L’anima indivisa

Nei testi dei padri del deserto si trova il concetto di anima indivisa come traguardo da raggiungere.

Soffriamo e patiamo solo grazie alla nostra umanità. È stato così anche per Gesù. Ha preso la carne, l’umanità, per poter partecipare della sofferenza.

Da San Paolo sappiamo che l’uomo è composto di spirito, anima e corpo (1Ts 5, 23). Anche per Gesù era così, va solo tenuto conto che in Gesù lo spirito è lo Spirito Santo.

Ora, lo Spirito Santo è Dio. Chi è Dio? È colui che conosce tutto. Dio è onnisciente. Dio sa perfettamente come è fatto il mondo. L’ha creato lui...

Secondo me, però, si può conoscere il mondo in due modi; uno è come dovrebbe essere, ossia il mondo ideale; l’altro è come di fatto realmente è, ossia il mondo concreto. C’è differenza tra queste due dimensioni.

Ammettiamo che una persona sia stata creata da Dio con determinati talenti, abbia cioè un compito, una missione nella vita, una vocazione, una chiamata.
Può capitare, e di fatto capita nelle società reali, incarnate, nella cosiddetta economia della materia, che una persona non riesca a perseguire la propria vocazione. Esiste una Gerusalemme celeste, dove tutto è perfetto e funziona secondo la Volontà di Dio; e una società terrena, materiale, dove, a causa del peccato originale e del libero arbitrio dell’uomo, può capitare di incontrare, ad esempio, un laureato in Lettere che lavora come casellante autostradale.

Ci sono, quindi, una dimensione celeste, ideale, e una dimensione terrena, imperfetta.

Credo che tutte le volte che incontriamo una situazione concreta diversa da come crediamo sia il dover essere di quella situazione, è allora che incontriamo il cosiddetto skandalon, in greco pietra d’inciampo. La pietra d’inciampo è una pietra di divisione, una linea di demarcazione che crea due mondi, due universi all’interno dell’anima. Divide, cioè, l’anima in due.

Anche il peccato personale fa da pietra d’inciampo: penso di dovermi comportare in un dato modo, sono convinto ci si debba comportare in un dato modo, ma poi mi comporto in un altro; ecco che si generano due mondi nell’anima, e l’anima da indivisa diventa divisa.

Ma Dio è uno, e l’universo che ha creato è uno. Come è possibile, dunque, che esistano due realtà? È un pensiero di questo tipo, inconscio, che genera la sofferenza dell’anima.
Un’anima indivisa è in pace; un’anima divisa soffre.

Secondo me questa è l’essenza o origine della sofferenza.

Gesù conosce perfettamente l’universo. Sa cos’è ciascuna cosa, in se stessa e rispetto alle altre. Questo è Spirito Santo, è Dio. Quando Gesù si incarna, come tutti gli uomini, attraverso i sensi viene a conoscenza, nella sua anima umana, di fatti concreti che si discostano da ciò che il mondo dovrebbe essere. Anche la sua anima, quindi, si separa dallo Spirito, e anche Gesù prova sofferenza.
Ad esempio, quando vede il tempio trasformato in mercato, o quando viene a sapere della morte del suo amico Lazzaro, o quando vede la folla che non ha da mangiare, tutti esempi di emozioni provate da Gesù.
L’emozione, il moto dell’anima, può avvenire solo quando l’anima è divisa. Quando è indivisa, è una, immobile, immutabile.

Concludo con una testimonianza personale sulla preghiera.
Prego così. La preghiera è il mio psicanalista. Mi metto davanti a Dio e scandaglio l’anima. Quali sono le pietre d’inciampo, le divisioni, le sofferenze che trovo? Una persona ammalata; un mio peccato; una situazione scorretta nella società, tipo la mafia; o nel mondo, tipo la guerra. Su tutte queste pietre d’inciampo, che sono altrettante divisioni nell’anima, invoco l’intervento di Dio. Se è un mio peccato, chiedo di rimuoverlo attraverso il perdono; se è una malattia, chiedo la guarigione; se è una situazione sociale, o mondiale, chiedo a Dio di modificarla con la sua onnipotenza. Perché nulla è impossibile a Dio (Lc 1, 37), e Dio può anche fare miracoli.

È come mettere fuori tanti vasetti vuoti, sperando che la pioggia li riempia, facendo tornare l’anima, da divisa e sofferente, a indivisa e pacificata.

Tentativo di abuso di potere

Come tutte le mattine, Osvaldo e il collega indossavano le pettorine giallo fosforescente. Si aggiravano in coppia, sciame minimo, per le auto, controllandone uno una, l’altro l’altra. In viale Marconi, sotto un palazzo di uffici, ne trovarono una col tagliandino scaduto. Era anche stropicciato, segno che all’automobilista l’avevano passato i posteggiatori di colore, abusivi ma tollerati. Come di norma, Osvaldo fece la foto col telefono per tutelarsi, nel caso in cui l’automobilista avesse voluto contestare, infine estrasse il blocchetto. Faceva l’accertatore della sosta da cinque anni, ormai ne aveva subite di tutti i colori. Era stato assunto proprio per la promessa capacità di non reagire alle provocazioni. La penna non aveva ancora sfiorato il blocchetto, che sentì il grido di una donna: “Aspetta! Aspetta!”. Alzò gli occhi e si voltò. “Sono qui!”, Anita arrivava a mano tesa. Era vestita marrone, un cardigan scuro a coprire il vestito che finiva appena sopra il ginocchio, larghi occhiali da vista e il doppio dei chili consentiti sui fianchi, capelli a forma di meringa, mossi e rossicci, o meglio, del colore dell’interno di una Sacher. “Per favore, non farmi la multa!”. Era proprietaria di una Mercedes 160 grigio chiaro, l’aveva comprata usata da non molto, a meno di 8.000 euro, e stava ancora finendo di pagarla. “Vado via subito!”. Osvaldo abbassò la penna e gli venne automatico dare del tu: “Hai il tagliandino scaduto. È finito mezz’ora fa”. “Lo so, lo so. Ero qui, dal commercialista! C’è voluto un sacco di tempo!”. “La prossima volta fai una cosa: se vedi che stai facendo tardi, vieni giù e rinnovalo, ci vuole un attimo”. “Lo so, hai ragione! Ma proprio non ce l’ho fatta! Devo tornare al lavoro, non posso perdere tempo!”. “Va bene, dai. Questa volta niente multa”. Anita infilò la mano nella borsa e dopo aver ravanato estrasse le chiavi. Stava per infilarle, ormai libera, quando sentì ancora la voce di Osvaldo alle spalle: “Che lavoro fai?”. Si stava buttando, 46 anni single, una storia di 10 anni alle spalle, finita perché lei non aveva voluto sposarsi. “Ho un’azienda di pulizie. Sono la titolare...”. “Ma dai? Complimenti!”. Con la testa attorcigliata all’indietro, Anita tirò la leva della portiera: “Grazie, ho lavorato sodo, sono in società con un’amica...”. “Ah, pensavo con tuo marito”. “Non sono sposata”. “Un vero peccato...!”. “Guarda, sono davvero di fretta, devo andare al lavoro, sono già le 11,30...”. “Lo so, mezz’ora dopo rispetto all’orario di scadenza del tagliandino!”. “Hai ragione! Scusa, scusa! Prometto che non lo faccio più!”. Osvaldo si disse: “Cos’ho da perdere? Mi raso i capelli a zero perché sono pelato!”. “Ehi, senti... mi chiamo Osvaldo. Posso avere l’onore di sapere il tuo nome?”. Anita aprì e richiuse la portiera, aveva finalmente capito di non essere per nulla libera. “Anita, piacere”. Allungò la mano, la stretta non fu spiacevole per nessuno dei due. “Cosa diresti se ti invitassi a cena fuori, magari, uhm, stasera?”. Il collega, incuriosito dal protrarsi della conversazione, avvicinandosi udì la frase. Mise la mano davanti alla bocca, sbuffò con la bocca e soffiò col naso tenendo il riso; stette accanto a Osvaldo. A causa sua, a Osvaldo si bloccarono le parole; se ne rese conto: “Scusa, puoi lasciarci un attimo? Controlla quelle macchine là”. Il collega sorrise a 32 denti: “Okay, ci vediamo dopo” e si allontanò. “Guarda, sei simpatico, e te ne devo una per non avermi fatto la multa... però stasera non posso, domani devo svegliarmi alle sei per andare a lavorare, se vuoi facciamo un’altra volta!”. “Ottimo! Quando preferisci?”. “Lasciami il tuo numero di telefono, così ti chiamo e ci mettiamo d’accordo!”. “Ah... uhm, okay...”. Mentre nella testa di Osvaldo si diffondeva veloce, come da uno spiffero, la puzza di fregatura, Anita aveva estratto più in fretta che nel vecchio West. “Dì pure”, disse a telefono spianato. “Tre-due-otto-quattro-sei-nove-quattro-sette-nove-due”, mugugnò Osvaldo, gli ultimi numeri quasi bisbigliati. “Va bene, Ti chiamo! Devo proprio andare! Ciao!”. “Okay, eh eh, ciao...”. Anita accese e partì. Mentre si allontanava, guardò nello specchietto retrovisore Osvaldo sempre più piccolo. “Crede di avermi fregato, ma ho la foto con la targa, eh eh!”. Il collega tornò: “Ti ha dato il numero?”. “No, le ho dato il mio”. La pietrificazione prese possesso della faccia del collega. “Vabbè, andiamo va’...”. Il sole batteva forte.

La Staffora

Anni fa mio padre e io andavamo a pescare sul torrente Staffora, un affluente del Po che nasce sul Passo del Giovà. Scendevamo nei pressi di Retorbido, dove la Staffora è abbastanza larga da essere un fiumiciattolo più che un torrente. Dalla statale che da Voghera va a Varzi prendevamo una stradina che scende accanto a una fabbrica di argilla espansa. L’argilla espansa sono le palline marroni leggere che si mettono nei vasi di piante. Non so come si produce. In tutta quella zona, l’Oltrepò Pavese, la terra è argillosa. C’erano coni altissimi di argilla espansa, da cui si prendeva per insaccare e vendere. Scendevamo al fiume con canne da pesca non più lunghe di tre metri. Cercavamo i cosiddetti fondoni, dove l’acqua è profonda e non scorre. In quei punti si vede a malapena il fondo e ci sono pesci nascosti, magari sotto le piante della riva. L’ideale è mettersi sulla riva opposta e lanciare fino all’altra parte. Pescavamo qualche cavedano, che mio padre faceva in carpione, ossia sott’aceto, ma soprattutto alborelle, pesciolini che, quando se ne prendono tanti, si possono fare fritti e mangiare interi come le sardine di mare.

Spesso andavamo anche solo per fare un giro coi cani. Stare con mio padre e i cani mi piaceva tantissimo. I cani liberi giravano e annusavano tutto, esaltati e concentrati. Giocavamo al lancio del bastone o del sasso, non si preoccupavano di finire in acqua, anche d’inverno. Spesso l’obiettivo delle gite era raccogliere pietroni, di cui la spiaggia era piena, da usare per pavimentare il cosiddetto Viale del tramonto, come lo aveva battezzato mio padre, ossia la discesa che dalla casa porta all’ingresso della cantina. Caricavamo le pietre nel bagagliaio, non ce ne stavano tante. Non ricordo ancora quanti viaggi abbiamo fatto negli anni. Il Viale del tramonto esiste ancora oggi. Sceglievamo pietre che fossero piatte da un lato. Le mettevamo nella terra, le picchiavamo piano con una mazzetta di gomma o di legno, poi terrazzavamo con una piccola trave di traverso, in modo che il Viale del tramonto consta di cinque o sei gradoni pavimentati a pietroni di fiume, che col tempo si sono assestati sempre più.

A volte, essendo più veloce, coi cani andavo più avanti di mio padre e arrivavo sul retro di uno sfasciacarrozze che probabilmente aveva l’ingresso sulla statale, ma non ho mai capito dove. Era un luogo silenzioso che mi metteva sempre soggezione. C’erano baracche, mi dicevo: “Qui c’è qualcuno”. Poi c’erano campi dove i cani si mettevano a correre dietro alle lepri. Mio padre arrivava e, lui che era stato cacciatore, si metteva a ridere: “Non si è mai visto un cane raggiungere una lepre correndo”. Prendeva in giro i nostri cani viziati e in età.

Un paio di volte ci siamo portati il pranzo al sacco e da un amico ci siamo fatti lasciare con la macchina in un punto a valle e abbiamo risalito il fiume per tutto il giorno, fermandoci a pescare dove trovavamo i fondoni, per poi incontrarci con l’amico in un altro punto prestabilito a monte. Giornate estive di sole accecante, mio padre, io, i cani e gli aironi. Prendevamo ceste intere di alborelle, che mio padre faceva fritte. Che soddisfazione e che bontà.

Oggi non pesco più, è una cosa che facevo solo con mio padre. Una volta, dopo che è morto, sono tornato alla Staffora, scendendo accanto alla fabbrica di argilla espansa. Stesse identiche sensazioni di una volta. Sono entrato coi piedi nudi nell’acqua.

“In bocca al lupo!” – “Crepi!”

Tutti sanno che le avversità rendono migliori. Al momento, quando ci si è in mezzo, fanno male e sembra distruggano, ma quando se ne viene fuori si riconosce che hanno fatto crescere.

È per questo che si augura di finire nelle avversità (il lupo è incarnazione del male). A patto, però, di uscirne; perciò si dice: “Crepi il lupo”.

Un bagno di avversità è una purificazione, rende illuminati, saggi, umili. Certo, la vecchiaia porta con sé malanni, ma quanta saggezza si guadagna in cambio!

Quando nel Padre Nostro si dice: “Non abbandonarci alla tentazione” è come dire: “Crepi il lupo!”. Non si chiede di non finire in tentazione, la tentazione è appunto il male che purifica.

Il Padre Nostro è stato corretto da Papa Francesco per renderlo uguale a ciò che dice Gesù nel Vangelo: “Non abbandonarci alla tentazione”. Prima si diceva: “Non ci indurre in tentazione”. Ciò che voleva correggere Papa Francesco era sopratutto l’idea che Dio possa indurre in tentazione. Non è mai Dio che induce in tentazione, è il diavolo che induce in tentazione; Dio non commette il male, semmai permette – è la corretta dicitura teologica – che si sia indotti in tentazione dal diavolo.

Per questo non sopporto quelli che vogliono cambiare i detti millenari. “Bisogna dire viva il lupo! Perché il lupo è quello che bla bla bla”...!