Condanna e ammonizione

Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. (1Cor 11, 28-29)

Perché San Paolo dice che se non si esamina se stessi prima di fare la Comunione si mangia la propria condanna?

Esaminare se stessi significa confessarsi. Lasciamo stare, per il momento, che al tempo di San Paolo non c’era l’assoluzione sacramentale mediante i ministri della Chiesa che è poi divenuta uso. Mediante l’esame di se stessi, la confessione, l’ammissione della propria colpa, oggi come allora, si ottiene il perdono dei peccati.

Se si mangia il Corpo del Signore senza essersi confessati e aver ricevuto l’assoluzione, i peccati ci sono ancora. La comunione con Dio (chiamiamola pure: “unione”) diventa, allora, condanna.

È da tener presente che l’unione con Dio è il massimo beneficio a cui l’uomo possa aspirare. L’unione con Dio porta grazie.

Se si è trovati pronti, ossia privi di peccato e puri, all’unione con Dio, non ci sono problemi, si è ammessi alle nozze con lo sposo, la somma unione.

Se non si è trovati puri, ossia privi di peccato?
Qual è la maggior grazia che Dio fa a una persona in stato di peccato?
Dio elimina il peccato, è la sua funzione.

Dio può però eliminare il peccato in due modi.
Se ammettiamo noi per primi il peccato, Dio elimina il peccato perdonando.
Se non ammettiamo il peccato, Dio elimina il peccato correggendo.

“Quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo” (1Cor 11, 32). La correzione può apparire punizione, a volte appare una sfortuna che capita, una perdita, un’umiliazione.

(Al lato pratico, come dicono i preti, la Confessione si può fare anche subito dopo aver fatto la Comunione o appena si ha tempo e possibilità, l’importante è fare la Comunione con l’intenzione di confessarsi).

L’importante è ammettere i propri peccati di propria spontanea volontà davanti a Dio. Questo genera assoluzione, perdono, misericordia da parte di Dio.

Qualora, invece, ci si ostina a non ammettere i peccati, si incorre in ciò che può apparire punizione, condanna. Dio vuole comunque rimuovere i peccati, ma senza la nostra previa umile ammissione è costretto a contestare il fatto che sosteniamo di non esser peccatori, è costretto cioè a rimproverare, ammonire, a evidenziare, far notare il peccato.

Chi ha mai subito un rimprovero sa che può far male. Una sfortuna che capita, incidente, malattia, contrarietà, può essere un modo che Dio ha per rimproverare e correggere, come, per dire, una bastonata.

Ecco la condanna di cui parla San Paolo in cui si incorre facendo la Comunione senza essersi confessati. Se Dio trova puri e pronti, si unisce; se trova con peccati, prima purifica, poi si unisce.

La pompa di benzina

Mogli e buoi dei paesi tuoi
(proverbio)


Un ragazzo riccio, biondo, alto, magro, che regge una cassetta di cartone originariamente contenente dodici cartoni di latte, ora piena di prodotti, si mette in coda; il ragazzo davanti, tarchiato, coi capelli rasati, in mano due tavolette di cioccolato da 750g, si gira.

“Uè, Vince’!”
“Oh! Ciao Artur”.
“Facciamo la spesa?”.
“Eh, sì”, dice Vincenzo. “Anche tu?”.
“Vengo sempre al Lidl quando ho finito”.
“Era impossibile... ho dovuto andarmene”.
“Cosa? Dove?”.
“Non lavoro più da Gianbattista. Non sapevi?”.
“Come?”, Artur guarda a sinistra e resta sospeso, corrucciando le sopracciglia e subito spalancandole. “È vero! Adesso che ci penso è un po’ che non ti vedo!”.
“Era sfruttamento. Mi faceva iniziare alle cinque quando non va un cazzo di nessuno a far benzina, e alla sera, anche se staccavo alle sette, mi faceva stare mezz’ora in più per pulire il cazzo di ufficetto!”.
“Ma dai!”, dice Artur, “non ci credo”.
“Sì, sono aguzzini”.
“Ti facevi il culo a lavare tutte quelle auto. E ora?”.
“Sto cercando altro”.
“Vieni da Bartolini! Lo dico al responsabile”.
“Sei matto? Vi ammazzate per due soldi, poi il traffico, il freddo d’inverno, il caldo d’estate...”.
“Hai ragione. Ti conviene andare al Centro per l’impiego”.
“Sì, ci ho pensato...”.
“Tocca a te. Ci vediamo!”.
“Ci becchiamo in giro!”. 

Il giorno dopo, Artur, come sempre, col cassonato rosso va a far gasolio. Trova, come una volta, Gianbattista magro e abbronzato, spazzolino brizzolato in testa, giacca tecnica gialla.

“Gianbattista! A cosa dobbiamo l’onorevole presenza?”.
“Ciao moldavo! Sono venuto per te, mi mancava la tua brutta faccia!".
“Ha parlato Brad Pitt!”.
“Sono solo passato, Imeria se la cava, anche se avrebbe bisogno di uno con le braccia forti”.

Gianbattista Pesenti è della Val Brembana, come il fu Aristide Pesenti, primo proprietario della pompa di benzina.

“Ho incontrato Vincenzo al Lidl. Dice che se n’è andato, non ce la faceva più”.
“L’abbiamo cacciato, quel napoletano, perché grattava”. Fa il gesto con la mano.
“Rubava?”.
“Nelle auto...”.
“Quelle da lavare?”.
“Sì”.
“Oh, piano con le parole”, dice Imeria; arriva asciugando le mani nello straccio, rossetto fin sulla carne e sedere abbondante nell’uniforme Eni, argento e gialla. “Hai qualcosa coi napoletani?”.

Solo dopo aver sposato Imeria, Gianbattista ha iniziato con l’agonismo, appassionato di arrampicata sin da ragazzo. Per un po’, dopo il matrimonio, hanno gestito assieme la pompa di benzina. C’era ancora Aristide a dare una mano, per passare il tempo. Quando la A.S.D. Climbing ha manifestato interesse, Gianbattista si è unito alla squadra per gareggiare da professionista, lasciando la pompa di benzina alla moglie.

“Quanti anni hai, Artur?”, dice Imeria. “Vincenzo ne aveva 26. Abbiamo dovuto licenziarlo. Più di un cliente si è lamentato perché sparivano telefoni. Ci siamo confrontati e ha negato. Ho detto: ‘Se te ne vai, non ti denuncio’. Abbiamo rimborsato i clienti sotto banco, quasi 2.000 euro m’è costato”.
“Stavo dicendo a Gianbattista che l’ho incontrato al Lidl, dice che è andato di sua volontà perché lo sfruttavate”.
“Cosa dice? Se si permette di mettere ancora piede qua lo strangolo, mariuolo!”.
“Ora come fate?”, dice Artur.
“Stiamo cercando. Per questo chiedevo quanti anni hai”.
“33”.
“Non sei stufo di Bartolini?”.
“Non ce la faccio più! Per arrivare a 1.500 euro devo lavorare fino alle sei. È così quando sei padroncino”.
“Con noi saresti dipendente, basta partita Iva. Ti diamo 2.500 euro, tredicesima, quattordicesima, ferie pagate... Qui, sulla provinciale, il lavoro non manca. C’è solo da farsi il culo a lavare le auto, servire i clienti, pulire...”.
“Ti faccio sapere!”.

***

Pochi fanno il Servito, più che altro si sta all’autolavaggio. I clienti di case e aziende vicine lasciano le auto e ripassano. Dopo le spazzole c’è da fare gli interni e lucidare. Mentre Artur è chino nel Mercedes nero, Imeria osserva il didietro.

“Così, vai a correre?”.
“Tre, quattro volte a settimana”.
“Che bel culo ti è venuto”.
“Grazie”.
“Se te lo fai toccare ti do l’aumento”.
“Certo, subito!”

Artur e Imeria fanno risate. Di fatto, Imeria inizia a non risparmiare pizzicotti e manate. Mentre lavano le auto assieme, volano doppi sensi.

“Passami lo straccio”.
“Ok”.

Imeria allunga la mano.

“Mettimelo in mano”.
“Ok...”.

Una sera, in ufficetto, dopo aver ricevuto una manata sul sedere, Artur si volta e spinge il bacino in fuori.

“Tocca ora, se hai coraggio”.

Imeria non se lo fa dire due volte. La mano si muove lentamente, facendo registrare alle due menti la durata del movimento e i momenti in cui si trova nello spazio tra il fianco di Imeria e l’inguine di Artur. Infine, arriva. Imeria prova una sensazione di morbido. Afferra ma non stringe, piuttosto fa un movimento circolare.

“Mmmh”, dice Imeria.
“Cosa facciamo, ora?”, dice Artur.

Imeria mette le mani sulle spalle di Artur e spinge, dolcemente. Artur fa due passi indietro. Arrivati a fine scrivania, manovrando sulle spalle lo fa girare attorno, due angoli, poi la sedia a ruote di pelle nera. Una spinta accentuata fa finire Artur a gambe spalancate.
Imeria abbassa la saracinesca.

“Gianbattista è sempre ad allenarsi e in trasferta...”.

Sono le penultime parole di Imeria, prima di tornare tra le gambe di Artur, inginocchiarsi e afferrare l’orlo della tuta.

“Il boss è stanco, ha bisogno di alleviare lo stress?”. 

***

“Cosa ha da dire al pubblico?”.
“Sono soddisfatto del risultato. Sono partito dal nulla, facevo il benzinaio e ora mi ritrovo a vincere un campionato nazionale. Chissà cosa mi riserva il futuro!”.
“È partito come scudiero di A.S.D. Climbing e ora gareggia addirittura per North Face. Come ha fatto a trasformare la sua vita e compiere una vera e propria scalata in pochi anni?”.
“Merito di mia moglie. Se non ci fosse stata lei a prendere le redini della pompa di benzina di famiglia non avrei potuto dedicarmi all’arrampicata a tempo pieno. È lei a occuparsi di tutto, il managment, le assunzioni...! Sa palpare le situazioni, una scopritrice e una sostenitrice! La A.S.D. Climbing, poi, ha avuto un ruolo fondamentale. Sono loro che mi hanno permesso di arrampicare da professionista. È stato con Riva che ho fatto i passi decisivi, le vittorie tra 2017 e 2019 le devo a lui. Poi c’è stato il Covid, che ha fermato tutto... gran batosta, ma anche gran tempo di riflessione e maturazione. Ho potuto perfezionarmi anche se non c’era lo stimolo della gara. Il rapporto con la montagna ha alimentato nel mio carattere la passione per la roccia e la libertà interiore. Abbiamo ripreso nel ‘22 coi campionati indoor e lì mi sono distinto tanto da essere scelto da North Face per rappresentarli. Un onore e una conferma. Da lì in poi ho iniziato a credere, credere di poter essere numero uno. Ringrazio tutti ma in particolare Dennis Ruzzenenti, AD di North Face, e naturalmente mia moglie Imeria!”. 

La giornalista lavora sola. Ha una telecamera digitale che gestisce in autonomia. Ha messo microfoni che si collegano via bluetooth uno alla propria camicetta e uno alla maglietta di Gianbattista. Avvicinandosi per staccarlo, sente l’odore. Gianbattista è inebriato dal profumo.

“Ti piacerebbe farmi l’autografo?”. 
“Dove?”.
“Sulla foto!”, dallo zaino estrae una foto di Gianbattista in allungo.
“Wow, che allungo, non ho mai visto questa foto! Che figo!”.
“L’ho scattata io... dove credevi volessi l’autografo?”.
“Da come l’hai detto, sulla chiappa!”.
“Ti piacerebbe farmi l’autografo sulla chiappa?”. Porge a Gianbattista un pennarello.
“Pare un trabocchetto... sai che sono sposato?”.
“Purtroppo, sì. So tutto...”.
“Ti informi, per i campionati...”.
“Non proprio... sono una fan! Anch’io arrampico, da dilettante. Ti seguo dai tempi di A.S.D. Climbing”.
“Come ti chiami?”.
“Gregoria...”.
“Gregoria, di dove sei?”.
“Pinzolo, Trentino”.
“Conosco... ‘A Gregoria di Pinzolo, gran arrampicatrice, un abbraccio roccioso. Gianbattista Pesenti’”.
“Ti stimo, sai?”.
“Vuoi stimarmi mentre andiamo a pranzo?”.
“Con il mitico Gianba Pesenti? Non dirlo due volte!”.

Gianbattista apre la portiera, Gregoria entra; fa il giro, entra, infila e gira la chiave.

“Aspetta”, la mano di Gregoria è sulla gamba di Gianba. “Sarai stressato dopo una lunga gara...”.
“A proposito di allunghi...”, Gianbattista slaccia il cordino dei pantaloni tecnici...

***

Gianbattista Pesenti e Imeria Capuzzi firmano il divorzio addì 22 febbraio 2024, Imeria col rossetto sulla carne e Gianbattista con la giacca tecnica gialla. Un nuvolone nero copre il cielo, intemperia sferza la terra. Non trapelano notizie sulla divisione dei beni. 

Commento a Cammino di perfezione, capp. 10-16

p. 58 (cap. 10): “chi perviene a questo grado”, “per belli che siano (…) dilettino la vista”.

S. Teresa riconosce che ci può essere bellezza nei corpi e il senso attraverso cui questa bellezza è percepita (vista). Riconosce poi che la bellezza delle cose create è: “motivo per lodare il Creatore”. Il creato, cioè, è bello nel complesso per il fatto di essere opera di Dio; inoltre, nel creato ci sono cose che partecipano della bellezza (bello in sé) più di altre. I corpi umani sono solo alcuni corpi, corpi particolari, ma qualsiasi oggetto della natura può essere ammirato dalla vista se dotato di bellezza (armonioso, proporzionato, ordinato, ecc.). S. Teresa mostra di essere consapevole, anche se non si sa quanto formalmente, dell’esistenza di una scala del bello, della quale i corpi materiali, terreni, creati, fisici, ecc. con la loro possibilità di essere belli non rappresentano che i gradini iniziali. Così come le cose spirituali sono più importanti di quelle materiali (l’anima del corpo), così i belli a esse relativi. Sulla scala del bello i posti più alti sono occupati da belli generali più che particolari e da belli relativi all’anima più che al corpo.

Così, un’anima bella è più amabile, ossia più degna di amore, di un corpo bello. S. Teresa passa poi a descrivere cosa significa avere un’anima bella, per mettere le monache in condizioni di riconoscere tale anima e sapere così come comportarsi con le persone, quali sono degne di un certo tipo di amore (devozionale) quali di altro (caritatevole).
Naturalmente le caratterizzazioni della santa sono tentativi di scienza in cui tutti possono e dovrebbero cimentarsi, in quanto la ricerca di ciò che è bello nel campo delle anime, delle azioni umane e dell’invisibile è l’impresa più ardua e allo stesso tempo più elevata. Passare tutta la vita a indagare sul bello, in tutte le sue forme, è la migliore delle occupazioni e una strada che porta a Dio, ossia a vedere (contemplare, perché “conoscere” è termine qui inappropriato) il bello in sé, il Creatore di tutti i belli, ciò che fa bella ciascuna cosa bella, Colui senza il quale niente di ciò che è bello è bello, ecc.

§2. Coloro che amano il bello terreno (dei corpi) sono spesso accusati di meschinità. Ma non vanno accusati superficialmente. L’impulso che li porta ad amare il bello è buono. È pur sempre: “il grande e astuto Eros” (Simposio). Tutte le persone sono amanti del bello. Quelle che lo sono in modo più intenso ne sono i più grandi seguaci e sono colmi di doti che dovranno portarli a grandi risultati, a cose felici e all’amore per Dio, il Bello per eccellenza. Con altra terminologia potremmo dire che i seguaci del bello sono cari agli dèi.
Il problema, però, sorge quando si fermano al bello materiale, terreno, corporeo, ecc. Bisogna educarli a salire sulla scala del bello, cosa che comporta imparare a riconoscere e ammirare il bello dell’anima e quindi innanzitutto le belle scienze e ciò che da esse discende, come le belle attività umane.
Coloro che sono portati al bello e tendono al bello sono infatti coloro che per natura sono dotati della condizione più favorevole per arrivare a contemplare, dopo un’adeguata e faticosa ricerca su tutte le forme di bello, materiali e spirituali, il bello in sé, che è Dio.
È errato quindi accusare categoricamente coloro che amano la bellezza dei corpi. Bisogna riconoscere che il loro amore per il bello ha radici più profonde e obiettivi più alti e che loro sono semplicemente, più o meno consapevolmente, a uno stadio precoce della contemplazione del bello. Semmai vanno commiserati e sollecitati a non fermarsi al bello percepibile, terreno, come uno, ad esempio, che intraprende la carriera di critico d’arte, ma a proseguire sulla scala e a spingersi nella ricerca e nella determinazione di altri belli. Istruiti in primo luogo sulla differenza tra anima e corpo e sulla preminenza di questa su quello, giungeranno a occuparsi soprattutto di belli spirituali.

p. 59, S. Teresa ha grande scienza e in ciò è davvero persona divina, lo si capisce quando dice cose come “vanno al di là del corpo”. Sa che ciò che è amabile nell’anima è più importante di ciò che è amabile nel corpo; capisce la predisposizione per il bello di coloro che “restano turbati” (Simposio) dalle bellezze terrene e invece di accusarli di meschinità li commisera e li esorta a concentrarsi su ciò che di amabile si può trovare nell’anima piuttosto che nel corpo e in base a ciò eleggere amici, favoriti e congiunti. Loda coloro che hanno capito ciò e, seguendo le tracce del bello, “vanno al di là del corpo”.
“scavando, troveranno oro”: quando si trova un’anima bella per natura, ovvero “non priva di doti” (Simposio), cosa può e deve fare colui che l’ha riconosciuta per incrementarla e migliorarla, per mettere a frutto le doti? Amare un’anima siffatta in modo degno consiste nel contribuire alla sua crescita, portando a compimento i beni di cui è dotata.

§3 (p. 59): “stabili”: carenza di S. Teresa (mi perdoni! E Dio mi aiuti a non dire empietà): chiama “stabili” le cose solide, cioè suppongo il termine “stabili” le venga proprio dalla consistenza concreta del mondo fisico, per cui si è anche portati a pensare che una cosa che si può toccare è certa e sicura (ad es. la bellezza di una persona, la ricchezza, ecc.). Ma la verità è che la realtà materiale, in quanto generata ha nascita e avendo nascita ha anche morte e tra nascita e morte ha corruzione, ossia degenerazione, ossia costante cambiamento. Il mondo fisico, fenomenico, materiale, terreno, ecc. è quello soggetto a divenire e pertanto instabile (e inconoscibile). Tutto ciò che si percepisce coi sensi non è in realtà né stabile né conoscibile. Solo ciò che è eterno può essere veramente bello sempre, e perfetto, quindi amabile e conoscibile. Qui S. Teresa usa il termine: “stabile” in modo, direi, filosoficamente non rigoroso. Vuole dire che si è illusi dalle cose che si toccano (“ciò che vedono (…), ciò che odono”) che proprio in quanto tali sembrano stabili perché più concrete e anche più evidenti, pertanto si tende ad attaccarsi a esse e si è portati ad amarle non sapendo che in realtà sono effimere, mentre le cose più degne d’amore sono quelle relative all’invisibile (che è fuori dalla presa della percezione).

Seconda parte di §3; §4: quando un’anima pur dotata non ha come obiettivo finale Dio. Discorso specificamente teresiano in quanto fatto a monache, le quali per la scelta che hanno fatto sono vincolate ad abbandonare un amore anche per un’anima molto cara se questa non mostra di avere come fine il loro stesso fine che è Dio. Qui S. Teresa dà una sorta di consiglio personale alle monache che trovano un’anima che seppur ben dotata non ha amore esclusivo per Dio. Con costoro, a meno che non si riesca a istigare in loro tale amore, suggerisce di non allacciare quel tipo di rapporto e di non perseverare, dato che i componenti di questo tipo di amore alla lunga: “dovranno andare in parti diverse”. In tali rapporti non si può arrivare all’amore perfetto.

Cap. 11, sottotitolo: “L’essere amati di tale amore è cosa sublime”; “tale amore”: l’amore perfetto, quello che innanzituto è passato dal corpo all’anima e che inoltre è per un’anima che ama Dio; “è cosa sublime”: per i beni che porta all’amato per via che coloro che amano in tal modo: “non tralasciano di far nulla per il profitto di chi amano; sarebbero pronte a sacrificare mille volte la vita per un minimo vantaggio dell’altra anima” (p. 59); in sostanza per tirar fuori quell’oro che si può tirar fuori scavando (§3).

[Ecco perché ultimamente mi viene da lasciar perdere amicizie e rapporti con coloro che magari ho amato o riconosco essere meritevoli quando vedo che non hanno passione per Dio. Non che voglia dimenticarle; verso di loro però mi viene da assumere un atteggiamento di distacco, non di amicizia devota, sottomessa; mi sento verso di loro benevolente ma in senso paterno. È probabilmente perché capisco che: “dovranno andare in parti diverse” e: “sanno di doverla abbandonare” (p. 59); “non ci si vuole attaccare a qualcosa che in un soffio sfugge di tra le mani senza che si possa trattenerla” (p. 60); ciò che capita quando l’amicizia non è fondata su Dio. Soprattutto pensando a quest’ultima frase, mi rendo conto che probabilmente ho sempre avuto questo atteggiamento verso coloro che chiamavo amici. Ciò è cambiato da quando ho conosciuto Dio, che è come dire che solo Dio permette di avere amici veri.]

Cap. 11, §1 (p. 60): fin qui, S. Teresa ha presentato tre tipi di amore:

1. amore cattivo (“Da questi ci liberi Dio”: §2).“disastrosi e insignificanti amoruzzi della terra”: indirizzati al corpo e: “alle cose del mondo, piaceri, delizie, onori, ricchezze, avrà qualche valore il fatto che uno sia ricco o possa offrire passatempi e distrazioni” (cap. 10, §4).
2. o a qualcuno che “non ama molto Dio” e da cui perciò ci si dovrà separare (cap. 10, §3).
3. amore perfetto: diretto a un’anima ricca di doti e che ama Dio sopra tutto e finalizzato alla crescita della stessa, al “vedere quell’anima ricca di beni celesti” (p. 60).

§2, amore cattivo: “temere che la persona amata muoia”. Egoistico. Si ha paura della mancanza che se ne avrebbe. (Ad es. amici di Socrate che il giorno dell’esecuzione piangono pensando sopratutto alla propria perdita e lui li rimprovera benevolmente; v. Fedone). Per questo ci si preoccupa delle sofferenze della persona.

Invece nell’amore perfetto, essendo la preoccupazione solo il raggiungimento della virtù da parte dell’altra anima, le sofferenze della persona si vedono come prove e pertanto non fanno soffrire, ma rallegrano perché le si sa cariche di frutti.
Le pene che ci si dà per il raggiungimento della virtù da parte dell’altra anima sono buone, vedi cap. 11, §1: “quante lacrime costa, quante penitenze e preghiere, quante [sollecitudini] nel raccomandare la persona amata a tutti coloro che si pensa possano giovarle. È una preoccupazione continua e un tormento assillante. Quando poi, nonostante sia parso di notare un miglioramento, la si vede tornare indietro, sembra che non si possa godere più di alcuna gioia in questa vita; non si mangia più né si dorme con questa preoccupazione”).

(19-10-2011)

Gastroscopia

Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne (Fil 1, 23-24)


Che stupida! Mi sono preoccupata solo della mia vita e del mio futuro, adesso mi trovo a combattere coi pensieri sulla morte. Alla malora la forma del libro! È davvero un brutto scherzo della natura... natura... dell’universo... di Dio o di chi per esso, del diavolo, di chi non so! Tutta concentrata sul libro, non pensavo ad altro; è davvero strana la vita, che scherzo! Forse è proprio perché non ho mai pensato alla morte mi sta succedendo questo. Chiamalo karma... o come vuoi chiamarlo. Ho fretta di scrivere, non ho voglia di pensare alla malattia. Pensavo solo alla mia realizzazione. Come manager mi sono realizzata, pensavo di salire ancora più in alto con la pubblicazione di un libro; così pensavo di passare la vecchiaia. Come posso esser stata così stupida e non aver previsto che poteva accadermi? Parlo, penso, ma con chi parlo? Parlo con Dio? Se non parlo con Dio, cosa parlo a fare? Pensare mi è sempre servito a chiarire i pensieri. È così che ho costruito la mia fortuna. Una bella carriera. Mi sono sempre sentita intelligente, più intelligente di altri. D’altronde è vero, non sarei divenuta manager se non fossi stata intelligente. Solo che adesso mi sento stupida. Stupida per non aver previsto di potermi ammalare. Meglio che continui a pensare, è l’unico modo in cui sono sempre riuscita a venire a capo delle situazioni. Chiamala meditazione, dialogo con se stessi... sono capace. Ecco con chi parlo, con me stessa. Serve, chiarisce le idee. Tutto in una volta, com’è possibile? La gastroscopia è chiara, ci sono cellule tumorali nel pancreas. E io che pensavo di vivere una pensione felice. Ho scelto io di andare in pensione a 67 anni. Potevo andare a 64. Ho scelto io di continuare, la Delta Acciai aveva bisogno di me. Potrei andarmene ma resto: perché avete bisogno di me, dissi. Che orgoglio! Ma l’orgoglio è sbagliato? E cos’è sbagliato, se non c’è Dio? Sono brava e lo so, sapevo il bisogno che l’azienda aveva di me. Abbiamo fatto una bella festa, chissà se qualcuno si ricorderà di me. Alessio sicuramente sì... dopo quello che gli ho fatto... secondo me la giarrettiera se la ricorda! Montanari, il nuovo AD, farà affossare la Delta. Come mi piacerebbe. Così vedrebbero, capirebbero la mia bravura. I manager si avvicendano e nessuno li ricorda. Anzi, i sottoposti odiano i manager. Non sono odiata, almeno, non mi è sembrato, nessuno me l’ha mai detto o fatto capire. Cosa faccio adesso col libro? Lo inizio o no? Ma se non so nemmeno come farlo, in che forma scriverlo! Proprio mentre stavo ancora decidendo se fare un trattato o un romanzo... ecco i risultati della gastroscopia. Che jella! È jella o karma? Cos’è il karma? Se fai un’azione, l’universo ha una reazione... ciò che fai si ritorce contro di te. O meglio, non necessariamente. Se fai del male, torna indietro il male, se fai del bene, torna indietro il bene. Ecco il karma. Ci credo? Non è la stessa cosa dire giustizia divina? Se c’è Dio, ovviamente... Chissà se c’è Dio. Mi sono dimenticata di chiedermelo troppo a lungo. Mi sono completamente disinteressata della questione. E adesso, eccomi qua a non riuscire a pensare ad altro. Se ho un tumore, devo morire. Comunque devo morire. Non avevo pensato sarebbe stato così presto... tutto qui. Ero concentrata sul pensiero del libro, il mio libro sulla musica. Eunice, perché non ho seguito il tuo consiglio, perché non mi sono iscritta al Conservatorio? La fede della nonna mi è sempre sembrata scontata, non ci davo troppo pensiero. Cara Eunice, può essere che avessi ragione... magari un Dio c’è. Magari dopo la morte c’è vita. Qualcosa, semplicemente qualcosa. Cosa c’è dopo la morte? Se non ci fosse nulla? Cristo, un uomo che è Dio... ma davvero? Ho pensato tanto nella mia vita, ma tante cose le ho considerate tralasciabili. La mia generazione non pensa a Cristo, non pensa a Dio. Sono più le volte che lo si nomina per prenderlo in giro, lo si bestemmia, ma ci si crede? Se non ci si crede, ha senso bestemmiarlo? Ecco il violino... magari mi metto a suonare e smetto di pensare. Non ho ancora deciso se il libro sulla musica deve avere forma di trattato teorico o romanzo. Ma come faccio a pensare al libro con questi risultati delle analisi? Gastroscopia... adesso c’è da fare la TAC. Economia aziendale, una facoltà che porta al lavoro sicuro, poi mi sono fatta strada. Nonostante la nonna abbia consigliato di continuare a suonare il violino e iscrivermi al Conservatorio. Nel mio orgoglio avevo paura di non riuscire a divenire virtuosa. Sarebbe andato bene anche essere normale orchestrale, non per forza solista. L’intelligenza per essere orchestrale ce l’ho. D’altronde, sono manager. Centomila euro l’anno non sono uno scherzo. Che scherzo! Dio, mi hai fatto proprio un bello scherzo. Filiberto sarà contento di sapere che ho un tumore... mi odia... non credo si sia ravveduto dopo il divorzio... ma non voglio saperne di lui; Giuliana, Elvio e Caterina... ormai grandi, ciascuno in una nazione diversa, Londra, Madrid, Copenhagen; Caterina finirà l’università, è l’unica che ha avuto il coraggio di fare Filosofia... ce la faranno anche senza di me. Se non fosse per loro potrei anche spararmi un colpo! Se aveva ragione la nonna? Magari ora è in Paradiso. La verità è che non mi fa nessuna differenza chiedere aiuto a Cristo o a Schwarzenegger... Barbie, vedrai, questo tumore non ti farà niente, sei indistruttibile, ha detto il dottor Ghidini... Barbara, non lasciarti sopraffare dalla morte. Sei stata stupida, hai mostrato di avere il cervello grande quanto una capocchia di spillo, il giorno dopo la pensione è arrivata la gastroscopia, ma ora non ti resta altro da fare che applicarti al libro sulla musica, pensa... in che forma? Giuliana, Elvio e Caterina, ecco un pensiero che deve occupare i tuoi giorni...

L’ingiustizia buona

Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. (Mt 5, 20)


La definizione platonica di giustizia è: “a ciascuno il suo”. Quando ciascuno ha ciò che gli spetta vige la giustizia.

Il cielo è il luogo dove regna la giustizia. In cielo tutto è perfetto. Nessuno, in cielo, svolge un compito che non gli spetta. A ciascun angelo è assegnato un compito e il compito è svolto con gioia, così come ogni comando di Dio. Il regno di Dio, o regno dei cieli, è il regno dove la Volontà di Dio è sempre portata a compimento.

La terra, ossia la creazione è, al contrario, il luogo dell’imperfezione e dove regna l’ingiustizia. L’uomo è immerso in un ambiente in cui tutto ciò che incontra è ingiusto. Sono rarissimi i casi in cui la giustizia è riscontrata sulla terra. In tali casi ovviamente agisce Dio, poiché è Dio l’unico a poter applicare la vera giustizia, Dio è l’unico giusto. Nessun uomo, per quanto denominato: “giusto”, può eguagliare la giustizia divina. “Nessun vivente davanti a te è giusto” (Sal 143, 2b).

L’uomo tenta di applicare la giustizia, ma la giustizia applicata dall’uomo altro non è che una nuova ingiustizia, quasi che l’uomo non sia capace di compiere azioni giuste.
Un poliziotto non deve forse usare violenza per catturare un malvivente? Deve far male all’altro e a se stesso. Le forme di pena non sono forse azioni di male? Non è possibile, sulla terra, applicare la giustizia – a meno che non sia Dio a farlo – senza mettere in atto una nuova ingiustizia. È la condizione umana.

Quale via ha mostrato Gesù per riportare la giustizia perduta anche sulla terra? La carità. Le uniche opere giuste sono in realtà le opere cosiddette buone, ossia le opere di carità; in altre parole dare.

Un ladro ruba un’auto. La cosiddetta opera di giustizia, applicare la legge e la giustizia, sarebbe recuperare l’auto, privare del maltolto il malvivente e restituirlo al legittimo proprietario. Come si è visto, un corso di azioni di questo tipo non sarebbe altro che una nuova ingiustizia.
Cosa si può fare allora? Lasciare il maltolto al malvivente. La misercordia è carità. Perdono significa dono.
Perdonare significa trasformare un originario gesto ingiusto in un gesto legittimo, facendone un regalo, un dono. A chi dà non va nulla, chi dà resta senza il maltolto, chi è destinatario di misericordia resta invece con qualcosa.

Se: “a ciascuno il suo” è la definizione di giustizia, lasciare tutto per vivere di elemosina è una forma di ingiustizia. Un esempio su tutti, San Francesco. San Francesco aveva un patrimonio, proprietà privata. Ha deciso di abbandonarlo per vivere di elemosina. Non è forse ingiustizia? Trovarsi a pesare sulla società... in certi stati l’accattonaggio non è reato?
All’uomo immerso nella materia non resta che commettere ingiustizie. Ma ci sono un’ingiustizia cattiva e un’ingiustizia buona. L’ingiustizia cattiva equivale a fare male, cioè prendere; l’ingiustizia buona equivale a fare bene, cioè dare.

È l’unico modo, per l’uomo, di operare affinché anche sulla terra – come in cielo – sia instaurata la giustizia. Non è certo la cosiddetta applicazione della giustizia, quella demandata al potere esecutivo.
Sono testimone di un’ingiustizia, ad esempio vedo un povero che non ha abbastanza da mangiare? Do del mio, faccio un sacrificio, mi privo di qualcosa che mi spetta – compiendo un’apparente ingiustizia – per riparare la circostanza ingiusta.
La misericordia, cioè il perdono, è dono. Mi hai preso qualcosa: ingiustizia. Te lo lascio, privandomi di qualcosa di mio: trasformo l’ingiustizia cattiva (prendere) in ingiustizia buona (dare).

Da non confondere, dunque, le opere della legge con le opere buone. Le opere della legge sono proprio ciò che nel Nuovo Testamento è deprecato. San Paolo parla apertamente di opere della legge. Altrove, nelle lettere cattoliche, si parla più genericamente di opere; si intende le opere buone, le opere di carità. Le opere buone sono ciò di cui parla San Giacomo nella lettera quando dice: “mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc 2, 18b).

Il finale della sceneggiatura

 All the centrifugal ways
our lives fall in and out of place
The Mars Volta

I. Lautaro
Generalmente, nei giorni piovosi non s’allenava. Aveva finito l’U.S. Open con un sesto posto che gli aveva fatto guadagnare 86.000 dollari. Nonostante le gare maggiori si giocassero negli Stati Uniti, Tiziano aveva scelto di restare nella Milano in cui era cresciuto. L’appartamento di Brera gliel’aveva preso il padre ancora a 19 anni, ora, dopo 20 anni, era ancora golfer professionista, itinerante, tutto l’anno, nei più importanti tornei del mondo. Con la morte del padre e l’eredità poteva permettersi di spostarsi, il fuzz di City Life e una signorina di nome Mary Ann l’avevano fatto propendere per un appartamento più ampio al Bosco Verticale, perciò aveva messo in vendita il suo.

Era un’insolita giornata piovosa di inizio giugno quando arrivò Lorenzo. Avrebbe sostituito Fausto, lo storico portinaio, l’estate. Tiziano quel giorno doveva solo riposare, era sceso alle sei per una corsa all’Idroscalo, alle sette e trenta rientrava con la colazione di California Bakery. Vide il signor Fausto mentre spiegava come si apriva la porta del gabbiotto e si fermò. “Salve, Fausto, è questo il ragazzo nuovo?”. “Sono io!”, rispose Lorenzo, “Piacere, Lorenzo”. “Tiziano. Abito al quarto. Ti troverai bene, qui”. “Sì?”. “Certo! Che squadra tieni?”. “Interista!”. “Benissimo! Sai chi abita al portone accanto? Lautaro Martinez, penso lo conoscerai”. “Lautaro? Come no? Un mio mito!”, disse Lorenzo. “Ma... aspetta... che ore sono?”, disse Tiziano e guardò l’orologio. Lo guardò anche Lorenzo, assieme dissero: “Sette e trentasei”. “Aspetta un secondo... vieni”, disse Tiziano.

Si avviò al portone con Lorenzo dietro. Sulla soglia guardò a destra, spalancò gli occhi e si voltò indietro: “Veloce!”. Lorenzo si affrettò e affiancò Tiziano. In quel momento, Lautaro, appena uscito dal condominio, camicia bianca, occhiali da sole e ombrello, passava lì davanti. “Buongiorno, Lautaro!”, disse Tiziano. Lautaro alzò la mano: “Ciao, ragazzi”. “Ciao”, disse Lorenzo. “Questo è Lorenzo, il nuovo portinaio per l’estate”. “Ciao, sono un tuo fan!”. “Ciao, Lorenzo... hai esperienza come portinaio?”. “No, è la mia prima volta”. “Cosa facevi, prima?”. “Ho lavorato in campagna”. “Bravo, un lavoratore. Mi raccomando, trattali bene! Ci vediamo!”. “Ci vediamo!”, disse Lorenzo. Lautaro si allontanò e sparì dietro l’angolo.

“Davvero lavoravi in campagna?”, disse Tiziano. “Certo”, disse Lorenzo, “per due anni”. “Ma... quanti anni hai?”. “28”. “Prima, cosa facevi?”. “Ho studiato Filosofia, ma solo la laurea triennale, a 23 anni ero laureato”. “Non hai fatto altri lavori?”. “Sì, il bagnino in un albergo con piscina, l’estate scorsa”. “Poi?”. “Poi, basta”. “E come passi il tempo?”. “Leggo, faccio sport e sono appassionato di cinema”. “Ho capito: un intellettuale! Immagino abbia scelto questo lavoro per leggere, ma non so quanto potrai, certi condòmini, qua, sono scassa! Chiedi a Fausto!”. “Se sono tutti come te, sono a posto!”. “Grazie, ma non farti illusioni”. “Ci proverò”. “Intanto ti saluto, vado su, faccio colazione e... pensavo di guardare un film. Sono golfer professionista, ho appena finito l’U.S. Open. La prossima gara è tra due settimane”. “Ma dai!”. 

“Dato che sei appassionato di cinema, hai consigli?”. “Certo, lo conosci Lei di Spike Jonze? Lo trovi su Netflix...”. “Spike Jonze... mai sentito...”. “È uno dei miei film preferiti... prova!”. “Va bene! Ti faccio sapere”. “Okay, buona mattinata”. “Anche a te”, disse Lorenzo. “Se avete finito, ti faccio vedere cosa devi fare con la posta!”, disse il signor Fausto dalla portineria. “Sì, certo!”, Lorenzo tornò a lezione.


II. Il manoscritto trovato a Saragozza
Alle dodici e cinque Tiziano scese per andare a mettere qualcosa sullo stomaco. Vide Briganese, l’imprenditore, terzo piano, allontanarsi dal gabbiotto e infilarsi nel portone. Al gabbiotto, trovò Lorenzo che fissava le chiavi di un’auto nella mano. “Allora? Come sta andando il primo giorno?”, disse. “Bene!”, Lorenzo alzò lo sguardo. “Quel signore ha detto di chiamarsi Pier Renato e mi ha detto di portare la sua Tesla all’autolavaggio”, disse Lorenzo. “L’ho detto che non avresti avuto tempo per leggere! Briganese è uno che la gente la fa correre...”. “Dice che ha un pranzo di lavoro e non può far da solo, ma non è questo il problema, sono altri due i problemi...”. “Cioè? Scusa se chiedo...”. “Non preoccuparti. Anzi, ti sto trattendendo. Magari devi andare...”. “Tranquillo, sto solo andando a pranzo. Ah, Lei è bellissimo! Mi è piaciuto, grazie del consiglio”. “Prego! Bene!”, Lorenzo era palesemente nervoso.

“Allora, che problemi ci sono?”. “Dunque... primo, ho la patente solo da un anno e non sono bravissimo alla guida. Secondo, aspetto un pacco Amazon”. “Non hai detto di avere 28 anni?”, disse Tiziano. “Sì”. “E hai la patente da un anno?”. “Sì, ma... è una storia lunga”, disse Lorenzo, “ha a che fare con Schopenhauer”. “Sembra complicato”. “Non lo è”, disse Lorenzo, “è che per un po’ di anni ho pensato che il filosofo dovesse vivere in un certo modo e non seguire le tendenze del mondo”. “Sembra più una cosa da Gesù Cristo”. “Non so, sono ateo” disse Lorenzo. “Anch’io”, disse Tiziano, “meglio lasciar perdere... Te la cavi col cambio automatico?”. “Mai provato”. “Andiamo bene... e questo è il secondo problema? Ah, no! Hai detto che aspetti un pacco Amazon...”. “Già...”. “Ti sei fatto arrivare un pacco sul lavoro il primo giorno?”. “Anche questa è una storia lunga, non voglio disturbarti”.

Tiziano guardò l’orologio. “Pazienza, non ho fame. Dimmi la storia”. “Ieri sera”, disse Lorenzo, “ho ricevuto un’email da quello che considero il mio mentore, il regista e, negli ultimi anni, critico cinematografico, Pirro, Ugo Pirro, non so se l’hai sentito...”. “Mai”, disse Tiziano. “Be’, una sera, nel 2016, lo incontrai a una proiezione di Celluloide, il suo capolavoro, un film che parla della produzione di Roma città aperta, il grande film del neorealismo”. “L’ho visto!”, disse Tiziano, “Dunque?”. “Dunque, Ugo Pirro dai 65 in su ha fatto critica cinematografica per la rivista Segnocinema, punto di riferimento per cinefili, la leggo da quando ho 19 anni. Quando l’ho incontrato, abbiamo scambiato due parole e mi ha dato la sua email, mi ha detto di scrivergli e da allora siamo in rapporto epistolare”, disse Lorenzo. “Fin qui, ci sono”, disse Tiziano.

“L’altra cosa che non sai è che sto lavorando a una sceneggiatura”. “L’avrei immaginato...!”. “Già. Solo che sono ancora al trattamento e sono bloccato, non so come fare il finale”, disse Lorenzo. “Un mese fa ho scritto a Pirro chiedendo aiuto; ieri, ha risposto. Dice di leggere un libro che s’intitola Il manoscritto trovato a Saragozza, sbloccherà, dice...”. “Credo di iniziare a capire...”, disse Tiziano. “Ieri sera”, disse Lorenzo, “era troppo tardi per andare in biblioteca, così ho comprato il libro su Amazon e ho messo l’indirizzo del palazzo. Devo leggerlo il prima possibile, ho fretta... non so come spiegare...”. “Fantastico... hai il blocco dello scrittore e questo manoscritto di Saragozza può sbloccarti”, disse Tiziano. “Più o meno...”, disse Lorenzo, “sì, direi che è così”.

Tiziano restò pensieroso. “Senti”, disse, “sto io in portineria, mentre porti a lavare l’auto di Briganese. Così, se arriva il libro, lo ritiro”. “Ma no!”, disse Lorenzo, “Non posso permetterti di fare una cosa simile. Mi licenziano subito se scoprono che un condòmino mi sta coprendo in portineria!”. “Tranquillo! Ho deciso. Se arriva qualcuno, sistemo tutto io. Tu, piuttosto, preoccupati di non distruggere la Tesla. Va’!”, disse Tiziano. “Sei sicuro?”, disse Lorenzo. “Sicurissimo! Va’!”. “Okay, allora vado e torno”. “Ciao”. “Ciao”. Lorenzo deglutì, strinse le chiavi in mano, sollevò il pugno e partì per il garage.


III. Il Legno 5 Honma
D’Amico aveva chiamato tutta la mattina. “Sareste i primi a vedere l’appartamento, è stato messo in vendita solo cinque giorni fa. Vedrete che è a casa, ha appena finito un torneo e quando piove... non s’allena”, disse alla coppia. Passarono il portone e arrivarono alla portineria, fuori dalla quale, già da lontano, si vedevano due persone in piedi, una ferma e l’altra che andava al garage. D’Amico stava per fare l’ultimo tentativo e guardava lo smartphone; alzando la testa, vide che la persona in piedi era Tiziano. “Signor Meati! Buongiorno!”. Tiziano aguzzò la vista, poi realizzò: “Simone! Come mai qui? Avete un altro appartamento in vendita o in affitto?”, disse. “Ma no, siamo qui per il suo! Ho provato a contattarla tutta la mattina! Poi ho detto: ‘Piove, sarà a casa’, ho proposto ai signori di fare un tentativo e loro hanno accettato”.

Tiziano estrasse il telefono di tasca. Tolse il Non disturbare e vide l’elenco di chiamate. “Stavo guardando un film e ho messo il Non disturbare!”, disse. “Scusa, Simone! Sono proprio terribile!”. “Fa niente! L’importante è che l’abbiamo trovata, avevo ragione a dire che l’avremmo trovata... Stava uscendo? I signori vorrebbero vedere l’appartamento. I primi! È contento?”. “Ma certo! Scusate, quando sono a riposo perdo il senso del tempo. Piacere, Tiziano Meati”, allungò la mano. “Mauro Paciotti”, “Livia Sanluigi”, dissero i due stringendola. “La serratura dell’appartamento è ad attivazione elettronica, solo io conosco il codice. Salgo con voi”. “Perfetto!”, disse D’Amico.

Tiziano digitò il codice, la serratura si aprì ed entrarono. Come la porta fu chiusa alle spalle: “Sapete, sono golfer professionista, nell’appartamento ci sono attrezzature per quasi 40.000 euro”. “Davvero? Sa che anch’io mi diletto di golf nel tempo libero?”, disse Paciotti. “Ah, bene!”, disse Tiziano. “È solo un dilettante”, disse la Sanluigi. “Di mestiere fa l’odontoiatra. Ci siamo sposati un anno fa”. “Possiamo permetterci un appartamento come questo solo grazie a Sanluigi senior, non so se mi spiego...”, disse Paciotti piegando le labbra.

“Sono contento per voi! Vuol vedere il mio Legno 5 Honma Beres?”. “Un Honma? Magari!”. “Vado a prenderlo. Intanto, guardatevi in giro. Entrate, entrate”. “Come potete vedere, già all’ingresso c’è un salone spazioso”, disse D’Amico. I due alzarono lo sguardo e fecero qualche passo. Tiziano tornò con la mazza. “Ecco”, disse; la passò a Paciotti. “Solo questa, costa 5.300 euro”. “Alla faccia! Ci credo: è giapponese...”. Paciotti si mise in posizione. “Provi, provi pure”. Per simulare il colpo, Paciotti sollevò la mazza alle spalle e questa trovò sul suo percorso la tempia della Sanluigi, la quale non fece neanche in tempo a urlare, perse i sensi e cadde.

“Oddio, oddio!”, disse Paciotti. “Cosa ho combinato!”. Una macchia di sangue cominciò ad allargarsi sul pavimento. “Livia! Livia!”, disse dopo essersi chinato. “Dobbiamo chiamare l’ambulanza!”, disse D’Amico. “Prima che arrivino, col traffico e la pioggia, perderebbe troppo sangue”, disse Tiziano. “Aiutatemi a portarla giù, la carichiamo sul mio Cayenne e la portiamo al Policlinico”. “Secondo me, sarebbe meglio chiamare l’ambulanza”, disse D’Amico. Intanto, Paciotti si era tolto la giacca e tamponava la ferita. “È anche colpa mia, siamo in casa mia e ho dato io la mazza al signor Mauro!”.


IV. I lacci magnetici
La prima cosa che Ehzaz fece, quando al gabbiotto non trovò il signor Fausto, fu, come al solito, telefonare. Aveva il suo numero da due anni e sapeva che se non c’era era perché stava lavando le scale o era in giro per commissioni. Quando sentì che era in autostrada verso la Calabria non pensò neanche a fare le telefonate di procedura ai clienti, due pacchi piccoli, piatti, potevano essere lasciati sulla mensola della portineria. Inoltre, aveva poca voglia di lavorare con la pioggia che esacerbava il traffico del centro. Andò via, convinto di non aver fatto nulla di male.

Ferretti, 81 anni, ex proprietario della storica macelleria di via Torino, chiusa da tre anni, odiava Amazon. Vi attribuiva la perdita di accessi al centro storico e dunque anche la prematura chiusura dell’attività di famiglia. Il genero aveva optato per una tabaccheria in periferia, la figlia per la casalinghità. Passando accanto al gabbiotto, vide i due pacchi incustoditi sulla mensola. Alzò il bastone: “Dov’è il portinaio? Sempre assente! Maledetti pacchi in giro dappertutto! Spetta a lui distribuirli e non lasciarli sotto gli occhi di tutti!”, disse ad alta voce, anche se nessuno ascoltava.

Prese i pacchi, andò al portone e li buttò in mezzo alla strada. “A quest’ora il portone dovrebbe essere chiuso!” e lo sbattè, poi prese l’ascensore e salì al proprio appartamento. Due ragazzi, usciti, prima del tempo, dal Liceo Artistico, arrivavano in quel momento e assistirono da lontano. Giunsero ai pacchi, si guardarono attorno, notarono che nessuno passava, li presero. Quando furono dietro l’angolo li aprirono, in uno c’era un libro, un certo manoscritto di Saragozza che fu subito cestinato, nell’altro due paia di lacci magnetici per le scarpe da ginnastica, ultima trovata fra le cinesate amazoniane. “Wow, che culo! Un paio a testa!”.


V. La Tesla Model S
Briganese tornò da pranzo alle due e dieci. In portineria non c’era nessuno. Volendo vedere se l’auto era già al proprio posto, notò gocce rosse dall’ascensore al garage. Lorenzo entrò in quel momento. “Signor Pier Renato...”. “Dov’è l’auto?”, disse Briganese prima di rendersi conto che nella mano di Lorenzo c’era un foglio. “Cos’è quello?”. “Signor Pier Renato, purtroppo è successa una cosa...”, disse Lorenzo. “Cosa hai combinato alla mia Tesla?”.

Lorenzo mise in mano a Briganese il foglio. “Non ho fatto niente... mi hanno tamponato. Ho fatto una frenata brusca e... mi hanno tamponato, ecco la constatazione amichevole”. “La mia Tesla Model S! Ha solo un anno!”. “Mi dispiace...”. “Almeno hanno riconosciuto la colpevolezza o ti sei fatto prendere in giro?”. “È tutto a posto”, disse Lorenzo, “la signora aveva i figli con sé, ha detto che si è girata per rimproverarli perché urlavano, quando di nuovo si è girata ha visto che ero fermo e non ha fatto in tempo a frenare...”. “Menomale!”, disse Briganese, “almeno, paga l’assicurazione”.

Briganese mise la constatazione in tasca e si avviò all’ascensore. “Pulisci le macchie”, disse indicando. “Okay, signor Pier Renato”, disse Lorenzo. Appena Briganese fu sparito, Lorenzo prese il telefono e guardò l’email; il pacco era stato consegnato a un receptionist di nome: “Fausto”. “Com’è possibile?”. Guardò nel gabbiotto: nulla. Aprì l’app Amazon, selezionò Compra di nuovo e acquistò, mettendo, stavolta, l’indirizzo di casa.

La pioggia stava per smettere.

L’agone dell’amore

Tra circa un’ora devo uscire per andare a messa. Sono le 15,40. Alle 16,50 voglio uscire in modo da arrivare in tempo per il rosario. Alle 17,30 c’è la messa, finirà tra le 18,00 e le 18,15. A quel punto, armato di ombrello, camminando lentamente magari posso recarmi a giocare il Superenalotto. Il solito euro. Non mi interessa spendere tanto. Se devo vincere vinco. Se Dio ha stabilito che devo vincere vinco. A parte che non ce l’ho neanche, l’euro. Sono senza contanti. Non sto a prelevare pur di giocare al Superenalotto. Non me ne frega niente. Se avessi l’euro già in tasca sarebbe un altro discorso. Invece andare a prelevare, magari anche solo 20 euro, per poter giocare un euro al Superenalotto, non lo faccio. Che poi finisce che, dato che ultimamente in preghiera ho chiesto al Padre di farmi vincere al Superenalotto o al Gratta e vinci, se arrivo alla tabaccheria con 20 euro in tasca è la volta che faccio anche il tentativo col Gratta e vinci. Io, che non ho mai giocato al Gratta e vinci. Non voglio prendere l’abitudine. Già spendo male i soldi.

Dovrei fare più straordinari. Se lavorassi come M. e rientrassi sempre alle 19,00 guadagnerei almeno 250 euro in più, non sono pochi. È che sono sempre fissato col riposo. Col tornare a casa presto. Col far vedere che finisco prima. Sono anche legato al modo di pensare competitivo che mi è stato trasmesso i primi anni. Sono vittima, uno di quei deficienti che vogliono far vedere che sono veloci e che rientrano prima, come C., P., C., molti di Arcobaleno, Global Post, G.B. Autotrasporti, Adecco, Deliverando e M2. Siamo proprio deficienti. M. invece, insieme a B., B., C., F. e S. è uno di quelli che hanno capito tutto. Loro sì che sono intelligenti. Noi siamo gli scemi, loro gli intelligenti. Se rientrassi alle 19,00 riuscirei ancora a riposarmi sufficientemente. Inoltre, troverei meno traffico in tangenziale. È vero, lavorerei più tempo, diciamo tra la mezz’ora e l’ora, ma le consegne fatte senza fretta e affanno farebbero stancare meno. Secondo me, pur lavorando un’ora in più sarei meno esausto. Invece ho la fissazione di stare sulla strada poco e rientrare il prima possibile.

M., rendiamoci conto, fa l’ultima consegna alle 18,00. Fare l’ultima consegna a quell’ora significherebbe, facendo gasolio, fare il debrief alle 18,40-18,50 e timbrare alle 19,00-19,10, esattamente come M. Lui è il vero furbo. Fa le scarpe a tutti. Tutti gli parlano alle spalle e credono sia più incapace di loro perché più lento, intanto porta a casa 250 euro in più.

Ma come fare a rallentare? La mattina non se ne parla, voglio lasciarla invariata. Recarsi alla prima fermata il più velocemente possibile e cercare di fare le attività entro le 12,00-12,30-13,00, che poi chiudono. Poi devo abituarmi a fare pausa, mangiando magari cioccolato, qualcosa che dia un boost senza appesantire. Non posso mangiare pane o pasta o carne, tipo panini di MacDonald’s o Burger King, cose che si piazzano sullo stomaco e non sono digerite per ore. Va bene la barretta proteica – che poi possono essere anche due o tre, tenendo conto del mio peso. Se faccio pausa, cosa che nella mia immenza dabbenaggine non faccio quasi mai, già passa mezz’ora. L’altra mezz’ora posso perderla rallentando. Vuoi mettere lavorare senza affanno e fretta? 

Non è che mi stia divertendo a scrivere queste cose. Sto ragionando di cose pratiche in scrittura. Sto parlando di lavoro, mentre almeno, in questi giorni di ferie, dovrei lasciar stare il lavoro.

***

Potrei pensare ad A. A. è una bella signora. Mi piace fisicamente. Perdonami, Gesù, se scrivo queste cose. Ma andrei a letto volentieri con lei. Chi era, però, quel poeta che diceva che è duro, in età avanzata, tornare all’agone dell’amore? Si tratta di fare confronti, sottoporsi a giudizi, faticare. Forse Ovidio. 

A chi non piace pensare a cose sessuali? L'anticipazione, fatta con l’immaginazione, può essere anche meglio dell’atto. I pochi a cui non piace sono come quei pochi – che pur s’incontrano, ogni tanto – a cui non piacciono i dolci. Come fanno a non piacere i dolci?

Da un lato c’è la questione stendhaliana. Stendhal dice che l'attrazione per le parti intime nasce da un fattore sociale e culturale, cioè dal fatto che sono coperte e c’è il divieto di vederle o toccarle. Gli animali, ad esempio, vanno in giro nudi e se ne fregano. Si vedono e si annusano le parti basse. Gli esseri umani no. Non le vediamo mai e perciò siamo attratti da esse come siamo attratti dalle cose proibite. Più una cosa è negata, più la si vuole. È il principio della Legge. Il peccato nasce dalla Legge, la forza del peccato è la Legge, lo dice anche San Paolo (cf. 1Cor 15, 56).  

I genitali, inoltre, non sono legati agli escrementi? C’è una ragione se Dio ha demandato agli stessi organi l’espletamento dell’attività sessuale e dell’attività escrezionale. In quanto apportatrici di piacere, le parti intime sono desiderate e lodate; in quanto espletatrici delle funzioni escrezionali sono invece disprezzate e considerate ignobili. Hanno questa doppia natura, questa ambiguità. Lasciando pure da parte il discorso stendhaliano, si può dire che da un lato le cerchiamo perché se stimolate provocano piacere, dall’altro le fuggiamo perché ci fanno schifo in quanto intrise di escrementi. Dobbiamo lavarle bene dopo la minzione, solo allora possiamo dedicarvici per l’amplesso.

Il pensiero platonico sui piaceri afrodisiaci lo troviamo soprattutto in Protagora. Nel dialogo che Socrate fa col grande sofista si dice che la pratica prolungata dei piaceri afrodisiaci porta mali, in particolare malattie veneree e altre malattie in vecchiaia. (Sarebbe da confrontare con quanto dicono oggi gli scienziati, che parlano, ad esempio, del fatto che un uomo deve eiaculare un certo numero di volte al mese per stare in salute). Il discorso diventa allora che privarsi dei piaceri presenti, cosa che potrebbe sembrare sulle prime un male, diventa un bene in quanto preserva da mali futuri maggiori.

C’è poi il dialogo Filebo in cui si affrontano nell’agone dei discorsi il titolare Filebo e Protarco, uno sostenendo che è meglio la vita dedicata ai piaceri del corpo, l’altro la vita dedicata alle attività intellettuali e spirituali. Socrate, inizialmente arbitro, arriverà a sostenere che il tipo di vita migliore è il tipo misto. 

L’animatore

Benedite e non maledite (Rm 12, 14)


Oggi è San Biagio, grande festa a M., Ciociaria. Chissà se mi ricordano. Se lo fanno, sicuramente è per parlar male. Che brutta abitudine, la maldicenza eletta a regola di vita. Come fanno a vivere? Non si rendono conto del male che fanno agli altri e a se stessi. Sì, perché la maledizione ha effetto e inoltre è peccato. Uno pensa che le parole non contino, invece la calunnia ha effetto, le parole contano.

Le parole trasformano l’anima. Una persona che ha parlato male di un’altra persona si comporterà in modo diverso quando le si trova di fronte. Una persona che ha ascoltato maldicenze su un’altra persona si comporterà in modo diverso quando le si trova di fronte. Le maldicenze non sono solo un modo per far male, spesso sono anche calunnie, cioè false. Chi le fa, pertanto, commette doppio peccato, il primo, fare male, il secondo, dire falsità, bugie. Quanto è dannosa la maldicenza. Fa male a tutti.

C’è la possibilità che a dire male di una persona si azzecchi, c’è un detto che lo dice. A pensare male il più delle volte si fa centro, e certo, chi non è peccatore? C’è però un altro detto che dice: “A sospettare si attira il demonio”. Come faccio a sapere se una persona ha fatto o meno il male? Come faccio a conoscere i peccati di una persona (a meno che non li abbia visti direttamente)? I peccati si dicono solo al confessore.

Dire male dicendo la verità corrisponde al biasimo. Il biasimo è rimprovero. Okay, ma allora bisogna dirlo in faccia, non a terzi. Anche nel Vangelo è detto (a memoria): “Se un fratello pecca, prendilo da parte e diglielo a quattr’occhi; se persevera prendi con te un’altra persona e diglielo in sua presenza; se ancora non ti ascolta dillo ai superiori della comunità; ecc.”. Ciò vale solo nel caso in cui la maldicenza è vera, se cioè si è stati testimoni del peccato.

Il più delle volte, però, la maldicenza è calunnia. È cioè dire male falsamente. Si parla male giusto per parlare, si inventa, si attacca, si vuole colpire. E la calunnia ha effetto, colpisce, fa realmente male a chi è bersaglio.

Per quelli di M., paese di montagna di meno di 1.000 abitanti, il parlare è passatempo. Ci si incontra per i viottoli e si parla male di qualcuno, di questo e di quello, dei nemici, del sindaco, del prete. In un posto così ci metti solo un parroco, non l’aiuto parroco. Già le offerte sono poche, nessuno va in chiesa, in quelle terre l’hanno a morte da secoli con l’autorità ecclesiastica, i monasteri benedettini possedevano le terre, comandavano e angheriavano i contadini. In un paese così solo le vecchie, perlopiù vedove o zitelle, frequentano la parrocchia. Cosa ci metti a fare un vice-parroco che non si capisce a cosa serva? 

Non voglio fare maldicenze sulla comunità in cui sono stato, meglio smetta. Presi singolarmente sono santi, posso solo lodarli. Vergini, hanno una vita specchiata e fanno tutto per Gesù. A livello organizzativo, come fondatori di comunità (erano loro, di fatto, i successori della madre fondatrice, passata all’altro mondo nel 2020), ammetto che ho dubbi sul loro operato, cioè mi sembra che possano aver commesso errori. Ma tant’è. Acqua passata. Non porto rancore per ciò che può essere stato commesso sulla mia persona. Sono ancora gli anni migliori della mia vita, anche se ho tribolato, sofferto.

Non ero adatto a stare in parrocchia. I giovani frati erano visti più o meno come animatori, catechismo, direzione dei chirichetti, visite alle famiglie, chiacchere sul sagrato dopo la messa... come ricordo le chiacchere sul sagrato che mi portavano indietro al cortile di liceo dove in base a con chi stavi era calcolata la popolarità... non sono mai stato capace di fermarmi a chiaccherare, o meglio, con qualcuno che conosco e con cui c’è una storia mi fermo volentieri a parlare, ma fare l’intrattenitore, l’animatore con persone che non conosco è una cosa che proprio mi è ruvida, faccio una fatica a fare il primo passo, a far conoscenza, non sono bravo nelle relazioni sociali, proprio non mi viene facile; la chiacchera, poi, in sé è qualcosa che non rispetto, nel senso che penso che la maggior parte delle volte non porti uno scambio di informazione, ma abbia solo la cosiddetta funzione fàtica, ossia creare contatto... la chiacchera è tipica del mondo femminile – studiai in Sociologia –, cioè del mondo che storicamente è legato alla sedentarietà, mentre l’uomo usciva a procacciare il cibo, ecc., non mi dilungo su cose che tutti sanno.

Insomma, fare il frate da parrocchia non era proprio il mio paio di maniche. La mia è sempre stata più vocazione monacale. I monaci, però, non mi hanno voluto. Avevano paura cercassi troppo la solitudine per la solitudine in sé, come luogo di riparo, diciamo, non come luogo prezioso per l’incontro con Gesù. Più si scappa dalla Croce più la Croce va a cercare, anche nel luogo più sperduto della terra, dicevano. D'altronde Gesù lo si incontra anche e soprattutto nel fratello. È Chiara Lubich a dire al Movimento dei Focolari: “Per noi la clausura è il fratello”. E San Giovanni nella prima lettera: “Se non ami il fratello che vedi, come fai ad amare Dio che non vedi?” (cf. 1Gv 4, 20).

Sto ancora facendo ricerca vocazionale alla veneranda età di 43 anni – 44 in aprile. La speranza è l’ultima a morire. Nel 2022 andai a visitare un piccolo monastero nel piacentino, appena costruito. Mi avrebbero preso volentieri, ma sono una nuova fondazione (nati negli anni ‘90); il corrispondente alla Certosa di Farneta mi ha sconsigliato di entrare ancora in una nuova fondazione dati i traumi che ho vissuto nella prima. Nell’ottobre 2023 ho fatto una settimana di ritiro all’abbazia di Praglia, nel padovano. Un monaco con 62 anni di professione – venerabile! – mi ha sconsigliato di farmi monaco alla mia età; dice che a fronte dell’entusiamo iniziale di quattro o cinque anni si tende a incontrare difficoltà coi ritmi di vita o coi confratelli e si è portati a lasciare... Però il mio direttore spirituale, un frate Carmelitano Scalzo che hanno appena spostato da Brescia a Trento, mi invita a non desistere...

BFF vs. Baby gang

Filocamo e Valdo sono divenuti migliori amici in seconda. In prima, il migliore amico di Filocamo era Ursmaro, ma Ursmaro ha cambiato scuola. Valdo è divenuto il nuovo migliore amico. Valdo era il secchione della classe, Filocamo il secondo. Alla fine delle medie Valdo è uscito con ottimo e Filocamo con distinto. Probabilmente la bravura di Valdo rubbed off su Filocamo. Così, giusto per dire.

Tra la seconda e la terza Filocamo è andato una settimana alla casa al mare di Valdo in Liguria. Hanno giocato tutto il tempo a ping-pong. Anche se Filocamo teneva testa a Valdo, alla fine Valdo aveva la meglio. Si bastavano l’un l’altro, non hanno fatto amicizie con altri, anche se al mare Valdo aveva gli amici storici. Filocamo andava d’accordo con quel simpaticone del papà di Valdo al quale avevano asportato un rene.

Un fine settimana, Valdo è stato nella casa in campagna del papà di Filocamo dove Filocamo passava i fine settimana. Valdo non si è trovato bene in quella cascina semi-ristrutturata dove anche la sorellastra di Filocamo, avuta dal padre di Filocamo dalla prima moglie 15 anni prima di Filocamo, passava i fine settimana. Il padre e la sorella di Filocamo, col marito muratore e pugile, erano gente alla buona, bevitori e ridanciani, la campagna era piena di insetti e Valdo non sembrava a suo agio. La sua visita è passata alla storia nella famiglia di Filocamo perché Valdo è apparso timido, mentre i famigliari di Filocamo speravano in un Filocamo che portasse amici adeguati e alla mano. Filocamo sul momento non si è reso conto dell’effetto che suo padre e sua sorella, col marito muratore e pugile, hanno avuto su Valdo.

L’amicizia di Filocamo e Valdo è andata avanti fino al termine delle medie. Si dicevano a vicenda: “Siamo migliori amici”. Durante le lezioni si passavano bigliettini con disegni e facezie. Valdo era bravo a disegnare, specie le caricature, Filocamo provava a imitarlo ma con risultati scarsi. I pomeriggi Filocamo andava a casa di Valdo, dove erano presenti la madre casalinga e la sorella ritardata, a giocare ai videogiochi. La scelta era chiara, il non plus ultra era il Megadrive, non il Nintendo. In realtà la scelta l’aveva fatta Valdo e Filocamo dietro. Valdo era quello con le idee chiare. Anche quando Valdo andava a casa di Filocamo – poco, perché a casa di Filocamo non c’era nessuno, stando la madre, separata dal padre, in negozio tutto il giorno – giocavano ai videogiochi. Rare volte prendevano un tram e andavano in via Mac Mahon a un negozio di videogiochi a comprarne uno, scelto dopo infinite ponderazioni su una rivista di settore con recensioni. La sorella di Valdo era ritardata perché, diceva Valdo, da piccolo le aveva sbattuto la testa sul muro.

Una variante per i pomeriggi era andare da Grazzini, l’attuale Toys “R” Us di via Mauro Macchi, a browsare tra i giochi. Non compravano niente, ma dicevano: “Guarda questo” o “Vorrei comprare questo”. Alle casse passavano via. Un giorno, un ragazzo più grande che dice di chiamarsi Sigismondo, col berretto, li avvicina fuori da Grazzini. È amichevole, parla di giochi, fa la strada con loro chiaccherando. Al punto in cui Filocamo e Valdo si separano per andare ciascuno a casa propria, Sigismondo segue Valdo. La sera, quando la madre di Filocamo arriva a casa dal negozio, fa domande su Sigismondo e racconta che la madre di Valdo ha chiamato e ha detto che Sigismondo, quasi sotto casa, di colpo ha sbattuto Valdo su una cancellata e gli ha sfilato l'orologio da polso. Che orologio aveva? Forse uno Swatch. Filocamo chiama Valdo e si fa raccontare. Valdo è vago, ancora impaurito, si vergogna.

Valdo sceglie di fare il Liceo Scientifico perché vuol fare, dice, l’ingegnere genetico. Anche Filocamo lo dice, il padre è soddisfatto, dalla madre si fa iscrivere alla stessa scuola. Finiscono in classi distinte, su piani distinti. All’intervallo, le prime volte fanno a turno, un po’ Filocamo va a trovare Valdo, un po’ Valdo Filocamo. Con Valdo, in classe, c’è anche un ex-compagno delle elementari di Filocamo, secchione, col quale Valdo fa amicizia e inizia ad andare sempre meno a trovare Filocamo, è sempre più Filocamo che va a trovare i due. Andando avanti con l’anno le visite scemano. Al liceo si è divisi in due categorie, i secchioni o sfigati o babbi che restano in classe a giocare a carte, e i fighi che vanno in cortile a fumare. Filocamo inizia a partecipare a tornei di briscola in classe. Fa amicizia con un secchione, Arnoldo. Certi pomeriggi i tre secchioni, Filocamo, Valdo e Arnoldo, si trovano a casa di Filocamo a giocare ai videogiochi. Ma Arnoldo è più da pc che da console e soprattutto più da gioco di ruolo (Dungeons and Dragons) che da videogiochi.

Entro la fine dell’anno Filocamo e Valdo non si frequentano più. Filocamo passerà l’estate in Sardegna col fratellastro maggiore di 16 anni, avuto dal padre con la prima moglie. Passerà il tempo con un ragazzo più grande mezzo sardo mezzo tedesco sempre a piedi nudi, fortissimo nella pesca in apnea e non spaventabile dai bulli. Durante le vacanze anche nuove esigenze divengono più prepotenti, quelle riguardo il sesso femminile. Al ritorno, l’inizio della seconda superiore per Filocamo è all’insegna delle nuove conoscenze. Non s’intrattiene più coi secchioni. All’intervallo, ora, va a fumare droghe leggere nei bagni dove incontra gente che può anche metterlo in buona luce con ragazze.

Disgustevolmente vs.

Nel 2003 avevo 23 anni, era appena finita la storia col cosiddetto primo amore, E., subito dopo ho trovato il cosiddetto: “rebound”, il chiodo scaccia chiodo. Era una sua amica. Un’amica di E. Un’amica di famiglia. Si chiamava V. Si chiama V. poiché è ancora viva. Ha un sito. Fa la fotografa. Fotografa seria, lavora coi fotografi, il sito è solo per gli spunti creativi. Studiò al Liceo Artistico. Era brava a scolpire, non aveva il talento del disegno ma dipingeva lo stesso ed era cerebrale. Era sempre piena di idee. La sua camera era la camera di un’artista, mi piaceva un casino. Si iscrisse al corso di fotografia dell’Istituto Europeo di Design, Milano. Era brava, molto più brava e intelligente di me. Adoravo il suo cervello, il suo produrre idee. Mentre ero con lei ho avuto un sacco di iniziative, come il corso di Scrittura Narrativa e il Corso di teatro, il primo una boiata, il secondo un’esperienza...
V. era proprio carina. Aveva i capelli ricci ma non troppo, corti, sembrava un cotton-fioc (un: “q-tip”, Scrubs). Sono sempre stato convinto che V. abbia ricevuto l’amore che spettava a E. Con E. ormai era stato aperto un rubinetto (“I can’t help it, I opened a gate!”, Friends).

Apro una parentesi. Non so perché (me lo sono chiesto più volte) ma ho una fortissima attrazione per le donne coi capelli corti. Meg Ryan in You’ve got mail, Shirley McLaine, Julie Andrews in The sound of music, Debra Winger all’inizio di Terms of endearment, ecc. Mi sono risposto che ho attrazione per gli uomini o edipica per mia madre (quando ero bambino aveva i capelli a caschetto), non si sa, non posso saperlo. So solo che i capelli corti in una donna mi attraggono assai. Anche Courtney Cox nella quarta stagione di Friends... mamma mia!

V. era riccozza. Ma non era certo questo ciò a cui andavo dietro. A me interessava il sesso. Dopo le comunicazioni 24/7 con E. non riuscivo più a sopportare la solitudine. Avevo talmente bisogno d’amore che il passaggio fu indolore. Era come amare la stessa persona. Erano persone diverse, ma io amavo allo stesso modo, come se fossero la stessa persona.

Ero sempre lo stesso, geloso, possessivo, ossessivo. Mi scusavo in continuazione. Per cosa, poi, boh, non ricordo. Sembrava sempre che ne stessi facendo una. La verità è che non ho mai potuto concepire che una donna potesse amarmi. Non ci credevo. Non mi sembrava vero. Anzitutto sono un uomo, e gli uomini sono disgustosi. Nel senso che non mi piacciono gli uomini. Per anni ho cercato solo compagnia femminile. Lo dice anche Bernhard. Cerco di entrare nella testa di una donna e di capire cosa trova negli uomini.
Inoltre mi sentivo inferiore per partito preso. Era un partito preso verso gli esseri umani in generale. Ce l’ho ancora. (Nell’Imitazione di Cristo il disprezzo per se stessi e considerarsi inferiori a tutti è visto come cosa buona). Figuriamoci verso la fidanzata, che era di buona famiglia, brava ragazza, mentre io ero già intossicato con le male compagnie liceali... Mi sentivo in una storia a La bella e la bestia...

Se non fosse entrato Gesù nella mia vita non so cosa sarei diventato. Ancora oggi sono P. E. Barracus, “Pessimo Elemento Barracus” (A-Team). Se si sentissero le cose che mi vengono in mente quando sono sulla strada...
Oggi so che ci può essere relazione anche tra uomo e uomo. Naturalmente avevo amici maschi, sempre avuti, ma li ho anche sempre gettati al vento. Specialmente quando è comparso il primo amore. Le amicizie coi maschi sono sempre finite male. Penso a F., a M., a M., a M.... Amicizie abbandonate, finite, lasciate indietro. Diciamo, a dir la verità, che delle amicizie coi maschi che avevo quando sono incappato nell’innamoramento con E. volevo effettivamente liberarmi. Come John Frusciante coi Red hot chili peppers. Erano il tipo di amici che spingevano a usare droghe o cose così. Con gli altri è finita per altri motivi...
Oggi ho cinque amici maschi, ma due (conosciuti quand’ero frate) vivono lontano e ci sentiamo solo per telefono, uno è un collega che ogni tanto accompagno a casa perché lascia l’auto alla moglie casalinga e che per sdebitarsi mi invita a cena, uno è un frate francescano di 76 anni con cui mi sento quotidianamente e che viene a fare le ferie a casa mia, uno è un 78enne bresciano conosciuto nell’Ordine Secolare dei Carmelitani Scalzi, a casa del quale vado a pranzo praticamente ogni domenica...

Le mie storie sentimentali sono tutte partite dall’amicizia, come Monica e Chandler (nel mio caso, amicizie più corte di quella tra Monica e Chandler)... siccome non so invitare apertamente una ragazza a uscire, sono sempre stato costretto a passare dallo stadio dell’amicizia; poi si iniziava a far sesso per cui si era costretti a dire: “Stiamo insieme”, e così...

Come mi piace ascoltare By the way dei Red hot chili peppers. Mi ricorda M. e la V., l’estate del 2003 passata in barca in Croazia, sulla barca di 30 metri del padre della V. (la barca si chiamava: “V.”), quell’estate... com’ero geloso, che brutto era l’amore, per quanto mi riguarda non c’era nulla di piacevole. L’amicizia con M. è finita perché quando io e la V. ci siamo lasciati M. ha voluto continuare a frequentarla come amico...

Ero interessato a una giovane solo per il sesso. Il resto era tutto litigio, possessività, gelosia, pain in the ass... Non sono nato per le relazioni. Mi sforzo in nome del Vangelo. Sono una persona fatta male. Magari sono anche nato con una buona natura, ma crescere solo con la mamma, lasciato a casa pomeriggi interi dopo scuola per anni ha rovinato tutto. Sono veramente una persona disgustevole...

Alla bisogna

Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano (Mt 6, 19-20)


Da quando sono divenuto frate ho imparato a considerare l’innamoramento alla stregua di un mal di denti. È un’affezione.
Non è giusto equipararlo a un mal di denti perché il mal di denti è una malattia ed è solo negativo, l’innamoramento invece porta con sé tanto di positivo. Dà felicità, voglia di vivere e fare, creatività e ispirazione. Cambia la vita e tira fuori il meglio. Non è certo una cosa da fuggire. L’innamoramento può anche però rendere pazzi. Se osserviamo il comportamento di certi innamorati vediamo che non è buono. Non necessariamente, quindi, l’innamoramento porta cose buone.

All’inizio del dialogo platonico Fedro è data, proprio dal giovane Fedro, una visione negativa dell’innamoramento, portando a esempio i comportamenti di gelosi, possessivi e aggressivi, gente che non riesce più a vivere mancando l’amato. Socrate chiama questo discorso: “salato, come un discorso tra rozzi marinai” e propone una visione dell’innamoramento come portatore di beni. Il discorso definitivo è quello fatto sempre da Socrate in Simposio, dove mostra che Eros è amore del bello (kalòs) e del buono (agathòs) e che quando nasce genera un flusso che va dagli occhi dell’amato agli occhi dell’amante e, rimbalzando, torna indietro creando nell’amato, per l’amante, lo stesso sentimento che l’amante prova per l’amato. Questo flusso mette le ali (come la Redbull): “I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, perché fa crescere l’ali” è un verso attribuito ad antichi poeti omeridi.

Perché, allora, lo equiparo al mal di denti? L’innamoramento è apportatore di beni, anche se abbiamo visto, e chiunque può dar testimonianza, che dall’innamoramento sbagliato o vissuto in modo sbagliato possono nascere comportamenti cattivi.

L’innamoramento è fonte di consolazioni. Già solo vedere o ascoltare l’amato è consolazione.

Nella vita consacrata ho imparato abbastanza presto che se non si va a procacciarsele, Dio dà consolazioni a sufficienza col contagocce e col metodo provvidenziale del pane quotidiano, ossia alla bisogna.

La vita consacrata ha la giornata organizzata, scandita dalla preghiera. Ci si alza, si prega, si fa colazione, si va al proprio compito, si prega, si pranza, c’è il tempo libero, si prega, si torna al proprio compito, si va a messa, si prega, si cena, si fa ricreazione, si prega, si va a dormire. Per stare nella volontà di Dio serve stare nei ritmi senza deviare. Ad esempio, non andare in cucina a mangiare quando si dovrebbe occuparsi del proprio compito. O non fare telefonate mentre si sta pregando. Non mi soffermo sul fatto che nella vita di un laico vale lo stesso principio; tutto ciò che si fa stando nell’obbedienza (ai superiori, in certa misura al coniuge) è volontà di Dio.

Ora, per quanto riguarda il contatto umano, è facile vedere che ci sono parecchi momenti in cui si è soli, magari svolgendo il proprio compito o nel tempo libero. Ho notato, quando ero consacrato, che talvolta accadeva di incontrare un confratello in corridoio e ricevere un saluto, un sorriso, o fare il pieno di affetto in oratorio o a ricreazione. Dio sa come dare la consolazione della presenza umana nei tempi stabiliti e alla bisogna.

D’altronde, cos’è innamoramento se non ricevere favori da una persona che piace? Se ci sforziamo di stare con chiunque, come ad esempio, in una comunità, a tavola o a ricreazione, accadrà che con alcuni la compagnia sarà un piacere, con altri occorrerà sforzarsi.

Santa Teresina, ad esempio, era esperta nello stare con consorelle che le risultavano poco congeniali. Una, addirittura, era convinta di essere profondamente amata tanto lei agiva con carità, mentre Teresa aveva scelto di agire così proprio perché si rendeva conto che, a pelle, non la sopportava. È un capitolo famoso di Storia di un’anima:

C’è in comunità una sorella che ha il talento di dispiacermi in tutto: i suoi modi di fare, le sue parole, il suo carattere mi sembravano molto sgradevoli; eppure è una santa religiosa che deve essere molto gradita al Buon Dio, perciò non volevo cedere all’antipatia naturale che provavo, mi sono detta che la carità non doveva consistere nei sentimenti, ma nelle opere, allora mi sono impegnata a fare per questa sorella ciò che avrei fatto per la persona che amo di più. Ogni volta che la incontravo pregavo per lei il Buon Dio, offrendogli tutte le sue virtù e i suoi meriti. Sentivo che questo faceva piacere a Gesù, perché non c’è artista che non ami ricevere lodi per le sue opere e Gesù, l’artista delle anime, è felice quando non ci fermiamo all’apparenza ma penetriamo fino al santuario intimo che egli si è scelto come dimora e ne ammiriamo la bellezza. Non mi limitavo a pregare molto per la sorella che mi suscitava tante lotte, mi sforzavo di farle tutti i favori possibili e quando avevo la tentazione di risponderle in modo sgarbato, mi limitavo a farle il mio più gentile sorriso e mi sforzavo di sviare il discorso, perché è detto nell’Imitazione [di Cristo]: è meglio lasciare ciascuno nella propria opinione che fermarsi a contestare.
Spesso poi, quando non ero in ricreazione (voglio dire durante le ore di lavoro), avendo alcuni rapporti di ufficio con questa sorella, quando le mie lotte erano troppo violente, fuggivo come un disertore. Poiché ella ignorava assolutamente ciò che provavo per lei, mai ha supposto i motivi del mio comportamento e rimane convinta che il suo carattere mi sia simpatico. Un giorno in ricreazione mi disse con espressione contentissima queste parole: “Vorrebbe dirmi, mia Suor Teresa di Gesù Bambino, cosa l’attira tanto verso di me, che ogni volta che mi guarda la vedo sorridere?”. Ah! ciò che mi attirava era Gesù nascosto in fondo alla sua anima... Gesù che rende dolce ciò che c’è di più amaro... Le risposi che sorridevo perché ero contenta di vederla (beninteso non aggiunsi che era dal punto di vista spirituale). (Manoscritto C, 292)

Il principio del pane quotidiano è il principio della Provvidenza. Dio dà alla bisogna. Hai la dispensa piena? Intanto svuota quella, che io vado a dar da mangiare a chi non ha accesso a cibo.

Una volta, quando vivevo in parrocchia, in Ciociaria, arrivò un viandante, un uomo simpatico del bellunese che di mestiere era pastore e che un giorno aveva deciso di mettersi in cammino per l’Italia, l’aveva girata tutta due volte. Bussava alla porta delle case. Ha raccontato che non gli era mai mancato cibo, trovava sempre qualcuno che gli dava un piatto di pasta, pane o altri viveri. Una volta, però, per un paio di giorni non aveva trovato niente e aveva fame. Ha pregato. Girato l’angolo ha trovato in terra 20 euro.

Perché Dio dà solo il pane quotidiano e non, ad esempio, tutto il pane che spetta a una persona nella vita? Per ovvi motivi di stoccaggio. Dove lo metti? Poi andrebbe a male. Lo stesso coi soldi. Preferisce dare il vitalizio che tutto insieme. Ci fa avere di volta in volta ciò di cui abbiamo bisogno. La gestione di un patrimonio è impegnativa. Dio ci solleva da tale incombenza. Ci pensa lui. È il cloud che tiene in caldo le nostre cose, lassù, e le rilascia poco a poco, alla bisogna

Delusione, rabbia e incertezza

Se c’è una delusione nella mia vita è lo sputtanamento di Gilmore girls. Amy Sherman-Palladino fa totalmente scuotere la testa. Tutto ciò che è stata capace di creare è il mondo di Stars Hollow coi suoi bizzarri personaggi. Non è mai riuscita a portare a compimento le premesse dello show. Rory doveva frequentare Harvard e divenire giornalista di successo. Ci sono storie tipo Working girl che avrebbero potuto ispirararla e aiutarla nella comprensione della persona di successo.

La Sherman ha preferito continuare a sviluppare il suo mondo di nani e ballerine piuttosto che creare un arco per Rory. L’incapacità di creare un arco ha finito per costringerla a darle un arco negativo, verso il basso. Gilmore girls, nonostante le belle speranze affidate all’America rurale, finisce per essere storia di fallimento. Rory Gilmore è un personaggio che non riesce a realizzare i propri sogni, nemmeno nella reunion del 2016, A year in the life.

Ci sono pochi lavori drammatici in America, specialmente in televisione, che non hanno l’arco positivo. Nessuno aspettava da un lavoro americano dalle premesse così grandiose una fine così misera. Il brutto è che le premesse hanno creato aspettative negli spettatori. Tutti volevano vedere il trionfo finale di Rory, la coronazione dei sogni, il successo da giornalista.

Anzi, perché dico Working girl? Ci sono effettive giornaliste citate da Rory agli inizi della serie come modello la cui vita avrebbe potuto esser studiata e riprodotta. Quale miglior modo per celebrare donne di successo che raccontare la loro vita attraverso la figura di Rory? Amy Sherman ha mostrato, senza volerlo, senza voler dare un messaggio preciso nella sua opera, semplicemente facendosi scappare l’opera dalle mani, che il sogno americano non esiste.

Anzi, perché dico sogno americano? Non si tratta di discorso del sogno americano. Pensiamo – il primo che mi viene in mente – a San Giovanni XXIII, papa che veniva dal mondo contadino. Dobbiamo chiamare: “americano” il sogno della meritocrazia? Si tratta di trovare la propria vocazione anche se si nasce in condizioni sfavorevoli. Rory doveva essere quella persona di successo, c’erano le premesse, l’intelligenza, la personalità, l’incoraggiamento di genitori e nonni, di Stars Hollow intera. 

Hanno mandato tutto a farsi benedire, la serie ha preso svolte sempre più comiche. Non riuscivano a creare un personaggio tragico, alto, hanno dovuto per forza trasformarlo in un personaggio comico. Oppure è una vera tragedia, ma non voluta e non pensata inizialmente come tale. Che fallimento, Amy Sherman, che delusione. Gilmore girls poteva essere un trionfo, un faro, resta una serie marginale, a tratti odiata.

Alexis Bledel resta la mia bellezza n. 1, la n. 2 essendo Emily Blunt, anche se entrambe mi stanno antipatiche perché il loro carattere è quello della diva di Hollywood che vive a Los Angeles portando in giro un cagnolino nella borsetta. Mi dispiace che la sua carriera non abbia preso il volo, sicuramente la sua mente è stata manipolata e depressa dalla pazzia di Amy Sherman-Palladino, che non è riuscita a, o per sadismo non ha voluto, creare per Rory un arco positivo.

Io e la musica classica

Sto ascoltando il concerto per pianoforte e orchestra n. 17 di Mozart interpretato da Mitsuko Uchida. Vorrei familiarizzarmi perché il 9 febbraio c’è Mitsuko Uchida al Teatro Grande di Brescia. Suonerà i concerti per pianoforte e orchestra 17 e 22 più un pezzo di Jörg Widmann, mai sentito. Sono proprio due concerti per pianoforte e orchestra che non ho quasi mai ascoltato. Mi sono familiarizzato col 18, il 9, il 21 e il 24. C’è sempre una prima volta. Questa è l’occasione che aspettavo. Non è semplice familiarizzarsi con la musica classica, a parte coi pezzi più noti e orecchiabili. Nella maggior parte dei casi serve una decina di ascolti. Solo così si iniziano a trovare cose già ascoltate. Fino al decimo o giù di lì si fa fatica a capire e riconoscere. Vorrei ascoltare Mitsuko Uchida dal vivo. Credo che il fatto che viene a Brescia sia un dono di Dio dedicato a me. Ho visto il manifesto una mattina uscito di casa, di fronte era parcheggiata la mia auto. “Possibile?”, ho detto. “Proprio a Brescia? Cavolo ci viene a fare dame Mitsuko Uchida a Brescia?”. Viene con un certo José Maria Blumenschein, violinista e con la Mahler Chamber Ochestra. Quando ho letto: “Mahler” ho storto il naso. Thomas Bernhard mi ha insegnato a disprezzare Mahler, non ho mai ascoltato neanche una sua nota. D’altronde non suonano Mahler, suonano l’amato Mozart, “Mahler Chamber Orchestra” è solo il nome. Mi piacerebbe sapere cosa pensa dame Mitsuko Uchida di Mahler. Un suo giudizio potrebbe cambiare quello inculcatomi da Bernhard.

Oggi sono a casa dal lavoro. Ci stanno obbligando a usare ferie e permessi avanzati dall’anno scorso. Attendo le 10,30 circa, quando il responsabile è tranquillo. A quell’ora i furgoni sono partiti e i colleghi hanno iniziato a consegnare. Deve stare vicino al telefono e rispondere alle chiamate di chi ha problemi. Di fatto ormai non siamo più in periodo di picco, quando c’erano i ragazzini assunti apposta che chiamavano in ufficio mille volte al secondo, dal 24 dicembre sono stati lasciati a casa perché il contratto a tempo determinato è scaduto. Quelli che lavorano ora sono quasi tutti esperti che conoscono le zone. Ciò significa che il responsabile, una volta partiti, può allungare le gambe sotto il tavolo e accendersi una paglia. Non ha più nulla da fare. In teoria dovrebbe stare a guardare costantemente i pallini sul computer, ciascun pallino un furgone geolocalizzato che si muove sulla mappa. Ma non lo fa. Ne è prova il fatto che ogni sera, quando ho finito, mi scrive su Whatsapp per mandarmi a fare un salvataggio senza sapere che non ho ancora fatto la pausa. Io, la pausa, la mezz’ora che spetta, la faccio verso la fine. Il responsabile ha di nuovo da fare nel tardo pomeriggio, quando c’è da organizzare i salvataggi. Quando uno finisce presto va ad aiutare uno che non ha ancora finito. Si chiama: “Salvataggio”. Il responsabile, in pratica, non ha nulla di serio da fare fino alle 16,30 circa. È a quell’ora che si vede chi è vicino alla fine e chi è in difficoltà. Quando devo chiedere qualcosa chiamo verso le 10,30 così lo trovo poco occupato e disponibile ad ascoltare. Devo chiedere se mi fa usare un giorno di ferie o di permesso venerdì 9 febbraio così posso andare ad ascoltare Mitsuko Uchida.

Non so con chi andare. Una volta ricevuto l’eventuale okay chiamo una signora dell’Ordine Secolare dei Carmelitani Scalzi, il mio gruppo di preghiera, per chiedere se vuol venire. È in pensione e gira l’Italia per mostre. Ama soprattutto la pittura. Chissà se le piace la musica, in particolare quella di Mozart. Speriamo di sì! In ogni caso siamo ormai amici. Magari viene. Magari le pago io il biglietto, così la invoglio. Potrei anche andare da solo, ma non so se me la sentirei. Il mio amico frate di 76 anni, amante dell’opera, in primavera va a Genova a sentire tre opere. Da solo. Lui può. Io non so se ce la farei, ma è una possibilità che contemplo.

Finito il concerto per pianoforte e orchestra 17 di Mozart ho messo Le quattro stagioni di Vivaldi, Karajan e Mutter, 1984. Qualcosa di straordinario. L’ho ascoltato mentre scrivevo il post. A tratti dalla bellezza mi venivano le lacrime. Sono familiare con Le quattro stagioni perché mio padre aveva il cd. Andavo a casa sua nei fine settimana, abitava in collina, in provincia di Pavia, nella casa dove oggi vive mia sorella. Mio padre metteva anche le sinfonie 5 e 6 di Beethoven, la 9 di Dvořák (Dal nuovo mondo), i Carmina burana... Se qualcuno ha voglia di ascoltare la nonna di Beethoven, consiglio questa interpretazione della Olso Philarmonic Orchestra diretta da Klaus Mäkelä, eccezionale.

Corvione

Corvione è frazione di Gambara (BS). Si trova tra Gambara e Isorella. C’è una lunga strada in mezzo ai campi con a un certo punto un cimiterino sulla sinistra (sulla destra arrivando da Isorella), poi un arco antico sotto il quale si è costretti a passare. L’arco fa parte di una struttura più ampia che definirei un’enorme cascina poggiata sulla pianura. Quando dico enorme intendo che il muraglione è lungo mezzo chilometro.

Sulla rotonda all’ingresso di Gambara c’è un cartello con scritto: “Benvenuti nella terra dei Gambara”. Il paese ha preso il nome dalla famiglia o la famiglia ha preso il nome dalla terra? Perché, a volte, i cognomi hanno origini topografiche... Già Gambara è piccola, Corvione è in pratica un’enorme cascina con attorno i campi.

Corvione, oggi, è ghetto. Ci hanno messo gli uomini di colore. All’inizio pensavo facessero i braccianti a giornata e si erano trasferiti lì perché lì avevano trovato lavoro. Controllando su internet ho scoperto che nel marzo 2023 l’ex ristorante Corvione ha ospitato 30 profughi richiedenti asilo, tutti maggiorenni e provenienti dall’Africa. A Corvione abita anche qualche italiano che ordina pacchi. Le donne, non so come facciano ad abitare lì. D’estate, quando ho iniziato a fare quelle zone, sotto l’arco stavano seduti a far niente gli uomini di colore su sedie bianche in plastica. Secondo me quegli uomini sbavano per quelle donne che abitano lì solitarie, sperdute. Una è una bella ragazza, giovane. Secondo me a qualcuno l’ha data. Dopo un po’, alle pressioni si cede...

Sono i film che mi faccio. In realtà non so nulla di cosa succede. Ultimamente, d’inverno, passando si vedevano gli uomini di colore giocare a calcio in uno spiazzo. D’estate sono seduti sulle sedie, anche se non devi consegnare sei costretto a rallentare perché vicino all’arco ci sono dossi artificiali, ti fissano, muovendo la testa lentamente, come uomini di paese seduti fuori dal bar...

Ad azione, reazione

Quando studiavo all’università incappai in un articolo accademico, che non faceva parte dei miei studi, che parlava più o meno di saturazione cognitiva, cioè della possibilità della mente di arrivare a un punto di pienezza. Abbiamo limiti in questo senso o possiamo imparare illimitatamente?

Mi pongo oggi il quesito perché, come quando studiavo, ho l’impressione che niente possa entrare più nel mio cervello. Anche ai tempi dello studio c’è stato un periodo in cui mi sentivo saturo. Non ce la facevo più a studiare. Forse è stata anche questa sensazione a farmi abbandonare gli studi – anche se le ragioni reali, concrete, sono state poi altre (struttura e sovrastruttura).

In realtà oggi penso che quella di saturazione, se sovviene, sia appunto una sensazione, non un vero limite del cervello. L’uomo può imparare all’infinito, anche perché il vero imparare, dalla percezione che ho, è un togliere, un pulire, non un accumulare. Quando apprendiamo qualcosa ci liberiamo da opinioni false. Non acquisiamo necessariamente opinioni vere, ma già abbiamo fatto un bel lavoro se ci siamo liberati da quelle false, il risultato è sapere di non sapere, già tanto.

La sensazione che sovviene quando ci si sente non più in grado di acquisire conoscenze secondo me equivale allo stato di Teeteto quando Socrate gli dice, nel dialogo omonimo: “Tu hai le doglie”. A un periodo di studio intenso, cioè di introiezione, dovrebbe corrispondere uno di estroiezione ossia di produzione. In ambito universitario, ciò corrisponde all’esame. L’esame basato su esposizione e domande e risposte è meglio del quiz a risposta multipla. Se l’esame è orale, ancora meglio. Uno deve essere in grado di dar forma a ciò che ha introiettato e partorire qualcosa di nuovo, la conoscenza da lui acquisita e vista dalla sua prospettiva. A livello macro ciò si ripropone nella tesi, che è specchio, sul lato produttivo, dell’introiettamento avvenuto durante il lato passivo, acquisitivo, degli anni di studio.

Ho studiato e appreso parecchio dopo aver abbandonato gli studi, forse più di quando ero iscritto all’università. Arrivato all’esame di Diritto della Comunicazione, non ce l’ho fatta. La Giurisprudenza non è la mia materia, il linguaggio è astruso e non ho memoria per tenere a mente leggi, articoli e commi. Mi interessanto le dinamiche dominanti (v. A beautiful mind), le cause e i perché dei fatti primari. Ad esempio, in Diritto, sarei semmai interessato a chiedere: “Perché esistono le leggi?”.

Abbandonando l’università ho potuto continuare gli studi nutrendomi di ciò che la mia anima mi portava a introiettare, andavo a tatto, a sentimento, a naso. Avevo i miei ritmi. Lo studio non era più forzato né con scadenze. Se una cosa non mi piaceva, non la studiavo. Prendevo appunti praticamente per ogni frase che leggevo. Era il mio modo di partorire immediatamente ciò che la lettura provocava. Ad azione, reazione. Anche oggi sono fatto così. Se leggo una pagina o anche solo un paragrafo, già qualcosa è smosso dentro; devo produrre qualcosa, una meditazione, un post, una pagina di diario.

Forse è anche l’età. A vent’anni si digerisce tutto, poi la digestione diventa lenta e macchinosa e non tutti i cibi sono assimilabili.

Il mio metodo per leggere un libro è sempre lo stesso: leggerlo tutto velocemente la prima volta, per avere la visione completa, poi studiarlo pezzo per pezzo. Oggi non ho tempo di leggere un intero libro velocemente, perciò parto subito con lo studio pezzo per pezzo. Studio per me significa commento, produzione, parto di qualcosa di personale.

La compravendita

Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora (Mt 25, 1-13)

Questo passo del Vangelo è stato letto domenica 12 novembre 2023. È un passo conosciuto che mi ha sempre incuriosito. Ho sempre fatto fatica a entrare nella simbologia. Mi sono sempre chiesto cosa significhino le lampade, l’olio, i vasi.

Oggi, domenica 12 novembre 2023, due punti hanno colpito la mia attenzione costringendomi a riflettere. Uno, mi sembra di aver capito cos’è l’olio. Due, mi ha colpito il fatto che si può comprare.

Cos’è l’olio secondo me si capisce dall’ingiunzione finale: “Vegliate!”. Per riempire i propri vasi di olio è necessario vegliare. Gesù invita a vegliare in più parti del Vangelo. Vegliare non significa solo star svegli, significa pregare e allo stesso tempo obbedire a Dio, significa non peccare. Se si veglia si è pronti per l’arrivo del padrone, di cui non si conosce né il giorno né l’ora. Cos’è l’arrivo del padrone se non il giorno del giudizio e cosa significa esser pronti per quel giorno se non essere trovati senza peccato? Vegliare significa dunque stare attenti alla propria condotta secondo i precetti che Dio ha dato nell’Antico e Nuovo Testamento. Significa inoltre pregare Dio con preghiere di lode e ringraziamento, poiché Dio le merita, solo per ultime le preghiere di domanda.

Ora, se uno non riesce a fare per Dio direttamente queste cose (obbedienza, preghiera) può occuparsi di altre e acquistarsi meriti in altre maniere. Può lavorare, donare, servire gli altri. Sono meriti che rappresentano altrettante monete di scambio per comprare l’olio della veglia. Se ci si impegna a fare il bene, Dio non se ne scorda. Il bene fatto o anche il fare le cose bene equivale a servire Dio e pregare. Ecco perché è possibile fare altro e poi comprare l’olio coi meriti acquisiti, anche se non si serve Dio direttamente.

Le vergini sagge non sono necessariamente quelle che si occupano delle cose di Dio tutto il tempo, sono semplicemente quelle che si preoccupano di avere con sé l’olio in piccoli vasi in tempo per l’arrivo dello sposo. L’olio, come visto, si può anche comprare. Esiste cioè una moneta, un metodo indiretto per procurarselo. Ciò che fanno di sbagliato le vergini stolte è non farsi trovare con l’olio all’arrivo dello sposo.

Le vergini sagge si rifiutano di dare alle stolte l’olio non per durezza e mancanza di carità, ma perché allo sposo non manchino spose pronte. Questa è la vera cura che le vergini sagge hanno nei confronti dello sposo rispetto alle vergini stolte.

Vegliare significa dunque varie cose, significa pregare, non poltrire o oziare, non deviare dai comandamenti di Dio, lavorare per il bene comune, per gli altri e non per se stessi. I comportamenti rivolti al rapporto con Dio sono secondo me il modo diretto per procurarsi l’olio per le lampade, gli altri il modo indiretto, che ha bisogno di compravendita per arrivare a possedere l’olio.