persona. Questo sicuramente. Partiamo da questa premessa. Io sono una persona più fragile e debole, lui una persona più forte e solida. Questo va detto. Non tralasciamo di asseverare questa verità. Detto questo, però, bisogna dire, ci sono stati comportamenti moralmente sconvenienti, sia da parte dell’uno sia da parte dell’altro. M., negli anni della giovinezza, non voleva avere a che fare col dolore, e nemmeno oggi, vuole continuare a vivere la sua eterna adolescenza e tutto deve continuare ad andare bene nella sua vita. Ops, sei rimasto vedovo! Cosa fai adesso? Fai finta di niente. Non piangi, non batti la testa contro il muro, continui ad andare avanti come nulla fosse, con l’aiuto degli amici, come dici. Però di fatto gli amici sono come te, senza problemi, coi genitori vivi, continuano a uscire la sera e a fare casino e tu ti sei adattato a loro, loro non si sono mai abbassati a provare a vivere il dolore, a starti vicino nel dolore. Io, dal canto mio, ho forse esagerato un po’ troppo il dolore che provavo. È colpa mia se è successo mentre non avevo ancora un lavoro? Se mi fosse capitato mentre avevo un lavoro, continuare a lavorare avrebbe aiutato a superare il dolore, a vivere il lutto. Non certo uscire con gli amici la sera a far baldoria. Il lavoro, elemento costante e abitudinario, necessita di concentrazione che toglie il pensiero dai dolori, è ciò che ci vuole per superare il lutto. Mio fratello e mia sorella l’avevano, il lavoro. Io avevo lo studio, ma il dolore impedisce di studiare. Lo studio non è come il lavoro. Il lavoro ti costringe a concentrarti perché c’è di mezzo il sostentamento per la vita, è una questione di vita o di morte; lo studio, invece, ha una concentrazione labile, facile a spezzarsi, qualsiasi pensiero ossessivo lo distrugge. Non si riesce a uscire da un dolore con lo studio. Questa è la mia opinione. È vero che anche lo studio, se si intende come propedeutico al lavoro, è un lavoro in sé ed è questione di vita o di morte. Ma, chissà perché, il mio studiare nessuno l’ha mai preso sul serio. Io stesso non ci credevo. Mentre studiavo non ho mai creduto che sarei arrivato da qualche parte. Studiavo per diventare giornalista, figuriamoci. Scienze della Comunicazione. Quale altro sbocco avrei potuto avere? Il giornalismo era l’unica attività concepibile. Di pubbliche relazioni non se ne sarebbe parlato. Forse il marketing, la pubblicità. Ma marketing e pubblicità mi sono sempre sembrati la versione cattiva, meno nobile, del giornalismo. E allora, nella mia megalomania, ho puntato sempre al giornalismo. Solo che, dicevo, dove andrò a finire? Non sono certo il tipo che riesce a trovare lavoro in qualche giornale, non sono abbastanza bravo, lo si vedeva dai miei studi. Non ero uno da tutti trenta. La prospettiva iniziò a diventare essere giornalista in qualche testata minore, locale, o in televisione, in radio o su internet allora nascente. Cominciò a diventare la prospettiva di un lavoro precario, come facevano in molti, a meno di farsi il culo a quadretti per farsi un nome e una posizione come certi blogger. Una cosa così non mi è mai sembrata né appetibile né possibile per la mia persona. Non sono mai stato la persona adatta a fare il freelancer. La precarietà mi spaventa. Nonostante tutto, mia madre viene dal ceto contadino e ha la terza media, sono cresciuto con lei, ho assorbito e acquisito la sua mentalità che è quella del posto fisso. Il lavoro sicuro. Non avrei mai potuto fare l’artista, anche quando ho cominciato a vedere che non me la cavavo malissimo con la scrittura (mediante i corsi di Composizione Testi in Italiano e in Inglese). Di fatto, oggi mi trovo bene col posto fisso, col lavoro da dipendente in Amazon. Togliamo il fatto che sono scontento di lavorare per la grande multinazionale del consumismo. Che i miei valori sono negati ogni giorno. Mi consolo dicendomi che è l’unica cosa che sono riuscito a trovare dopo aver smesso di fare il frate a 36 anni e mezzo. Altro non avrei potuto trovare. E allora accontentiamoci. Se non c’è alternativa, quello è il posto in cui ti ha messo Dio. Questo è un buon criterio di discernimento (per capire qual è la volontà di Dio su di te). Ma c’è sempre un’alternativa. Anche solo quella di fare l’elemosina. Ma bisogna esserne capaci. Anche nella parabola del figliol prodigo si parla di uno che non è capace di fare l'elemosina perché si vergogna. Quindi è evidente che l’elemosina non è sempre un’alternativa, ho sbagliato a scrivere. Il figliol prodigo infatti va a lavorare, anche se si mette a fare un lavoro peggiore di quello che aveva presso il padre. Si mette a pascolare i porci. Poi si rende conto che avrebbe vita migliore anche solo come servo di suo padre e decide di tornare a casa. Suo padre, contro le aspettative, lo accoglie di nuovo come figlio. Ma questa è la parabola. Torniamo al discorso. I dolori mi hanno colpito quando non avevo ancora un lavoro, e questo rendeva la mia fragilità ancor più fragile. Come colpa, dicevo, posso aver avuto quella di esagerare i dolori e usarli come alibi per far nulla. Sfruttando la bontà di mia madre che continuava a mantenermi. Se proprio devo dir la verità, però, aggiungerei due cose. Una, credo che il mio modo di vivere il dolore sia quello giusto. Non bisogna cercare di far finta che non ci sia, come fa M. M. non vuole mai parlare del lutto, evita come la morte l’argomento di sua moglie morta, continua a ridere e scherzare e vuole far vedere a tutti i costi che è forte. Atteggiamento tipico del non cristiano. Il cristiano, invece, non ha paura di far vedere le debolezze. Anche a costo di sembrare troppo lamentoso. Ma è la Bibbia, in un salmo, a consigliare di considerarsi come bimbi in braccio alla madre nel rapporto con Dio. Quindi io mi comporto così. Mi lamento, sbraccio, scalcio, me ne sto tranquillo a riposare quando non c’è nulla di cui lamentarsi, e mi godo l’abbraccio del Padre. Lui accetta tutto da me, perché è Padre e mi ama fortissimamente. Quindi ribadisco che secondo me l’atteggiamento giusto per vivere il dolore è innanzitutto prenderne atto. E comunicarlo ai propri cari, ai vicini. Questi, si vedrà dalla loro reazione se sono amici o no. L’amico si vede nel momento della crisi. Se un amico è disposto ad abbassarsi per vivere il tuo dolore è un vero amico. Altrimenti è meglio lasciarlo perdere. Non deve essere solo presente come riferimento per le uscite e i divertimenti. Non è questo che vuol dire il: “Se vuoi, io ci sono”. Deve essere in grado di sopportarti mentre piangi e ti strappi i capelli e ti cola il naso e sei tutto scarmigliato e pazzo di dolore. Allora sì, è un vero amico. Se no, possa andare a continuare a divertirsi. Quando sarò in grado di divertirmi ti chiamerò. Forse. Ecco, è di questo tipo di amici che mi sono trovato circondato quando sono capitati i dolori. Non ho mai teso a colpevolizzarli troppo. Eravamo tutti troppo giovani. Tutti volevamo continuare a fare la nostra vita da giovani, studiare, divertirci, essere spensierati. È a me che sono capitate le sfortune, tutti mi hanno evitato. Nessuno voleva vivere, a quell'età, ciò che stavo vivendo. Li capisco. Però capisco anche che da allora non ho più avuto amici. Mi sono sentito abbandonato da tutti. Tutti mi hanno voltato le spalle. Hanno detto: “O ti adatti a noi, o cazzi tuoi”. Be’, è da lì che ho cominciato a isolarmi. E ho paura che M., oggi, stia vivendo una cosa del genere. È lui che si adatta agli amici spensierati e pieni di genitori, sposati, con lavoro e con vita perfetta. Non ha mai realmente elaborato il lutto, l’immenso dolore che porta perdere la cara moglie amata a 41 anni dopo tre anni di matrimonio. Si è appiattito all’idea che bisogna essere forti e continuare a fare la vita di prima, non parlare mai di ciò che è successo, giammai, perché si è già sofferto troppo. Anzi, meglio sia morta perché negli ultimi tempi, quando lei soffriva a causa del tumore alle ossa, si stava fin troppo male per lei. Meglio che sia finita, ora è il tempo di guarire e non pensarci più. A me, sinceramente, questo atteggiamento non piace. La morte della moglie in età giovane è un evento devastante, tragico, una cosa non probabile e che capita rare volte nella vita. Innanzitutto bisogna imbracciare il dolore. Capire cosa è successo e che non si sarà mai più quelli di prima. La vita non continua. Se la vita continua, è perché siamo cristiani. Essere cristiani, le radici culturali che abbiamo dentro perché le nostre società le hanno vissute per secoli, è ciò che porta a dire: “La vita continua”. Perché sappiamo che c’è vita dopo la morte e che per i buoni la vita dopo la morte è felice. Perché abbiamo imparato che i morti non muoiono veramente, non ci abbandonano, non lasciano la vita vuota, non fanno sentire mancanza ma sono sempre presenti. È in base al Cristianesimo che la pensiamo così, che siamo in grado di affrontare il lutto, dopo aver elaborato il dolore e preso atto del nostro nuovo stato di vita. Sei un vedovo 41enne, renditi conto di ciò che sei, sei un’anomalia, un mostro, non andare in giro per locali coi cosiddetti amici a saltellare come uno scemo facendo finta di essere come tutti. Non sei come tutti. Prendi coscienza di ciò che sei. Secondo me non sei in grado di affrontare il dolore, non è vero che sei forte, non sei in grado di accettare il tuo nuovo, mostruoso, da zoppo, stato di vita. Sei uno zoppo, uno strano, un’anomalia. Non sei più il ragazzino che girava per locali sui Navigli di vent’anni fa. Smettila di far finta che tua moglie non sia morta. Fallo almeno per lei, vivi il lutto, commemora la sua anima, la sua morte, la sua persona. Rendile tributo vivendo il lutto. Lo merita, non solo perché era una brava persona, ma per il solo fatto che è stata tua moglie. Ho finito, non ho altro da dire su questo argomento. Devo dire che con questo scritto mi sono preso la rivincita su M. e su tutti quelli che hanno vissuto il lutto meglio di me. È vero che viviamo in un mondo dove non si vuole vedere la morte. È semplicemente perché si cerca di evitare il dolore. È un mondo completamente scristianizzato, in cui si vuole evitare la croce. La croce non è più causa di salvezza. Non è più lo strumento con cui Nostro Signore ha salvato l’umanità. E lo dice uno che quando è sulla croce si dibatte e lamenta. Ma è perché sono anch’io figlio di questo tempo, nato e cresciuto in mezzo a comodità e mollezze, come se tutto fosse dovuto. Queste cosiddette baby-gang non sono altro che ragazzini terrorizzati dalla vita. Quando iniziano a prendere coscienza di cosa li aspetta nel futuro, il lavoro, la famiglia, i figli, i conti da pagare, una vita di povertà al fondo dei più bassi strati della società, ecco che iniziano a dar di matto e ribellarsi. La loro violenza non è che un modo di ribellarsi alla vita, non alla società. Non si ribellano alla società, si ribellano alla vita. I cattivi, lo dico sempre, sono le persone più paurose e deboli che ci siano. Sono le persone che non riescono ad accettare di vivere la vita così com’è, con le leggi buone che Dio ha dato. Sì, il mondo è la periferia milanese con le sue ditte ovunque e i suoi palazzoni, non è una natura incontaminata dove vivere sempre nudi con la tua Eva. Scordatevi i ditalini che facevate alla vostra Mary quand’eravate a casa, tuona il sergente di Full metal jacket. Sì, il mondo è quella campagna desolata che d’inverno sembra tanto triste e inospitale, piena di capannoni e di trattori che vagano qua e là, di animali chiusi a centinaia in stalle a ricordare anche la nostra condizione di prigionieri stipati. Povero ciccio della baby-gang, proprio non ce la fai ad accettare il mondo com’è. Vieni da me, derubami, malmenami, tagliarmi, mostrami quanto sei forte, sono pronto, sei tu la mia croce, il male permesso da Dio che mi santificherà, mi porterà in Paradiso. Sì, perchè io non reagirò, ti darò ciò che vuoi, al massimo cercherò di farti arrestare, perché sia compiuta la giustizia, poiché Dio è grazia ma è anche giustizia, e io amo il mio Dio e voglio fare cose simili a lui; ma mi lascerò fare, lascerò che il malvagio, l’unico vero pauroso, anche se si sente audace, mi faccia a pezzi e umilii la mia mascolinità affinché il mio essere agnello davanti al lupo mi porti in Paradiso. Grazie. E mentre lo farai pregherò per te, perché Nostro Signore ha detto di pregare per i nemici e per quelli che ci perseguitano. Perché sei un poveretto, o malvagio, e hai bisogno di preghiere più di altri, perché il tuo destino è il più infimo di tutti, tutti ti odiano in vita e, dopo, la tua fine è la morte eterna. Prego per te, o malvagio, affinché anche tu possa salvarti. “O Gesù, perdona le nostre colpe, preservaci dal fuoco dell’inferno, porta in cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della tua misericordia”, preghiera rivelata da Maria ai pastorelli di Fatima. L’altra cosa che volevo dire che è usare il dolore come alibi, negli anni dei dolori, non è stato per me solo un modo per smettere di lavorare e studiare, ma un’astuzia per smettere di studiare la merda che facevano a studiare a Scienze della Comunicazione e per poter mettermi a studiare ciò che volevo, grazie a Dio che mi ha condotto per i suoi sentieri, ho usato come alibi i dolori che mi erano capitati per convincere mia madre a farmi fare quattro anni di psicanalisi, una delle cose migliori che abbia fatto, a mio parere, se devo dire la verità, e allo stesso tempo per dedicarmi liberamente allo studio come lo intendo veramente, non quello che porta ad avere il pezzo di carta per esercitare la professione, ma quello che nutre e cambia l’anima, la accresce, la migliora. Ecco, questo penso. Dovevo dirlo. Mentre scrivevo ascoltavo la Messa da requiem di Verdi. 

20 commenti:

  1. Hai parlato di situazioni estremamente difficili in cui un essere umano può trovarsi nel corso della sua vita, credo che ognuno le affronti nel modo in cui riesce a superarle. Per dire, una signora che conoscevo io rimase vedova, e siccome aveva l'abitudine di andare a giocare a carte con le sue amiche, continuò a farlo anche dopo la morte del marito. Mia zia, che era sua amica, le fece presente che alcune persone criticavano questo suo modo di fare, che dicevano fosse irrispettoso verso il marito che lei continuasse a giocare a carte e fare salotto quando erano solo pochi giorni che suo marito se ne era andato. Lei gli rispose che aveva il bisogno materiale di uscire da casa, perché a casa propria ogni singolo oggetto, ogni angolo di ogni stanza le faceva venire in mente il marito e, purtroppo, la consapevolezza che ormai lui non c'era più, e concluse dicendo una frase che io, bambino, ascoltai con estremo stupore, una cosa tipo: "Se passo un'intera giornata a casa prendo una pistola e mi sparo un colpo in testa".
    Posso dire che, da adulto, capisco meglio il senso di quella frase. Un ateo non crede in consolazioni ultraterrene, quindi il suo modo di superare il dolore è tentare di continuare a vivere.

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    1. Capisco ciò che dici. Al tempo delle disgrazie, chiamiamole così, che mi sono capitate, ero ateo e non avendo lavoro non sono riuscito a trovare nulla a cui attaccarmi per andare avanti, mi sono bloccato. Ero troppo depresso per uscire con gli amici, mi sentivo un peso e non riuscivo a divertirmi, pensando che tutti notassero il mio stato e ne fossero infastiditi, dato che erano lì per divertirsi e non volevano vedere o pensare a cadaveri. Tra non molti anni mi lascerà anche mia madre e resterò solo, devo dire che sono convinto che sarà più che altro il lavoro ad aiutarmi. Sono convinto che Dio lavori nell’anima, come può far andare via un nuvolone nero dal cielo, così può pulire l’anima dalle sue oscurità. Ma il legame coi genitori ha anche a che fare col sostentamento, anche se diveniamo adulti e indipendenti la loro mancanza ci fa sentire un po’ più precari. Per questo credo sia fondamentale legarsi a un lavoro che fornisce un’entrata. Quando ho perso il primo amore anch’io non ce la facevo a stare in casa, per me era come la mia futura moglie, per cui capisco una persona che si è appoggiata per una vita su un’altra persona, trovandosi di colpo senza si trovi con un vuoto insopportabile. Penso però anche che amici che ti propongono di giocare a carte siano diversi da amici che ti propongono di andare in discoteca o a ubriacarti...

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  2. questo tuo scritto mi è stato di grande conforto, mi hai confermato ancora la presenza del purgatorio, quando se ben ricordo, nel 2017 Lui lo aveva abolito gettandomi nel grande sconforto.
    Sai, anche se la vita monastica è abbastanza salutare, io sono un grande peccatore, pur limitandomi al solo pensiero data la mia appartenenza ai mortidifame degli under 70.000

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    1. Naturalmente non posso confermarti l’esistenza del Purgatorio. Non mi baso su Dante ma su Platone, nel mito escatologico del ‘Fedone’, o forse in quello di ‘Repubblica’, non ricordo bene, è descritto un luogo intermedio dove si trovano le anime che hanno qualcosa da farsi perdonare, e finché la vittima non perdona, tali anime non possono risalire alle regioni superiori. È da qui che traggo che tra la perdizione eterna e la salvezza eterna c’è una fase intermedia purgante. D’altronde Dante fonda la sua teologia su quella antica, non ha mica inventato niente. I peccati di pensiero li definirei veniali quindi nulla di grave. I mortidifame vivendo già una vita da umiliati secondo me sono tutti materia da Paradiso.

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  3. Voglio credere che ognuno valuti il suo dolore in maniera differente, e a noi può apparire improprio o bizzarro, ma chissà se riusciamo a scorgerlo fuori dai nostri parametri, così come il discorso di andare in Paradiso o riuscire a staccate il ticket solo per un traguardo intermedio.. credo che a volte cerchiamo di inquadrare la vita come una soltanto, con azioni e reazioni catalogate, determinate, mentre invece, grazie proprio a Dio, siamo tutte personalità diverse, non sempre omologate, create per vivere e possibilmente rispettare alcuni canoni universali di buona convivenza, quelli che ci portano magari a essere giudicati come rappresentanti di "buona vita", il che a mio avviso, con i tempi che corrono, è quasi roba da santità..

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    1. Sono d’accordo, i tempi che corrono fanno di coloro che cercano di vivere rettamente già qualcosa di santo. Sono anche convinto che ci sia differenza tra santità e virtù. Virtù è essere bravi (es. mangiare regolarmente, essere bravi e onesti sul lavoro, affrontare con fortezza le prove della vita, essere saggi e sapienti), mentre santità è dare. La virtù non è accessibile a tutti, la santità sì, è questa la buona notizia del Vangelo. Più dai, più sei santo. L’esempio è Gesù, che ha dato tutto. È per questo che i santi sono tanti e tutti diversi tra loro. Non conta i traguardi che raggiungi, ma – come fa la vedova che dà due soldi di obolo al tempio, tutto ciò che ha, e Gesù dice che ha dato di più di quei ricchi che danno solo parte del loro superfluo – conta quanto dai.

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  4. Mi sembri ancora troppo legato ai tuoi dolori giovanili.

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    1. Sì è vero, è che mi hanno condizionato troppo la vita.

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  5. Caro Filippo, ti lascio un saluto.

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  6. Filippo
    Giornalista o scrittore?
    I giornalisti devono scendere a compromessi oscuri, pesanti e scrivere ciò che vuole chi fornisce il loro stipendio.
    Lo scrittore, come tu, qui, può invece avere la grazia della gratuità, dell'onestà intellettuale, della libertà espressiva, metodi e contenuti, che essa reca seco.

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    1. Anche il giornalista, se fa onestamente il proprio lavoro, può conservare la propria integrità. Però bisogna lavorare e avere coraggio.

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    2. Distinguiamo tra la statistica e le eccezioni... "eroiche".
      Queste, poi, si fanno prendere da fama e successo e diventano tuttologi he "sbroccano" ogni due giorni (ogni riferimento a Saviano è casuale).

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  7. Elaborazione del lutto: ha un tornare ad essere liberi, come risultato.

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    1. E la libertà non esiste senza responsabilità. In questo caso abilità nel fornire una risposta a sé stessi.

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    2. Può essere che non tutti abbiano tale abilità.

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    3. Allora non sono né saranno liberi.
      Qui si entra in una palude: l'aspettativa unana (ciascuno di noi ha limiti e problemi specifici) è che la realtà sia benevola e che la religione lo sia pure. Questo diventa il qualunquismo dei "diritti" (che non esistono).
      Invece la realtà esiste e i limiti pure,sono "duri" con noi.
      Accettare, com-prendere i propri limiti è faticoso, non di rado doloroso, ma libera energie e prospettive.
      Una sorta di paradosso: una volta che comprendo i limiti ho trovato la via per conviverci bene, come se non esistessero più.

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  8. Avevo lasciato un commento.... svanito. Mah.

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    1. Grazie.
      Algoritmi bislacchi di blogspot di censura automatica.

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