Parchi, biblioteche e psicanalisi

Mio padre diceva sempre che Manzoni non usava superlativi e che questo contribuisce a rendere la sua scrittura sotto le righe e delicata, equilibrata. Io ogni tanto i superlativi li uso. Esistono, perché non usarli? Hanno un preciso significato, se si vuole ottenere di trasmettere quel significato occorre usarli. Ho fatto per lo più mia, nella scrittura, la regola che mi ha insegnato mio padre parlando di Manzoni. Un romanzo lo vedo davvero al di sopra delle mie forze. Come, del resto, un racconto lungo. Non ho tempo. Il lavoro mi succhia davvero troppe energie. Non avrei tempo di mettermi a pensare a un romanzo e tenere nei pensieri costantemente la materia del romanzo. Perché è così che bisognerebbe fare. Il lavoro sarebbe così. Non si potrebbe pensare al romanzo solo quando ci si siede a scrivere. Oppure sì. Magari funzionerebbe. Però in questo secondo modo si procederebbe lentissimamente (ecco la necessità dell’uso di un superlativo). Dico così perché penso alle altre volte della mia vita in cui ho fatto un lavoro creativo (non sono tante). Ricordo che pensavo, pensavo, mettevo per iscritto qualche idea, poi uscivo, passeggiavo, prendevo il tram, e mentre pensavo, sul tram, mi veniva in mente un’idea su come procedere nel mettere insieme il materiale che avevo buttato giù. Era un lavoro di mente continuo. Pensavo solo a quello. Non avevo altri pensieri. Il mondo mi aveva fatto la grazia di non dover iniziare subito a lavorare perché mi manteneva mia madre, che ha sempre lavorato (santa donna). Dico: “il mondo” e non: “Dio” perché allora non credevo in Dio. E soprattutto perché non c’era nessuno, tra quelli che conoscevo, a cominciare dai famigliari per terminare con gli amici, che approvava il mio stile di vita. Semplicemente avevo lasciato l’università, avevo rotto in maniera dolorosa con l’unico amore della mia vita, mio padre era morto... come risultato mi ero chiuso in casa e per un paio di mesi non ero uscito. Al momento di uscire ho posto come condizione di fare psicanalisi. Mi sentivo davvero incapace di riprendere la vita senza quel tipo di supporto. Mia madre, che evidentemente non vedeva l’ora che iniziassi a vivere e lavorare, vedendomi in reale difficoltà, anche perché mi aveva visto scosso e abbattuto in conseguenza della morte di mio padre, dopo che per quattro anni ogni volta che andavo a visitarlo in casa di riposo tornavo distrutto (insomma la storia della morte di mio padre è un po’ complicata, basti dire che il litigio tra me, mia sorella e mio fratello su chi doveva occuparsene ha creato la situazione, voluta e condivisa da mio padre stesso, che morisse anticipatamente; insomma lui voleva andarsene, noi tutti non lo volevamo più tra i piedi, è stata una storia brutta), sostenne in pieno la mia richiesta di fare psicanalisi. Così, con la scusa di andare dal dottore iniziai a uscire di casa. Dopo poco mi fu di nuovo facile farlo. La prima visita dallo psicanalista mi sbloccò. Bastò il suo totale silenzio e la sua disposizione ad ascoltare. Partii cercando di spiegare le ragioni del mio bisogno di psicanalisi. (In realtà erano anni che volevo fare psicanalisi, da quando il professore di filosofia che era il mio mito disse: “Consiglio a tutti di fare un po’ di psicanalisi nella vita, come modo per conoscere se stessi”). Credevo di essere accolto come pazzo, folle, inguaribile e grave. Mi credevo un caso disperato; come tutti quelli che hanno problemi e pensano di essere gli unici ad averli, che i loro problemi siano irrisolvibili. I miei discorsi furono invece, sin dall’inizio, accolti con un sorrisino, una piccola flessione della bocca. Come se lo psicanalista stesse involontariamente comunicando: “Ne ho viste di ben peggiori”. Infatti poi, a conclusione del primo incontro, disse: “Non mi sembra lei abbia gravi patologie. Solo, dato che in questi ultimi anni ha vissuto varie situazioni dolorose, ha bisogno di sistemare un po’ i dati della sua vita, che al momento sono nella sua testa in forma confusa”. Bastò questo a sbloccarmi. Non dico che quattro anni di psicanalisi siano stati superflui, però ricordo proprio che questo primo incontro mi lasciò alleggerito, nuovo. In quei quattro anni, dai 26 ai 30, il mondo, come ho detto, nella fattispecie mia madre, mi ha permesso di vivere avendo come occupazione principale la psicanalisi. Finito l’incontro con lo psicanalista, continuavo a pensarci su, ne scrivevo ed elaboravo e mi preparavo per il successivo. (Che poi, per quanto potessi prepararmi, decine di volte, dopo essermi seduto, ho parlato di tutt’altro rispetto a ciò che avevo preparato). Quando uscire di casa non fu più un problema, iniziai ad andare a correre tutte le mattine. Rubavo letteralmente la macchina a mia madre, che ne aveva bisogno per il lavoro, e andavo a farmi una corsa prima delle nove. Poi riportavo la macchina. Tornavo a casa, facevo un’ampia colazione e mi mettevo a leggere o studiare. Andavo anche nei parchi. Anche nelle biblioteche. In quegli anni ho girato a piedi Milano in lungo e in largo. Siccome mi vergognavo di me stesso perché a 26 anni avevo lasciato l’università e non avevo un lavoro, evitavo le frequentazioni con quelli che all’epoca erano stati gli amici. Loro erano tutti andati avanti, col tempo si laureavano, iniziavano a lavorare, si sposavano, avevano figli. Ero fermo, un “bum” (come dicono gli americani). Avevo smesso di uscire con gli amici dopo che, nel 2005, morto mio padre, la sera stessa, come terapia, mi portarono in discoteca. Mi sembrò una cosa talmente idiota (mi aggiravo depresso tra le persone che ballavano), che per un po’ ebbi il rigetto degli amici. Ma poi, appunto, come ho detto, la vergogna di me stesso mi portava a evitare contatti umani. Ero solo, direi che è stato in quel periodo che è iniziata la mistica della solitudine. Andavo a correre, andavo nei parchi e iniziai a frequentare biblioteche. Dico: “biblioteche” perché, per mantenere l’anonimato, ne frequentavo più d’una. Appena mi accorgevo che iniziavo a diventare famigliare, iniziavano a riconoscermi, cambiavo. La principale era la Sormani, biblioteca importante, di livello nazionale, dove trovavo la maggior parte dei testi che mi servivano. Poi c’erano le biblioteche rionali, a Milano ce n’è una per zona. Le zone di Milano sono nove. Le biblioteche rionali servivano da appoggio per leggere e studiare. Lì facevo poca ricerca, naturalmente il materiale era più scarso, però sfruttavo i tavoli per studiare e di tanto in tanto facevo un giro tra gli scaffali leggiucchiando qua e là in funzione distensiva. Leggevo di tutto ma mi interessava soprattutto ciò che aveva a che fare col sacro. All’inizio, essendo famigliare con quel tipo di testo per via dei corsi universitari che avevo seguito, leggevo antropologia ed etnografia sui primi fenomeni di sacro nelle società tribali. Per dire che arrivai a leggere roba come Mircea Eliade e affini. Riti di passaggio, iniziazione. Quella roba lì. Verso i 27 finii sulla filosofia antica, quindi su Platone, da Platone, mediante il primo verso del Siracide (“Tutta la sapienza viene da Dio, / e rimane sempre con lui”) alla Bibbia, ecc. Lo psicanalista era ateo. Mentre facevo psicanalisi, diventai credente. Iniziai a pregare. Entravo nelle chiese e pregavo. A 30 anni contattai un monastero certosino (Certosa di Farneta, provincia di Lucca), lasciai la psicanalisi e feci la mia prima esperienza vocazionale. I monaci trovarono che ero un po’ a digiuno di vita ecclesiale, dissero: “Se proprio vuoi, ti prendiamo come sei; ma ti consigliamo di tornare a Milano e fare un percorso di discernimento con un direttore spirituale”. Mi consigliarono un padre carmelitano che stava a Monza, convento di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, il quale mi consigliò (meglio dire: “comandò”) di trovare lavoro e farlo per almeno due anni, durante i quali capire se la vocazione era autentica. Non trovavo lavoro, iniziai a lavorare con mio fratello che fa l’amministratore condominiale, ma non volevo lavorare con mio fratello. Mi misi a fare volontariato presso una onlus che si occupava di aiuto a famiglie di rifugiati politici. Conobbi la G., donna religiosa che mi condusse da don Galli a Orzivecchi, un santo sacerdote da cui molti si recavano per una buona parola o un consiglio. Era anziano, curvo e in sedia a rotelle (morì poi l’anno successivo). Come entrai nella stanza dove faceva le visite, iniziò a dire un’Ave Maria e subito mi venne da piangere. Gli esposi brevemente il problema. Nel frattempo, coi carmelitani, ero stato alla Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid (2011), dove avevo conosciuto p. J., americano, superiore di una comunità chiamata Fratelli Francescani Missionari del Cuore di Gesù e di Maria Immacolata, ispirata a San Massimiliano Kolbe e a Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo. Dissi a don Galli che avevo la vocazione, che ero pronto a partire ma il mio direttore spirituale voleva che trovassi lavoro. Disse: “Vai!”. Il 15 luglio 2012 andai nelle Marche, presso i Fratelli Francescani Missionari del Cuore di Gesù e di Maria Immacolata, per una settimana di corso biblico, alla fine della settimana mi fu proposto di andare nel Lazio a parlare con la madre fondatrice, madre M. E. P. Avevo già il biglietto del treno per tornare a Milano. Andai, parlai con lei, mi propose di iniziare il postulandato. Non usai il biglietto e mi fermai nelle Marche.

I parti dell’anima

Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore (Lc 2,19)


Se si legge Simposio di Platone si ricava la nozione di parti dell’anima. Parti nel senso di nascite, non partizioni. Avrei anche Simposio a portata di mano, ma non voglio andare sempre a citazioni. Voglio provare a fare un discorso a memoria e riportare a parole mie ciò che vi si dice. Per chi volesse controllare, ciò che sto per dire si trova nel discorso di Socrate, che è il sesto di sette. I sette discorsi di Simposio sono elogi di Eros e sono, in ordine, di Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate e Alcibiade. Sono importanti tutti, in ciascuno si dice almeno una cosa importante. I convitati si accordano all’inizio di trascorrere il convivio, invece di bere vino, facendo elogi di Eros. Il più importante dei discorsi, dal punto di vista filosofico, è quello di Socrate. Non tanto perché è di Socrate, ma perché è di una certa Diotima di Mantinea, con la quale Socrate un giorno ebbe una conversazione su Eros; il discorso che Socrate fa su Eros non è altro che la registrazione mnemonica della conversazione con Diotima. Diotima era un’esperta di Eros. La sua figura è importante anche perché mette in evidenza la considerazione che aveva Platone per la donna. In Platone gli eroi, per così dire, sono i giovani di nobile natura, proprietari di una sapienza che neanche sanno di avere, se non ci fosse Socrate a estrargliela con la tecnica maieutica. Se l’uomo ha un ruolo fecondatore, la donna ha il ruolo di raccogliere ciò che è stato prodotto e custodirlo, gestendolo ed elaborandolo. La memoria è una dote femminile. Socrate, in tutto Platone, con la tecnica maieutica, che ricalca, per quanto riguarda l’anima, ciò che la tecnica ostetrica fa per il corpo, ha un ruolo femminile. Aiuta i giovani a partorire la sapienza che hanno dentro. Dal dialogo Menesseno, ad esempio, emerge un’altra figura di donna sapiente e insegnante, Aspasia, la quale mi pare insegnasse grammatica ed era solita prendere a botte gli studenti somari. Se si prende l’edizione Bompiani, curata da Giovanni Reale, nell’Introduzione si può leggere un’interessante interpretazione di Reale sulla suddivisione in sette discorsi di Simposio. Per Reale, che, come tutti, considera Platone fecondo scrittore e pensatore, il filosofo avrebbe ingegnosamente architettato l’opera ricalcando il genere tragedia; le tragedie erano composte di tre parti più una, la cosiddetta operetta satirica. In Simposio si tratta di tre coppie di discorsi più l’insapettato discorso di Alcibiade che fa la parte del satirico. Per genere satirico si intende un genere basso, di stile e contenuto. È mia convinzione, dopo aver studiato a lungo Platone, che Platone non è affatto l’autore dei cosiddetti dialoghi socratici, come li chiamava Orazio, così come sono stati riportati. La verità è che i dialoghi socratici sono realmente avvenuti, sono stati registrati mnemonicamente e pian piano, un pezzo per volta, messi per iscritto. Si può verificare, da un lato, la procedura di memorizzazione e trascrizione leggendo l’inizio del dialogo Menone, dove è descritta nei particolari; per quanto riguarda le capacità di memorizzazione, è da tener conto che gli amici del passato erano molto più abili di noi in quanto a tecniche mnemoniche; c’era inoltre chi era più dotato di altri, come Ippia; basta leggere, ora non ricordo se Ippia maggiore o Ippia minore per contemplare un altro personaggio di tipo socratico, cioè mnemonico, che però era anche un po’ pirla, nel senso che, dato che aveva una gran memoria, si credeva anche un gran sapiente. C’è invece differenza tra la proprietà di sapienza, maschile, produttiva, generatrice, e la proprietà di memoria, femminile, accoglitrice, elaboratrice mediante operazioni logiche fredde. I discorsi che Socrate intrattiene con Ippia servono a dimostrare a quest’ultimo che non è un sapiente, ma solo uno mnemonico. Lui si credeva sapiente in quanto mnemonico, ma Socrate, che aveva partecipato ai misteri pitagorici, orfici e altro, ne sapeva di più, e conosceva meglio se stesso rispetto a Ippia. Ippia, siccome batteva tutti nelle gare di memoria, si credeva sapiente; il fatto è che nei ragionamenti aveva fatto un sacco di errori, e Socrate glielo dimostra col suo tipico procedere a domande. Platone non è stato altro che uno dei giovani che si sono intrattenuti con Socrate, uno dei registratori dei dialoghi conservati mnemonicamente, il raccoglitore degli stessi e il fondatore dell’Accademia, dove insegnava mediante i dialoghi. Ma i dialoghi sono occasionali. Questa è la cosa più importante da tenere a mente. Cosa significa occasionali? Significa che sono avvenuti una sola volta in un preciso momento storico e tra persone precise. Non manca un intervento, cioè una partecipazione o ispirazione divina. Vedere Teeteto per una disamina fatta da Socrate sulla tecnica maieutica; e Fedro per il discorso sulla scrittura come farmaco della memoria, che serve cioè a richiamare alla memoria, ma che di fatto rovina le capacità mnemoniche, perché non si fa più conto sulla capacità di ricordare e sulle tecniche mnemoniche. In Simposio, nel discorso di Socrate, che riporta la conversazione con Diotima, c’è il concetto di parti dell’anima. Si parla del Bene e si dice che tutti lo cercano perché ogni volta che vi ci si accosta si hanno parti dell’anima. Il Bene aiuta a partorire. Dove si trova il Bene, o il suo alter-ego, il Bello? Nelle cose buone e nelle cose belle. È per questo che gli uomini cercano costantemente le cose buone e le cose belle, perché a contatto col Bene e col Bello – che, si può dire, sono la stessa cosa – hanno generazioni nell’anima. Tali generazioni sono il venire alla luce di ciò che prima era nascosto, e non essendo ancora venuto alla luce causava doglie, sofferenze. “Tu hai le doglie”, dice Socrate a Teeteto, e procede col trattamento maieutico. Il Bene e il Bello hanno potenza maieutica in sé. Accostandosi a essi si genera. A questo punto, come spiega Socrate in Teeteto, spetta all’ostetrico dell’anima discernere se ciò che è stato generato è fantasma o cosa vera, se l’anima ha prodotto una falsità o una verità. Se ha prodotto falsità, la si elimina mediante confutazione; se ha prodotto verità, la si conserva mnemonicamente per poterla usare altre volte. “Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza” (Sal 127, 4). Da ricordare anche, come prova dell’affinità di linguaggio tra la Bibbia e Platone, il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8, 22-23). A questo punto, per confortare la tesi della occasionalità dei dialoghi socratici e della presenza in essi di ispirazioni divine, notate tra l’altro da Socrate in più occasioni mediante il ringraziare e il riferirsi alla divinità, ricorderei le parole di San Giustino Martire, cristiano dei primi secoli, che ha avuto un percorso di vita simile a quello di Sant’Agostino. Passato attraverso la filosofia, avendo testato varie dottrine, è arrivato al Cristianesimo e ha trovato che in esso c’è la verità. Una delle sentenze più note di San Giustino Martire, rintracciabile in qualsiasi momento nei suoi scritti, è qualcosa del genere: “Ciò che l’Antico Testamento è stato per il popolo giudaico in merito all’attesa del Messia, cioè del Figlio di Dio; così la filosofia greca, in merito alla stessa attesa, è stata per i popoli gentili”. Forse è di poco momento ricordare che in Sofista Socrate chiama due stranieri provenienti da Elea “dèi”? O che in Politico si parla di “regno di Dio”? Chi conosce Platone, e il suo discepolo Aristotele, è pronto per la Bibbia. Troverà un sacco di termini e concetti comuni. Nella Bibbia si trovano risposte a ciò che nei dialoghi socratici è domanda. Ho fatto di nuovo un resoconto della mia venuta alla fede. Nel mio piccolo, ai miei tempi sono stato un pensatore. Adesso che l’intelletto non è più forte come una volta, e che i risultati sono scadenti, lascio perdere. Ma non dovrei lasciar perdere. L’intelletto, come diceva la santa suora che ha fondato la comunità nella quale sono stato frate, è proprietà di Dio. È lui che decide come e quando farlo lavorare. Se vuole che produci anche in vecchiaia, te lo farà fare. “Il giusto fiorirà come palma, / crescerà come cedro del Libano; / piantati nella casa del Signore, / fioriranno negli atri del nostro Dio. / Nella vecchiaia daranno ancora frutti, / saranno vegeti e rigogliosi, / per annunziare quanto è retto il Signore: / mia roccia, in lui non c’è ingiustizia” (Sal 92, 13-16).

Impatti

Mi ha fatto conoscere Paolo Nori l’amica di un’amica. Direi che era il 2005. Mi mise in mano Bassotuba non c’è. Oggi, col senno di poi, direi così. Non è tanto che ci sono libri che prendono e libri che non prendono. È che ci sono età della vita in cui si è disposti a farsi prendere dai libri e età in cui no. Adesso, ad esempio, sono in un’età della vita in cui no. Non importa che libro sia. Ce ne sono ancora due o tre di Thomas Bernhard che non ho letto. Thomas Bernhard (conosciuto, tra l’altro, grazie a Paolo Nori) è uno scrittore che mi prende, è inevitabile. Però oggi non ho più l’età in cui divoro un libro. Prendo porzioni calcolate. Non mi faccio divorare da un libro. Ho un meccanismo di difesa. Da Paolo Nori e da Thomas Bernhard, ad esempio, mi sono fatto prendere e divorare. Sono autori che hanno avuto un impatto devastante sulla mia vita. Uso la parola: “devastante” per dire qualcosa non necessariamente di distruttivo, ma quasi e ad ogni modo tremendo, significativo. Non credo sarei dove sono, a fare la vita che faccio, con in testa i pensieri che ho, se non fosse per Paolo Nori e Thomas Bernhard. Sono entrambi atei, o meglio, Paolo Nori nasce come filo-anarchico, non crede in Dio e odia la Chiesa, mentre Thomas Bernhard, anti-cattolico, come dice lui stesso non si è mai interessato a Dio. C’è stato un periodo, appena tornato alla vita laicale dopo essere stato frate, in cui mi sono proposto di non aprire mai più un loro libro. “Un cattolico non può leggere i libri di Paolo Nori e Thomas Bernhard”. Dicevo così perché mi rendevo conto dell’influenza occulta e meno occulta che hanno sempre avuto sul mio pensiero. Oggi, dopo che la mia fede ha subito scossoni di ogni tipo (capita a tutti i cristiani), mi sento maturo sul lato della fede e non ho più paura di essere messo alla prova. Posso ascoltare qualsiasi argomento contro l’esistenza di Dio, magari non ho risposte adeguate ma, siccome scelgo di credere, la fede non è scossa. Anche San Giovanni della Croce, in Salita al monte Carmelo, dice che i perfetti devono attraversare la prova della nudità della fede, quando mancano i cosiddetti gusti spirituali, che sono la certezza che Dio esiste, i doni mistici come le lacrime, i sentimenti di amore verso Dio e il prossimo, ecc. C’è una prima purificazione, attiva, che riguarda gli attaccamenti sensuali del corpo, e una seconda purificazione, attraverso cui si deve passare se si vuole accedere alle vette più alte dello spirito, che riguarda lo spirito stesso; questa è passiva (la fa Dio stesso) ed è chiamata: “notte oscura”. Il santo ha composto il poema Notte oscura dell’anima mentre era in carcere dove l’avevano sbattutto i suoi confratelli perché voleva riformare l’Ordine. L’ha registrata a memoria perché non aveva niente per scrivere. Era incarcerato in una specie di cantina con pochissimo spazio per muoversi. In seguito, anni dopo la liberazione, ha commentato il suo stesso poema. L’ha commentato due volte, prima ha generato il libro Salita al monte Carmelo, poi Notte oscura dell’anima. Entrambi parlano degli stadi che si devono attraversare, in termini di vita ascetica e preghiera, per giungere alla perfezione spirituale. Sono anni che non leggo più un libro di Paolo Nori, l’ultimo che ho letto, I russi sono matti, l’ho letto un paio d’anni fa, dopo che mi sono proposto di leggere le ultime cose di Paolo Nori. Mi è piaciuto ma, come non sposerei un’atea, così ci metto un po’ prima di accostarmi a un suo libro. Ho letto tutti i primi libri di Paolo Nori, fino a quelli usciti nel 2006 circa. So che ce ne sono altri, ma ho smesso di leggere persino il suo blog quando la Russia ha invaso l’Ucraina. Ho anche buttato Guerra e pace, di cui avevo letto un terzo (ero arrivato ad Austerlitz). E sì che consideravo Tolstoj lo scrittore santo, data la conversione. Mentre Dostoevskij l’ho sempre chiamato lo scrittore psicologo, anche se cosa vuoi sapere cosa passa per la mente di uno? Sono tutte supposizioni. Gli unici russi che apro ancora sono il mitico Čhecov, poi Puškin e Gogol’. I giganti mi provocano un po’ di prurito. Dostoevskij, in particolare, era, ultimamente, un po’ troppo sfruttato dal russofilo Nori per le sue lezioni alle università, una cosa che mi ha portato a un senso di disgusto. Quando mi è stato messo in mano Bassotuba non c’è mio padre era in casa di riposo, avevano iniziato a mettergli un pannolone, cosa che abbatteva sia lui sia me, che ero, dalla figura del padre grande e forte, passato alla figura del vecchio debole e malato. Sarebbe morto pochi mesi dopo. In quei mesi passavo il tempo divorando i libri di Paolo Nori e, come conseguenza dell’immedesimazione nel protagonista, uno scrittore alle prime armi, ero trascinato nella mania della scrittura e decidevo in cuor mio che sarei stato scrittore, anche se poi non ho avuto il coraggio. Leggevo anche Thomas Bernhard e come risultato diventavo cinico, amaro, contrario alla gioventù e misantropo. Menomale che Dio mi ha salvato. All’inizio non me ne rendevo conto, ma ripensandoci oggi, quando sono diventato frate ero davvero sulla strada per diventare una persona odiosa. L’amore della madre fondatrice e dei confratelli mi hanno salvato. Da loro e da tutte le persone, consacrate, ordinate e laiche che ho incontrato da allora ho imparato tutto sull’amore di Dio e sull’amore degli uomini e, anche se resto un persona piuttosto solitaria e, sotto sotto, un pessimo elemento, sono pur sempre in costante cammino verso un me migliore. Una su tutte, ho imparato la preghiera, che vuol dire che anche se si vive soli si può fare del bene agli altri. Non a caso una santa che mi ha cambiato la vita con la sua autobiografia, Storia di un’anima, Santa Teresina, pur essendo morta di malattia a 24 anni e pur avendo vissuto dai 15 anni alla morte in clausura, è stata proclamata, oltre che Dottore della Chiesa, Patrona delle missioni, in quanto si era data il compito di pregare per alcuni missionari in particolare e per tutti i missionari, mostrando come si possa fare qualcosa per il mondo pur vivendo in solitudine. Oggi non mi privo più di Thomas Bernhard, che ritengo il più grande scrittore del Novecento. Dico scrittore, non filosofo o pensatore, c’è differenza. Ciò che Paolo Nori e Thomas Benhard mi sembra abbiano trovato è una scrittura, un modo di scrivere. Soprattutto una sintassi. Qualcosa che ha a che fare più col significante che col significato. Un modo di disporre le parole che trasforma il testo in scorrevole. Da qui la grande forza persuasiva dei due scrittori, la loro capacità di portarti dalla loro parte. Ho sempre pensato che se riesci a tenere incollato qualcuno a una pagina o a uno schermo, qualsiasi sia il trucco ritmico, cioè di velocità, di cambiamento continuo, o di luci e colori, che sei riuscito a inventare, a quel punto puoi sparare a questo qualcuno qualsiasi idea. L’idea entrerà in lui automaticamente senza che nemmeno se n’accorga. È per questo, credo, che Čhecov nei consigli di scrittura ad aspiranti scrittori dice di non rifinire troppo, ma a un certo punto di osare consegnando il testo così com’è. Osare, essere audaci. Non voler per forza essere piaciuti a ogni costo. Chi scrive perfettamente, come fa Gadda, o Borges, non è un uomo falso? Ci credo che la scrittura sembra perfetta, l’hai revisionata millemila volte! Ma rispecchia ciò che sei, i pensieri come ti sono venuti fuori la prima volta dalla mente? Non credo, non nasconderti dietro la scrittura, la scrittura dovrebbe mostrare più di ogni altra cosa ciò che sei. Čhecov è amabile, ma perché trovo che sia amabile Čhecov. Paolo Nori e Thomas Bernhard trovo siano persone al confine col disgustoso, se non comuni mortali pieni di difetti come tutti, ma che si sono creduti grandi perché hanno inventato qualcosa. Cosa hanno inventato? Una scrittura, un modo di scrivere. Ma forse è tutta invidia.

Single per costrizione e per scelta

La questione dei miei rapporti con le donne non è affatto delicata. Semplicemente, ho deciso che non avrò donne per il resto della mia vita. In aprile faccio 43 anni, sento di essere troppo incastrato nelle abitudini per permettermi di avere una relazione. Le mie abitudini sono troppo incrostate. Provo a spiegarmi: non ho voglia di cambiare abitudini. Ho sempre detto: “Se Dio vuole che mi sposi, metterà sul mio cammino una donna”. Da quando ho smesso di fare il frate, è capitato due volte che sul mio cammino arrivasse una donna. La prima l’ho conosciuta in ambiente psichiatrico, quando sono stato ricoverato. Lei si è segnata proprio il fatto che ero stato frate (chissà perché certe donne sono così interessate ai frati), tre anni dopo era ancora in una comunità di recupero psichiatrica, in quella comunità è andata una persona che ho conosciuto sempre in ambiente psichiatrico, da lei si è fatta dare l’indirizzo, mi ha scritto, ci siamo incontrati... Insomma, ha fatto tutto lei. Già non mi piace quando una donna fa tutto lei. È l’uomo che deve fare il primo passo. Mi dispiace dire che in questo modo avrò perso centinaia di possibilità di relazioni, solo perché non ho avuto il coraggio di fare il primo passo, però devo anche dire che se non riesco a fare il primo passo, e decide di farlo lei perché capisce che non riesco a farlo, le cose andranno comunque male. Non do così tanta importanza all’amore. Intendo l’amore eros. Trovo, tra l’altro, che non sia il criterio migliore per capire se due persone sono fatte una per l’altra. Quante volte l’innamoramento è fuorviante. Due persone si accoppiano a causa dell’innamoramento, dopo anni scoprono che sono completamente diverse da ciò che si aspettavano. Apprezzo quelli che resistono dando più importanza al sacramento che alla propria felicità. Un tempo esistevano gli speziali, c’è un bel passo del Teeteto platonico che, per descrivere la tecnica maieutica di Socrate, fa il confronto con la tecnica maieutica dell’ostetrica, e dice che l’ostetrica è la stessa persona che presiede agli accoppiamenti, come l’agricoltore, che è colui che conosce quale tipo di terreno è il migliore per il tale seme, procede all’inseminazione e al raccolto. Anche la seconda donna che ho incontrato in questi anni ha fatto tutto lei. Si ricordava che ero stato frate, in qualche modo ci eravamo scambiati i numeri di telefono, mi ha contattato scrivendo: “Ciao! Ti va se qualche volta ti giro qualche audio con qualche omelia o qualche preghiera?”. Certo che mi va! Peccato che ha 16 anni più di me. Sotto la spinta di un amico telefonico che abita nelle Marche, che mi diceva: “Fa’ così, fa’ cosà”, per due anni siamo andati avanti a messaggi sporadici. Lui mi diceva che avrei dovuto spingere per incontrarci. Poi è iniziato il periodo dei vocali, in cui io specialmente mi sono messo a nudo. Quando ci siamo incontrati (per andare a messa), ricordo benissimo, è scesa dalla macchina, ha visto la pancia e ha fatto una smorfia. Da allora anche i vocali sono diminuiti. Una volta mi ha mandato un messaggio per chiedermi se per caso provassi sentimenti per lei, perché lei, assolutamente, no (davvero lusinghiero), se dobbiamo portare avanti un’amicizia uomo-donna queste cose sono di complicazione. Peccato, lei a me piace. Ho dovuto mentire, facendomi del male, altrimenti il rapporto non sarebbe potuto proseguire, neanche sotto forma di amicizia. Al momento siamo a due, tre messaggi settimanali, sempre strettamente riguardanti la preghiera. Questa donna, siccome è andata in pensione anticipatamente ma poi si è resa conto che faceva fatica coi conti, avendo tra l’altro tre cani e tre gatti, avevo pensato seriamente che avrei potuto sposarla, pur essendoci differenza d’età. Alla fine, lentamente, mi ha messo al mio posto. Durissima è stata la volta in cui, parlando di Luca Ward, attore famoso come doppiatore, ha detto che le piacciono gli uomini come lui, coi capelli lunghi lisci. Mi sono rassegnato. C’è poi la questione sesso. Dall’ultima relazione che ho avuto, durata sei mesi, con la psichiatrica, ho ricavato un senso di noia e disgusto per il sesso. Bisogna dire che questa ragazza non era per niente bella eppure aveva sempre voglia di far sesso. Per me era un tormento, non sapevo più come uscirne. Ho fatto anche un discorso in cui spiegavo che per me il sesso non era più importante, ma lei s’impuntava e partiva con discorsi tipo che se non avevo voglia di fare sesso allora non l’amavo... Alla fine l’ho lasciata. Con la donna di 16 anni in più non mi dispiacerebbe fare sesso, è bella, ho già immaginato varie volte come potrebbe essere. Però forse è l’esaltazione della prima volta; per come sono fatto io, si finirebbe presto nella noia. Devo ammettere che se mi dicesse: “Sposiamoci e viviamo come fratello e sorella”, accetterei. Dubbio che mi è venuto più volte: questa donna mi interessa solo perché è bella e avrei voglia di farci sesso, o perché sono davvero innamorato di lei? Sarei disposto a mettere da parte le mie abitudini, o perlomeno a scendere a compromessi, per condividere una casa con un’amante degli animali? Non che abbia qualcosa contro gli animali, anzi! Col tempo ho scoperto che non abbiamo nemmeno le stesse idee politiche e religiose. Però quanto mi piace fisicamente...! Alla fine dei conti, tutto considerato, ribadisco che in primo luogo non ho voglia, e nemmeno capacità, di cambiare abitudini. Vado a letto e mi sveglio sempre alla stessa ora, faccio sempre la stessa colazione; quando ho giorni liberi, a meno che non abbia commissioni, mi piace stare in casa a leggere e scrivere piuttosto che andare in giro, a fare gite o visitare luoghi... È da anni che ho scoperto che il viaggio interiore per me è più soddisfacente che quello esteriore, e poi prendo esempio da Socrate, che non è mai uscito da Atene tranne tranne per due campagne militari (cf. Fedro). Cerco di praticare l’introspezione tramite preghiera e scrittura e posso viaggiare più con la mente, attraverso libri, film e meditazione, che attraverso il corpo. Se una donna mi costringesse a uscite domenicali, farei fatica a sopportarlo. Penso che più una coppia invecchia, meno sesso automaticamente fa. Anche questo mi viene da Platone. Sempre in Fedro, dove si parla di Eros, si dice che quando i corpi sono giovani può esserci un interesse per il corpo, ma che con l’andare degli anni farsi dei beni fisici lascia il posto a farsi dei beni spirituali, ossia dell’anima. Quali sono i beni dell’anima? Insegnamento, esortazione, tenerezze... Sto parafrasando, in Fedro è tutto espresso meglio. In ogni caso c’è un terzo problema, dopo le abitudini e la delusione del sesso, che mi fa non aver voglia di avere una relazione, e cioè il fatto che non voglio avere figli. So di essere un cattivo umano e un cattivo cristiano, ma è proprio che non solo mi sento vecchio per avere figli (anche se mio padre mi ha avuto quando ne aveva 49), è anche che non ho mai avuto voglia di avere figli. La vita religiosa era proprio la soluzione ideale. Mi rendo conto che c’è qualche difetto psicologico in questa mia non volontà di avere figli; d’altronde sono cresciuto da solo con la mamma; la mia famiglia è sempre stata divisa e disastrata. Non sono cresciuto con un ideale di famiglia. Forse è solo che in quanto figlio unico sono abituato ad avere la pappa pronta e sono pigro. Forse è solo per pigrizia, per la non voglia di crescere ed educare bambini, di darmi da fare, di non poter praticare le mie passioni, che non voglio avere figli. Quand’ero frate una volta chiesi di essere spostato da una parrocchia, dove avrei dovuto far catechismo e stare in oratorio a badare ai bambini piccoli, a un convento dove coltivavo l’orto e per il resto avevo tempo di dedicarmi ad Aristotele. So di essere un pessimo elemento e anche un pessimo cristiano. Riassunte, le tre ragioni per cui non ho una donna: abitudini, delusione del sesso e figli.

Il centro internazionale della calza

Il periodo in cui ho consegnato a Castel Goffredo è stato bello. Mi ha portato a pensare: “Se mi assegnano Castel Goffredo per sempre sono pronto ad arrivare alla pensione in Amazon”. Sono stato un illuso a pensare che l’assegnazione della zona fosse definitiva. Quando consegnavo a Castel Goffredo ero contento perché non dovevo combattere col traffico. L’80% delle consegne era in zone residenziali o in zona industriale, di queste il 20% era in aperta campagna. Avevo solo un 15-20% di consegne in centro storico, ma a Castel Goffredo il centro storico è minimo. Volendo, se proprio non avessi trovato parcheggio sotto casa del cliente, avrei potuto lasciare il furgone nella piazza principale, dove c’erano sempre parcheggi liberi, e andare a piedi in qualsiasi via del centro. Sarebbe stata una soluzione attuabilissima. Non avevo mai più di 10 o 15 consegne in centro. A Castel Goffredo mi trattavano bene. La gente di campagna è affabile. Se si abituano alla tua faccia, ancora di più. Una volta ho avuto una conversazione con un cliente al quale avevo rotto una tazza lanciando il pacco in giardino. Era praticamente l’unico ad avere una rete attaccata al cancellino che non permetteva di infilare le mani nei buchi in basso. La rete arrivava al petto. Bisognava infilare il braccio all’altezza del petto e lasciar cadere il pacco da quell’altezza. Per forza la tazza si era rotta. Mi era venuto vicino, aveva detto: “Ieri mi hanno lanciato il pacco in giardino, si è rotta la tazza, ho dovuto fare il reso”. “Ieri? Uhmmm, c’ero io, sono stato io. Guardi, mi dispiace, è stata proprio colpa mia, non so cosa dire”. “Vabbè, fa niente, ho fatto il reso”. “Scusi ancora!”. Non si è neanche arrabbiato. Le volte successive l’ho sempre trovato in casa. Arrivavo da lui verso le 14,00 perché di mattina facevo il centro e la zona industriale. Lo trovavo sempre che dormiva; usciva dalla sua villetta appena costruita con prato tagliato alla perfezione con gli occhi assonnati e abbagliati dal sole. Per via del fatto che era stato svegliato non era mai contentissimo, ma non era scortese. Nessuno, a Castel Goffredo, è mai stato scortese. Le uniche due erano la proprietaria del bar del centro e la receptionist di una ditta che si chiama Norman. La Norman non è la ditta più grande di Castel Goffredo. Le più grandi sono la Fulgar e la Transfilm. Bisogna tener presente che entrando a Castel Goffredo sotto il cartello con scritto: “Castel Goffredo” c’è la scritta: “Centro internazionale della calza”. Sono tutti calzifici. Molti sono piccoli, a conduzione famigliare. Le ditte che fanno la differenza sono quelle che invece di produrre la calza producono i filati. Queste sono soprattutto la Fulgar, specializzata in filati elasticizzati, e la Norman, che produce i filati per la Uyn, ditta francese di abbigliamento sportivo tecnico con una sede ad Asola, dieci chilometri da Castel Goffredo. La Transfilm, invece, è un corriere; hanno un capannone enorme con una trentina di baie dove attraccano i bilici. La Norman è la ditta di Castel Goffredo con la costruzione più moderna. Un cubo di vetro nero alle spalle del quale è attaccato il capannone. Gli uffici sono minimal. In un grande ambiente bianco dopo le porte a vetro automatiche c’è solo la reception. Peccato che la receptionist, una certa G., è un’idiota di dimensioni stratosferiche. Una ragazza coi capelli nerissimi e la frangia tagliata di netto che non mi ha mai salutato se non con uno: “Sgrunt!”. Al solo pensiero mi sale la rabbia per come si è permessa di trattarmi giorno dopo giorno, ho paura di non riuscire a trasmettere con le parole il suo comportamento e di non far capire quanto in effetti questa donna abbia perpetrato contro di me un torto quotidiano dal quale non mi sono ancora ripreso. Trattato con sufficienza per principio e ignoranza. Una persona a cui non è mai stato insegnato il significato della parola gentilezza. Siccome sei la receptionist della Norman, sei convinta di essere arrivata, di essere al di sopra degli altri. Non ti è mai passato per la mente di chiederti cosa significhi il termine creanza. Il corriere, specialmente quello gentile, siccome sei abituata ai Sikh e agli indiani che ti trattano con altrettanti: “Sgrunt!”, è una persona a prescindere da trattar male, con cui possibilmente non scambiare una singola parola. Non merita attenzione, bisogna continuare, quando arriva lui, a fare ciò che si sta facendo. Non bisogna rispondere ai saluti, ai: “Buongiorno!”, agli: “Arrivederci!”. Dopo un po’ mi ero abituato a entrare, lasciare il pacco sul bancone senza dir niente e andare. Non potevo sopportare una non risposta a un caloroso saluto. Era un affronto troppo grande. Mi sono sempre chiesto come potesse una ditta come la Norman, che ha agganci all’estero – una volta c’era un gruppo di svizzeri in visita con tanto di pass appeso al collo – o che comunque produce articoli d’avanguardia, dotarsi di una receptionist del genere, una paesana piena di sé che non ha imparato a comportarsi. Probabilmente è raccomandata. Nelle altre ditte le receptionist erano, qualsiasi fosse l’età, gentili. Il bello di Castel Goffredo è anche come sono nominate le zone. La zona industriale e una zona residenziale attaccata alla zona industriale (dove abitava il cliente a cui avevo rotto la tazza) sono recenti e hanno vie con nomi di città o nazioni estere. Via Oslo, Copenaghen, Praga, Stoccolma, Lisbona, Svezia, Stati Uniti, Parigi, Vienna, Grecia, ecc. Poi c’è la zona dei musicisti, altra zona residenziale; come mi piaceva consegnare in via Monteverdi, Mozart, Rossini, Ponchielli, Paganini, Grossi, ecc. Lì vicino c’è la zona delle città italiane, Firenze, Trento, Trieste, Venezia, Perugia, Genova, Bolzano, ecc. Naturalmente c’è anche la zona delle regioni, Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia, ecc. Poi c’è un’altra zona di non troppo recente costruzione, ma con le ville ben distanziate, non lontano dal centro; in questa zona c’è anche la villa di Norman Gorgaini, a suo nome arrivavano anche i pacchi alla Norman, per cui, facendo uno più uno... I nomi delle vie sono quelli dei grandi attori e registi italiani, De Sica, Sordi, De Filippo, De Curtis, ecc. Registi danno il nome anche a un’altra zona, da un’altra parte, più nuova e più recente, con le villette tutte ancora in costruzione, Fellini, Antonioni, Rossellini, Leone, ecc. Poi c’è la zona dei cantanti d’opera, Callas, Caruso, Aimaro, Kramer, ecc. Potrei continuare con le zone più antiche, dedicate ai poeti italiani o ai filosofi italiani o agli italiani illustri (Parini, Croce, Garibaldi), ma sono zone già più centrali che non hanno ricevuto una pianificazione regolare come quelle moderne. Verso la campagna mi piacevano la strada Fitzgeralda e la strada Mafalda. E via dicendo.