Chi ha paura di Dungeons & Dragons? (2)

Misayo Tenkuza è un guerriero. Oltre a essere un abile combattente con tutti i tipi di armi, fa parte di unʼantica famiglia di guerrieri capaci di dominare lʼaria. Esistono quattro famiglie o clan capaci, ciascuna, di dominare uno dei quattro elementi. I loro membri sono solitamente consegnati, da piccoli, a monasteri di monaci combattenti in cui, oltre a imparare lʼarte della guerra, imparano a controllare il loro elemento. Misayo usa la sua abilità contro i nemici soprattutto scatenando venti o facendo sparire lʼaria intorno a loro in modo che non possano respirare. Sulla coscia Misayo ha un piccolo tatuaggio rappresentante due vortici di vento che si avvolgono uno sullʼaltro. Il tatuaggio denota la sua appartenenza alla famiglia Tenkuza.

Yuko, migliore amica di Misayo, era una cortigiana, vicina alla famiglia reale. Una ragazza di piccola statura, grandi occhi neri e lunghi capelli anchʼessi neri. Era piena di gioia di vivere e faceva ridere tutti con le sue battute e i suoi scherzi. Così come Misayo per le sue abilità di guerriero, Yuko fu presto conosciuta in tutta la nazione per le sue abilità di guarigione. Tali abilità furono scoperte quando un uomo di corte fu in punto di morte. Lasciato alle cure di Yuko, guarì rapidamente. Misayo fu almeno due volte nelle mani di Yuko. Una volta aveva riportato una ferita mortale, un colpo di spada dalla destra del collo al centro del petto. Grazie alle cure di Yuko fu guarito. Gli restò una gigante cicatrice.
Unʼaltra volta ebbe una gamba ferita da una pallottola. Si risvegliò nel letto e aprendo gli occhi vide Yuko china sulla gamba. Tra i dolori intravide, sul costato di Yuko scoperto da una tunica troppo larga, un piccolo tatuaggio, tre onde stilizzate con una goccia dʼacqua sovrastante, segno di appartenenza alla famiglia Mizuza, dominatrice dʼacqua. Nessuno, nemmeno la stessa Yuko, aveva mai saputo di questa appartenenza. Si era sempre chiesta cosʼera quel tatuaggio.
Durante lʼultima guerra, mentre Misayo combatteva lontano dalla città dove risiedeva il re, palazzo reale fu attaccato e Yuko fu colpita a morte. Quando arrivò, Misayo la trovò morente. Spirò tra le sue braccia. Misayo non se lo perdonò mai. Inoltre non aveva fatto in tempo a chiederle del tatuaggio. Tuttavia esso spiegava molte cose su Yuko.
Erano stati solo amici, ma dopo la sua morte Misayo piombò in una grande tristezza. Negli anni successivi fu sempre convinto che fosse il senso di colpa per non aver fatto il suo dovere di guerriero.

Anni dopo, Misayo è invecchiato e i suoi capelli, che tiene cortissimi sui lati e abbastanza lunghi sopra, sono ormai grigi. Grazie alle sue imprese è stato premiato dal generale Kuge con la propria figlia, Sayyokaru, una donna di alta classe e sofisticata. I due sono fidanzati e presto ci sarà il matrimonio.
Mentre si sta recando a corte dopo essere stato convocato dal generale Kuge, Misayo vede una ragazza identica a Yuko. Come è possibile? La segue. Lei entra in un caffè, si siede vicino alla vetrina e ordina un caffè e una fetta di torta. Misayo si siede dallʼaltra parte del locale per osservarla. Quando la misteriosa ragazza tira fuori lo stesso libro che Yuko leggeva sempre, il Diario della moglie di Shokimaze – lʼautobiografia di Kaja, moglie di un antico re, piena di saggezza, detti e proverbi, un poʼ come I detti di Confucio al femminile, che inoltre riporta molti dettagli sulla vita privata di Shokimaze – Misayo decide di andare a parlarle. Si offre di pagare ciò che ha preso e lei gli permette di sedersi, Misayo si apre e confessa. Tempo fa conosceva una ragazza identica a lei, che morì tra le sue braccia. Ora vorrebbe sapere il nome della misteriosa ragazza, la quale risponde dicendo di chiamarsi Catarina Suzuki. È la ceo di una startup di moda fondata da lei stessa.
Misayo non sa più cosa pensare. Le chiede del libro e scopre che Catarina lʼha acquistato in un negozio di libri usati.
Misayo si ricorda dellʼincontro a corte, dal generale Kuge. Dice a Catarina che deve per forza andare via, ma le chiede di poterla vedere ancora, per farle domande e soprattutto per scoprire una cosa. Catarina dà appuntamento a Misayo la sera stessa al centro del parco.

Durante lʼincontro col generale Misayo scopre che la vicina città di Naclerio è minacciata da una banda di predoni che si sono stabiliti nelle foreste che la circondano. Dopo che hanno derubato la carovana di un ricco mercante vicino alla corte, il re decide di inviare un manipolo di 15 uomini guidati da Misayo. Sembra che tra i predoni ci sia un uomo capace di dominare la terra. Ma non è nessuno dei membri della famiglia Daichiza. Bisogna vederci chiaro.

La sera stessa Misayo va allʼappuntamento con Catarina nel parco. Le mostra il suo tatuaggio e chiede a lei se ha qualcosa di simile sul proprio corpo. Catarina ricorda di avere un piccolo segno sul costato e di non aver mai saputo darne spiegazione. Lo mostra a Misayo. Misayo spiega a Catarina il significato di quel tatuaggio, è il marchio dʼappartenenza alla famiglia Mizuza. Misayo, cedendo alla bellezza di Catarina, che gli ricorda quella di Yuko, cerca di baciarla. Allʼimprovviso si sente un rumore provenire dalle piante. È un fotografo che ha catturato le immagini dei due mentre espongono a vicenda i rispettivi corpi. Misayo, per nulla preoccupato, gli intima di andarsene. Misayo chiede a Catarina di vederla ancora, dicendo che bisogna vederci chiaro sulla sua appartenenza alla famiglia Mizuza, e sulla sua perfetta somiglianza con la defunta Yuko. Catarina dice a Misayo che può trovarla sempre al solito caffè alla stessa ora, perché è sua abitudine recarvisi ogni mattina prima di andare al lavoro.

La mattina dopo Misayo parte per la campagna di Naclerio. I predoni non sono difficili da sconfiggere. La questione è risolta nel giro di una settimana. Lʼunica preoccupazione riguarda la scoperta di un uomo capace di dominare la terra pur non essendo parte della famiglia Daichiza. Lʼuomo si chiama Ohta Shoichi e riesce a dominare la terra usando un apparecchio tecnologico. Misayo uccide Ohta e requisisce lʼapparecchio per consegnarlo ai capi dellʼesercito.

Finita la campagna di Naclerio, Misayo riceve le congratulazioni dal re, e gli racconta la questione di Catarina e dei tatuaggi che ha visto sia sul corpo di Yuko sia su quello di Catarina. Scopre che nella settimana in cui era lontano per la campagna di Naclerio sono state rilasciate foto sui giornali mostrando lui e Catarina che espongono vicendevolmente parti del corpo nel parco di notte. Dopo il racconto di Misayo, il re rilascia un comunicato stampa in cui tutta la storia è spiegata. Il popolo gioisce per il ritrovamento di un membro della famiglia Mizuza, Catarina.
Misayo poi si reca dal generale Kuge e gli dice di non voler più sposare sua figlia. Lʼincontro con Catarina gli ha fatto capire di essere sempre stato innamorato di Yuko e che questo spiega la depressione degli ultimi anni, che lui aveva sempre interpretato come senso di colpa per non aver fatto il suo dovere di guerriero. Kuge lo comprende perché per lui è come un padre. Tali sono i legami che si formano sui campi di battaglia. Tutti si erano accorti che non cʼera amore tra Misayo e Sayyokaro Kuge, e che il matrimonio sarebbe stato solo una questione di etichetta. La mattina seguente, Misayo lascia la corte e torna a vivere in caserma. Dopo aver lasciato giù la sua roba, si affretta ad andare al caffè dove potrà incontrare Catarina. Crede di essere innamorato di lei. Da quando lʼha vista, la sua infelicità è sparita e lui ha ritrovato la gioia di vivere.
Incontrando Catarina, scopre che a causa delle immagini pubblicate sui giornali i suoi affari sono andati male e che idioti per strada lʼhanno fermata chiedendo di esporre anche a loro il suo corpo. Misayo la rassicura dicendo che quella mattina stessa sui giornali è stata rilasciato un comunicato stampa del re in cui tutto è spiegato. Nel medesimo istante un messaggio sul telefono di Catarina interrompe la conversazione. Catarina corre via.

Catarina arriva a casa e trova suo padre, un uomo sulla settantina in pensione, ex professore universitario di matematica. Le dice che è stata adottata e che non ha mai avuto fratelli o sorelle perché sua madre era sterile. Una sera, da giovani, mentre tornavano da teatro una donna è corsa verso di loro, ha lasciato nelle loro braccia una bambina urlando con disperazione di salvarla, poi è corsa via. Loro non hanno chiamato le guardie perché avevano capito che le loro preghiere erano state ascoltate. La madre adottiva di Catarina è morta qualche anno prima. Catarina rassicura suo padre che per lei sarà sempre il suo eroe, come lei lʼha sempre chiamato sin da piccola.

Dopo tutti questi sconvolgimenti nella sua vita, Catarina quella notte dorme poco. Arriva al caffè un poʼ in ritardo rispetto al solito orario. Arrivata, trova Misayo che la aspettava già da unʼora, curioso di sapere cosa fosse il messaggio ricevuto sul telefono il giorno prima e che lʼaveva fatta scappare via. Catarina spiega di aver ricevuto il messaggio da suo padre, il quale le ha spiegato che è stata adottata. Misayo gioisce, rendendosi conto di aver scoperto che Catarina è la gemella di Yuko e che entrambi sono parte della famiglia Mizuza. Misayo dice a Catarina di voler fissare un incontro con il re e con Tanimoto Mizuza, un valoroso combattente, a corte per chiarire le cose.
Misayo inoltre si scusa per aver cercato di baciare Catarina la sera dellʼincontro nel parco. Negli ultimi giorni si è reso conto che aveva proiettato su Catarina la sua ossessione per Yuko. Ha capito che Catarina non può essere un rimpiazzo, che nonostante gli abbia fatto capire quanto amava Yuko, Yuko ormai è morta e nessuno potrà mai farla tornare in vita. Ha capito, però, che stare con Catarina lo ha risvegliato. Nutre una sincera ammirazione per questa ragazza, silenziosa e riservata (il contrario di sua sorella Yuko) e allo stesso tempo donna di successo.
Catarina risponde a varie domande di Misayo sulla propria vita. Gli uomini hanno sempre cercato di tarparle le ali pretendendo che fosse la classica donna che sta in cucina e non fa altro. Ha avuto anche relazioni con donne, che lʼhanno trattata meglio degli uomini, ma ha capito che non era la cosa giusta. Misayo offre di esserle amico. Prima cerca di rassicurarla, dicendole che deve esserci una persona per lei nellʼuniverso; poi, scherzando, propone di fare, nel frattempo, il sostituto di un uomo per lei. Promette di essere una spalla su cui piangere, di fare la spesa, di aiutarla nel pericolo, ed eventualemente di fare bambini con lei. Catarina ride ma allʼidea arrossisce e il caffè le va per traverso. È imbarazzata. Da tali segni Misayo capisce quale anima bella sia Catarina. Le dice di voler passare più tempo con lei e le chiede il numero di telefono. Si scambiano i numeri.

Lʼappuntamento col re e con Tanimoto Mizuza è domenica. Misayo chiede a Catarina se nel frattempo possono vedersi, magari per cena. Catarina accetta.

(Continua).  

Chi bestemmia si fa portavoce del diavolo

Gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti su di me (Rm 15, 3)


Dai Vangeli, se uno conosce bene il passo della lapidazione dellʼadultera, e interpreta correttamente il verso: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Gv 8, 7), può capire molte cose della vita.

Da quello che capisco io, le pietre sono figura di qualcosa che abbiamo nellʼanima. È nellʼanima che abbiamo le pietre. Basta dare un giudizio tagliente per scagliare una pietra che uccide. Già dare un giudizio negativo su una persona è un modo per ucciderla.
Dire qualcosa di negativo è fare freddo, uccidere. Dire qualcosa di positivo a una persona, fare un elogio, è scaldare, far vivere.
Da dove vengono i giudizi taglienti? Da dove vengono le pietre?

Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nellʼocchio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nellʼocchio tuo cʼè la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dallʼocchio del tuo fratello (Mt 7, 1-5).

Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati.
Giudichiamo solo i peccati che abbiamo commesso anche noi. Le pietre che sono dentro di noi sono i nostri peccati.

Le realtà visibili della Sacra Scrittura sono anche realtà invisibili, ovvero la struttura dellʼanima. “Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza, e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1, 19-20). Le cose della terra sono le cose visibili, percepibili coi sensi. Le cose dei cieli sono le cose invisibili, impercepibili coi sensi. I cieli sono la nostra anima. Nella nostra anima sono “le cose di lassù” (Col 3, 1-2).
Un conto è il cielo, un conto sono i cieli. Il cielo, quello visibile, è appunto visibile. Fa parte del mondo creato, visibile, percepibile. I cieli sono unʼaltra cosa. Sono superiori al cielo, sono i cosiddetti cieli dei cieli, e sono le cose invisibili.
Le cose invisibili, infatti, sono superiori alle cose visibili. È dalle cose invisibili che nascono le cose visibili, e non viceversa.
Quando nellʼAntico Testamento sentiamo parlare di cose materiali, dobbiamo immaginare che anche lʼanima è fatta di paesaggi. Anche ciascuna singola anima umana è un universo a sé. In ciascuna anima cʼè una terra, un cielo, ci sono valli, monti, ruscelli e mari, alberi, animali. Un monte, un colle, una collina, una montagna, non sono forse grandi pietre? NellʼAntico Testamento le rupi non indicavano forse il peccato di Israele, ossia i luoghi dove il popolo di Israele, allontanandosi dal vero Dio, andava a venerare gli idoli, posizionando su tali rupi steli sacre, templi, e altre costruzioni votive?
Anche le parabole di Gesù testimoniano il significato allegorico della Bibbia. Perché paragonare un popolo a una vigna, e non a un frutteto, ad esempio? Perché proprio la vite? “Dissero gli alberi alla vite: Vieni tu, regna su di noi” (Gdc 9, 12). Perché paragonare Dio a un pastore? Sono solo belle immagini che Gesù ha inventato per spiegarsi, metafore, come dicono taluni, che farebbero di lui un poeta alla Baudelaire? O non sono forse la struttura stessa della realtà, una concordanza tra le cose del cielo e quelle della terra, di cui Gesù ci ha messo a parte e che i profeti dellʼAntico Testamento avevano solo intravisto nei loro momenti di ispirazione?

Le pietre della nostra anima, i monti della nostra anima, sono i nostri peccati. Quando commettiamo un peccato, aggiungiamo per così dire terra alla nostra anima. Meno terra abbiamo nella nostra anima, più spazio cʼè per il cielo.

Più uno pecca, più sarà portato a giudicare. Perché, appunto, giudichiamo negli altri solo le cose che commettiamo anche noi. Se non avessi mai commesso quel peccato, non mi verrebbe neanche da giudicarlo.

Ecco perché è importante non peccare. Non tanto per non offendere Dio. Dio, infatti, ha il potere del perdono.
Ma per poter amare gli altri. Amare significa non giudicare, non uccidere a parole, non dare giudizi. Se di una persona mi dà fastidio qualsiasi cosa, come si muove, come si veste, come parla, come si comporta, posso stare certo che non è ciò che fa questa persona a essere sbagliato, ma qualcosa dentro di me.
“Per il puro, tutto è puro”, scrive Santa Teresina. Se uno è pieno di peccato vedrà ogni cosa in modo negativo, scaglierà pietre continuamente, giudicherà tutto e tutti e vivrà lʼinferno sulla terra. Se uno non ha commesso peccati, gli verrà anche più facile amare le altre persone e il mondo così come sono. Poiché i peccati sono le pietre che abbiamo da scagliare.

La bestemmia, contrariamente a quanto molti pensano, è peccato grave. Più grave di molti peccati cosiddetti materiali. Se Dio è Verbo, i peccati di parola saranno importanti, gravi. È importante ciò che diciamo, sono importanti le parole che usiamo.
Bestemmiare, inoltre, è dire la più grande falsità che uomo possa dire. Se io infatti guardo una pietra e dico: “È un bastone”, sto dicendo una falsità. Ma è una falsità piccola, in quanto ciò a cui si riferisce è una realtà piccola. Se io guardo Luigi e gli dico: “Sei Antonio”, già sto dicendo una bugia più grande, in quanto un uomo è più importante di una pietra o di un bastone, pur essendo ancora realtà creata. Se guardo il cielo e dico: “È il mare”, dico una falsità ancora più grande, in quanto il cielo e il mare sono più grandi di un uomo o una donna. Se guardo il sole e dico: “È la luna”, sto ancora dicendo un falsità molto grande, che può cambiare tutto lʼordine delle mie conoscenze e credenze. Saliamo ancora un poʼ più in alto e troveremo realtà ancora più grandi. Giustizia, virtù, verità, gloria, unità, santità, gli stessi numeri sono realtà invisibili e in quanto tali stanno nei cieli dei cieli, ossia nei cieli al di sopra del cielo. Se dico falsità su qualcuna di queste cose, rischio di accecarmi in modo ancora più grave, poiché appunto queste cose, essendo superiori, sono più grandi delle cose create, ossia delle cose che stanno nella creazione materiale.
Dire falsità su Dio è dire la più grande delle falsità, poiché Dio è la cosa più grande di tutte. Inoltre, lʼassioma principale della teologia, anche di quella politeistica greca, è che la divinità equivale al bene. O anche, che il bene è divinità. Questa è la prima, indistruttibile verità che riguarda Dio.
Se dico lʼesatto contrario, ossia che Dio è qualcosa di cattivo, in altre parole se bestemmio, non sto forse dicendo la più grande falsità, ossia lʼesatto contrario della più grande verità – più grande in quanto riguardante la realtà più grande dellʼuniverso?

Avere nella propria anima il vero o il falso è questione di grande importanza. Le cose che abbiamo nellʼanima vengono poi espresse a parole.
Ma anche: le parole che diciamo si trasformano pian piano in realtà della nostra anima.
Ecco perché un bestemmiatore piano piano si acceca. Lʼintero universo risulta distorto, capovolto, ai suoi occhi, se parte dal presupposto che la divinità è cattiva.

Solo il demonio può pensare qualcosa di cattivo su Dio.

Film da manuale

Lʼaltra sera ho visto Six days, seven nights.
Lʼho visto soprattutto perché cʼè David Schwimmer, ed essendo io fan di Friends
A me è piaciuto.

In questi giorni sto giocando di ruolo. Mi rendo conto che non è difficile farsi venire in mente unʼazione da fare, qualche parola da dire. Se si legge bene ciò che ha scritto lʼaltro e si tenta di reagirvi, come nella recitazione, le cose vengono in mente quasi automaticamente.
Ma farsi venire in mente una storia... Ho provato a immaginare di scrivere, che so, un racconto. Oh, non mi viene in mente niente!
Mi dico sempre che se voglio scrivere qualcosa basta che pesco qualche episodio della mia vita.

Ma pensare una storia come quella di Six days, seven nights, in cui due coppie alla fine finiscono scambiate, non è mica semplice. La coppia Heche-Schwimmer arriva sullʼisola tropicale dove incontra la coppia Ford-Morrison. A causa di un imprevisto le due coppie sono costrette a scambiarsi per qualche giorno. Risultato: Heche e Ford si innamorano. Schwimmer e Morrison finiscono a letto insieme.
La cosa difficile è far accadere tutto questo. Heche e Ford, rimasti soli, devono attraversare varie vicissitudini, tra cui essere in pericolo di vita, per arrivare a innamorarsi.

Il libro è scritto col manuale sotto il naso. Ciò che mi stupisce degli americani è il fatto innanzitutto che hanno un manuale, in secondo luogo lʼessere capaci di seguirlo alla lettera. Lo sceneggiatore in questo caso è un certo Michael Browning. Non cʼè una pagina di Wikipedia dedicata a lui. Praticamente uno sconosciuto. Come se avesse fatto praticamente solo questo film. Eppure farne, di film così, coi dialoghi tutti basati sul simbolismo (ad esempio si parla dellʼaereo vecchio e scassato per parlare di Ford, ecc).

Come si legge su Wikipedia, il film ha solo il 36% dei consensi su Rotten Tomatoes. La critica comune dei critici di Rotten Tomatoes è: “Un pezzo di fuffa hollywoodiana in generale piacevole ma totalmente dimenticabile”. 


Educazione

Sulle notizie si continua a leggere di gente trovata morta. Questa in un burrone, quello in un campo, quellʼaltro ucciso sparato. Mi chiedo se capitasse a me. Morire di morte violenta. Il dolore, la consapevolezza che stai morendo – e non come in una malattia, dove hai il tempo di pensarci, ma tutto in fretta, inoltre lʼumiliazione di sapere che qualcuno è stato più forte di te e ha avuto la forza di ucciderti. Cʼè un sacco di gente, al mondo, che potrebbe uccidermi a mani nude.
Una delle cose più terribili, per me, penso, sarebbe vedere il mio corpo straziato, rovinato. Un taglio nel collo, un buco nella pancia, o in testa. Contusioni, ossa spaccate. Sangue che esce a fiumi, mentre dovrebbe stare al suo posto… dentro. Poco tempo fa ho letto la notizia che in un ospedale campano un ex infermiere ha strappato un occhio a una persona durante una lite. Ma stiamo scherzando? È così facile strappare un occhio a una persona? E questa rimane viva, senzʼocchio? Non dovrebbe, col nervo ottico, strapparsi via anche una parte di cervello? Non dovrebbe uno morire sul colpo quando gli si strappa un occhio? Dio mio. Di sicuro la morte migliore è un infarto nel sonno, poi cʼè la malattia, poi la morte violenta. In ogni caso, si spera che la morte sia breve. Non voglio vedere il mio corpo martoriato. Sono già brutto così. Faccio già fatica così, a camminare, a dormire, a lavorare… Figuriamoci con una parte del corpo rovinata… Tutto questo è tremendo. Si vorrebbe vivere il meno possibile dopo aver vissuto un evento del genere. Già leggere di un evento del genere è brutto. Poi assistere a un atto di morte violenta dovrebbe essere traumatico. Essere la vittima di un atto di morte violenta è il peggio del peggio. Mi chiedo: “Comʼè possibile che queste cose continuino ad accadere sotto i nostri occhi – mentre scorrono le nostre vite – con una frequenza del genere?”. Nelle nostre città. Magari in una via dove siamo passati spesso. Una strada che abbiamo fatto varie volte. O si pensi questo: “Una persona che conoscevamo”. Terribile. Noi stessi. Terribile.
Mi chiedo cosa gira nella testa di una persona che è pronta a uccidere. Di una persona che uccide. Di una persona che uccide involontariamente, senza premeditazione, e ancor più di una persona che uccide premeditatamente. Quale tipo di educazione, quale tipo di lavoro sulla persona devono aver fatto? Già mi rendo conto che uno che non ha unʼistruzione universitaria resta col cervello di quandʼera adolescente. Oggi cʼè la psicologia, ma nei secoli precedenti cʼera la letteratura cristiana, e prima ancora la filosofia, per quanto riguarda gli insegnamenti sulla ricerca della virtù. Come cambiare il proprio comportamento? Come diventare migliori? Basta unʼistruzione universitaria, bastano le nozioni?
La sapienza è una delle quattro virtù cardinali. Ma non è lʼunica virtù.
Le quattro virtù cardinali sono giustizia (“dikaiosyne”), coraggio (“andreia”), temperanza (“sophrosyne”), sapienza (“sophia”). Queste, secondo Platone. In realtà, sempre in Platone, la quarta è duplice. A volte, infatti, è chiamata saggezza (“phronesis"). È ovvio che saggezza e sapienza non sono la stessa cosa. Allora mi sono fatto lʼidea che siano due facce di unʼunica realtà, la saggezza/sapienza. Da Platone si ricava che la saggezza, “phronesis”, è il sapere di non sapere (cf. Fedro, Alcibiade). Riconoscere che tutto ciò che è in noi altro non è che falsa sapienza ossia opinione. Quando si è spazzata via tutta la falsa sapienza, ossia tutto ciò che si credeva di sapere, solo allora si può iniziare ad acquisire, con lenta e faticosa ricerca, la vera sapienza. Perciò è solo sulla base della saggezza che si può costruire la sapienza. Ecco perché le due vanno insieme (cf. Repubblica).
Dire che ci sono quattro virtù cardinali, ossia principali, dalle quali tutte le altre dipendono, pare non essere semplicemente la trovata geniale di un filosofo, Platone – anzi, nemmeno, bensì di Socrate attraverso i dialoghi coi vari ragazzi di nobile natura dai quali estraeva la sapienza attraverso la tecnica maieutica (cf. Teeteto) – ma una realtà ontologica che questi dialoghi filosofici, in quanto strumento di ricerca, hanno trovato con lʼaiuto di alcune divinità. Dico questo perché la tradizione cristiana ha conservato, passando attraverso Aristotele e dunque San Tommaso dʼAquino (il tomismo), questa suddivisione. I nomi, nel Catechismo della Chiesa Cattolica, sono un poʼ cambiati (giustizia, fortezza, temperanza, prudenza), ma il concetto delle quattro virtù cardinali esiste ancora.
Io ho fatto circa metà di Scienze della Comunicazione (abbandonata) e circa metà di seminario (abbandonato), più una decina di anni di studi e letture indipendenti. Già il mondo accademico, con la sua struttura fatta di comunità di ricerca basate sulle pubblicazioni e sullʼinsegnamento stesso come ricerca, per quanto riguarda la possibilità della conoscenza ti trasforma. Ti fa, come dire, ponderare le cose, quando parli, invece di sparare opinioni estremamente convinte, convinto veramente di sapere qualcosa. Se hai fatto lʼuniversità, di solito se vuoi esprimere una verità parti citando qualcuno.
Con la filosofia, prima, e con la letteratura cristiana, poi, si impara anche a mettere le conoscenze al loro posto tra le cose della vita. Un poʼ come quando si prende coscienza che il sesso in un rapporto di coppia non è tutto, ma solo una delle componenti. Il Vangelo però, storicamente, una volta era insegnato sin da piccoli. (Ma che ne so io). So solo che nel Vangelo si apprende lʼimportanza della mitezza, nei padri del deserto si apprende che un uomo irascibile non è adatto per il regno dei cieli, con la letteratura spirituale (cristiana) si apprendono le virtù personali e comunitarie, civiche, sociali.
Dico, uno che ha in testa di uccidere, cosa cavolo deve avere in testa? Uno che uccide, quali idee della giustizia, delle leggi e dello stato ha? Si è mai interrogato su essi? La cantante neomelodica che esalta i boss di mafia e invita a uccidere i poliziotti che razza di educazione ha avuto? Una città in cui si permette di dipingere e venerare murales in ricordo di rapinatori uccisi dalla polizia, che città è? Che cultura ha?

Chi ha paura di Dungeons & Dragons?

È arrivata la notifica di Mewe. Significa che la mia compagna di gioco ha risposto alla mia giocata. È arrivata, in poche parole, la sua giocata. Stiamo giocando a un roleplay game. Forma libera. Significa in pratica che uno inizia una storia e lʼaltro la continua, poi lʼaltro continua a partire dalla continuazione di quello che ha scritto prima, e così via. In questo caso, inoltre, i due scrittori interpretano ciascuno un personaggio, il quale è completo loro dominio. Ciò significa che se io interpreto un personaggio, sono lʼunico che può decidere le sue azioni. Lʼaltra persona può decidere le azioni solo del suo personaggio. La cosa divertente è che nella forma libera siamo entrambi master. Significa che entrambi possiamo contribuire alla creazione del mondo in cui è ambientata la storia, quindi possiamo inventare backstory, personaggi secondari e animarli, cioè controllarli, e così via.

Mi sto divertendo molto. La storia lʼha iniziata la mia compagna di gioco. È lei che ha procurato il cosiddetto starter, ossia lʼinizio, il setting della storia. È lei che ha abbozzato i due personaggi principali. Uno è un uomo, e devo interpretarlo io, e gli ho dato io il nome. Lʼaltro è una donna, e deve interpretarlo lei, e gli ha dato lei il nome. Il genere della storia è romance. E vabbè, sono single, checcé volete faʼ, checcé. Sto giocando in inglese. La mia compagna di gioco, ho scoperto, vive nella mia stessa timezone. Secondo me è da qualche parte in Germania o Scandinavia. Come ho detto, mi sto divertendo molto. È come il corso di improvvisazione che ho fatto fino a quando è arrivato il Covid. Solo che qui si ha più tempo per pensare. Si può anche scartare la prima idea che viene in mente e metterne unʼaltra. Si può rileggere il testo e correggerlo.

Molto divertente, molto, molto divertente. È un peccato che non abbia mai giocato ai giochi di ruolo. Avevo amici nerd, ma non ero un nerd. Non sono mai stato abbastanza intelligente. La prima volta che mi hanno fatto sedere attorno a un tavolo con Dungeons & Dragons e mi hanno detto: “Devi leggerti tutte le regole in questo librone” mi sono subito scoraggiato. La cosa mi sembrava insormontabile. Poi avrei dovuto improvvisare le mie mosse… dire cosa faceva il mio personaggio…? Troppo difficile per uno come me che non ha mai avuto immaginazione. I cervelloni miei amici nerd ci sguazzavano, con le loro fronti spaziose. Allʼinizio me ne sono fregato, e ho cambiato genere di amicizie. E vabbè. Sono finito in gruppi dove ero bulleggiato. E vabbè. La storia della mia adolescenza è peggio della storia della mia vita presente. Anni dopo, verso i 26, 27, attraverso i blog sono venuto di nuovo a contatto col mondo dei giochi di ruolo. Cʼera gente che ne parlava davvero tanto. Ossessionati puri, gruppi di discussione dove si analizzava la quantità di regole che un gioco deve avere... Il mondo dei giochi di ruolo sembrava davvero interessante. Cʼera addirittura chi apriva blog su blog – cioè, la stessa persona che ne apriva più di uno – creando identità diverse per… come… interpretare dei personaggi nella vita reale. Che geni. Gente col cervello. Non ci sarei mai arrivato a una cosa del genere. Scoprii On stage!, una via di mezzo tra il gioco di ruolo e il teatro, che però era pur sempre un gioco di ruolo. Un gioco di ruolo in cui si faceva teatro. Iniziai a capire meglio cosʼè un gioco di ruolo. Iniziai a pensare di scacciare le mie paure dellʼimprovvisazione – che avrebbe smascherato la mia mancanza di immaginazione.

In quegli anni studiavo anche il cinema e la recitazione, specialmente quella dellʼActorsʼ Studio. È vero che il metodo dellʼActorsʼ Studio insegna principalmente a creare il personaggio basandosi su quali delle proprie qualità si possono prestargli, ma la regola principale è pur sempre: “La recitazione è reazione. Ascolta cosa dice lʼaltro e fai la prima cosa che ti viene in mente. Se hai studiato a memoria una frase da dire – e se il testo è scritto bene – ti verrà in mente esattamente quella frase”. Nella Milano di quegli anni, brechtiana e di impostazione attoriale europea – manieristica e mascheristica – era difficile trovare un gruppo che ti invitava dallʼAmerica uno che insegnava allʼActorsʼ Studio.

Però in quegli anni persi il padre, il momento non era buono e non continuai. Ma mi è rimasta la voglia di fare teatro, di improvvisare, di usare la creatività in modo spontaneo – reazionale, ossia vedendo cosa provoca in te lʼazione di un altro.

Quando ero frate facevamo le ricreazioni di sera dopo cena. Il nostro generale, superiore e guardiano – le nostre comunità erano composte da massimo 4 o 5 frati – era americano. Facevamo molti giochi di creatività. Invenzione collettiva di storie, racconti e recitazione di scenette. Imparai a lasciarmi andare. A non giudicare ciò che usciva da me, a non essere severo con me stesso (come lʼartista che lavora incessantemente alla sua opera). Tutto molto divertente e liberatorio.

Nel 2017, dopo aver smesso, prima di fare i voti definitivi, di fare il frate, ho riscoperto su Google+ il mondo del roleplay. Finalmente mi ero deciso, nel tempo libero, a dedicarmi ai giochi di ruolo. Però Dungeons & Dragons continuava a non piacermi. Non mi interessa il genere, mostri, elfi, fate, nani, troppa fantasia. Mi piace il mondo reale. Scoprii il genere slice of life. Ciò a cui sto giocando adesso, che unisce le mie passioni per scrittura, improvvisazione, creatività, narrazione, recitazione e chi più ne ha più ne metta. Anzi no, recitazione no.

Nel 2019 finalmente mi sono iscritto a un corso di improvvisazione teatrale. Ho incontrato tanta brava gente, mi sono divertito un sacco, ho scoperto di più i miei limiti ma non me la sono presa troppo, ho imparato delle cose, delle tecniche, delle nozioni. Poi è giunto il Covid.

Un poʼ leggi, un poʼ scrivi

Mi metto a scrivere per il semplice fatto che non voglio essere solo consumatore, ma anche produttore.

Essere consumatori è essere passivi, assorbire, prendere, ricevere.
Essere produttori è essere attivi, lasciare andare, faticare, dare.

Ho appena letto una frase in Guerra e pace che mi ha colpito. È riferita a Franz, lʼimperatore austriaco, che nei primi capitoli della guerra il principe Andrej deve incontrare in qualità di messaggero. Un amico austriaco fa ad Andrej una breve introduzione dellʼimperatore prima che lo incontri. “Non ama e non sa parlare”. Infatti poi nel breve incontro lʼimperatore si limita a fare in fretta solo qualche domanda.

La frase mi ha colpito. Anni fa, leggendo Platone, ricordo di aver raccolto la nozione che un segno di natura aristocratica è quando uno tende a parlare molto. Non è come dice la gente comune oggi, che quando uno parla molto è logorroico, non si può sopportare, si soffre a stare ad ascoltarlo, ecc. In realtà la tendenza a parlare è un buon segno, addirittura un segno aristocratico. Chi parla molto ha tendenza a dare.

Lʼuomo silenzioso e ascoltatore è anche lʼuomo che ama le ricchezze. Lʼuomo che tende ad accumulare. A prendere più che a dare.

Rivedendo tutto questo in chiave cristiana, trovo in me stesso una natura non tanto buona. Infatti tendo a essere silenzioso e dicono che sono un bravo ascoltatore. Non sono neanche tanto bravo a parlare. Per questo sto zitto e mi rifugio nella scrittura.

Agatone è un personaggio di un dialogo platonico, Simposio. In Platone Agatone è la quintessenza del personaggio aristocratico, un uomo benevolo, pieno di qualità, benefattore verso la città e gli amici, parlatore, anzi, produttore di tragedie recitate davanti al pubblico dellʼintera città di Atene.
La radice del suo nome è la stessa della parola agape, amore, carità. (Agathos in greco vuol dire: “Bene”). Questo amore non è il cosiddetto amore romantico, Eros, cioè lʼamore di chi non ha verso chi ha, del povero verso il ricco, del brutto verso il bello, in poche parole di chi non ha i beni verso chi è in possesso dei beni. Questo amore, Agape, è lʼesatto contrario, è lʼamore di chi ha verso chi non ha, lʼamore del ricco verso il povero, lʼamore del bello verso il non bello, ecc.

Cʼè una differenza tra amante e amato. Lʼamante non ha e vuole, chiede, prende, riceve. Lʼamato ha e dà, consegna, risponde, dona, rilascia.
Consultare Simposio di Platone, in particolare il discorso di Socrate, che è il sesto di sette, ossia il penultimo (lʼultimo è quello di Alcibiade, che è lʼunico convitato che decide, invece di fare lʼelogio di Eros, di fare quello di Socrate).

Questo mistero è grande (cf. Ef 5, 32). Bisogna conoscere bene la distinzione fra questi due tipi di amore. Uno va dallʼalto verso il basso, lʼaltro dal basso verso lʼalto.

Lʼamore che va allʼalto verso il basso è agape, carità. Lʼamore cristiano. Dio.
“Dio è amore”,  “οτι ο Θεος αγαπη εστιν” (1Gv 4, 8; 1Gv 4, 16).

Tendo a dare poco soprattutto perché sono convinto che ciò che ho da dare non sia buono. Ma questa è solo una scusa che dico a me stesso e agli altri, pur di non dare.

Anche Seneca dice a Lucilio nelle Lettere a Lucilio: “Un poʼ leggi, un poʼ scrivi”.

Non dobbiamo limitarci a scrivere o a leggere: la prima attività, parlo dello scrivere, riduce ed esaurisce le forze; la seconda ti snerva e ti spossa. Bisogna, invece, passare dall'una all'altra e contemperarle in modo che la penna riconduca a unità quanto si è raccolto con la lettura. (84, 2)

Un film tremendo

David Mamet è un ebreo americano che negli anni ‘70, quando la sua carriera di drammaturgo stentava a prendere il volo, ha lavorato, tra le altre cose, come venditore di immobili. Non vendeva case ma terreni. Nel 1983 ha scritto un dramma in due atti in cui descrive il mondo dei venditori di terreni. Il dramma si chiama Glengarry Glen Ross. Glengarry Glen Ross nel 1984 ha vinto il Premio Pulitzer nella categoria Teatro.
Nel 1992 è stato adattato a film. Gli attori che vi hanno preso parte sono Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin, Kevin Spacey, Ed Harris, Alan Arkin e Jonathan Pryce. 

Posso solo dire che le performance sono qualcosa di tremendo. Attori supertalentuosi che hanno raggiunto la maturità e che trovano unʼoccasione per dare il meglio di sé.
Il titolo italiano è Americani, e mai titolo italiano mancò in peggior modo il bersaglio. Ovviamente consiglio la visione in lingua originale. Chi guarda Americani doppiato fa prima a mettere la testa nel water subito dopo aver defecato e tirare lʼacqua. Bisogna guardare Glengarry Glen Ross.
Consiglio di guardarlo coi sottotitoli in lingua originale le prime volte, magari tenendo internet a portata di mano per cercare parole e soprattutto modi di dire che non si conoscono. In ogni caso il massimo sarebbe arrivare a guardarlo almeno una volta in lingua originale senza sottotitoli per godersi la recitazione. È una recitazione tremenda.

A parte le prove tremende di recitazione, il film va visto per la storia, che è bella. Due atti, due ambienti. Tutto gira intorno a dialogo e recitazione. Non cʼè una donna. Il verismo con cui è descritto il mondo dei venditori di terreni è ai massimi livelli. Anche lʼumanità dei personaggi è descritta con massimo verismo, sono evidenti le motivazioni che determinano le loro azioni. I personaggi sono meglio dei Power Rangers, ciascuno ha un profilo ben definito che lo distingue dagli altri. Roma, Levene, Aaronow, Moss, Williamson, Blake, Lingk sono sculture scolpite nel marmo. Ciascuno è un universo a sé.

Si trova su Amazon a 9,99 e su IBS in versione Blu-ray a 12,99.

Stiramento o strappo o contrattura

Venerdì mattina, verso circa le dieci, dopo nemmeno unʼora di consegne scarico, a freddo, un paccone di libri da 15 kg – cʼera scritto sopra – per una libreria. Nonostante avessi parcheggiato esattamente davanti alla libreria e non avessi strada da fare, ma solo pochi passi, appena ho sollevato il pacco mi si è stirato o strappato o contratto un muscolo della schiena a destra sotto lʼascella.

Il pacco era mezzo aperto. Amazon non sa imballare correttamente i pacchi di libri quando sono tanti. Ci mette intorno un fuscello di cartone ed è tutto. Si è visto lo sfacelo a settembre quando le famiglie compravano pacchi pieni di libri scolastici. Basta prenderli in mano che col peso interno si sfasciano, si aprono sui lati, si vede il contenuto... è imbarazzante.

Il libraio in questione, giustamente, si è lamentato. Lui compra i libri per rivenderli. Già una volta gli avevo consegnato un pacco rovinato e mi aveva detto: “Anche voi di Amazon, dunque, amate giocare a calcio coi pacchi”. Mi aveva descritto come i clienti vogliono i libri immacolati, senza il minimo segno. E hanno ragione, direi, se comprano un libro nuovo.

Venerdì quindi, dovendo consegnare tale pacco mezzo aperto e sfasciato a questo libraio, già ero preso male. Glielʼho portato presto apposta, per evitare che, muovendolo più volte nel furgone per prendere altri pacchi, lo rovinassi ancora di più. Sta di fatto che si è lamentato. “Ma è tutto aperto”, ha detto. “Guardi, non so cosa dire”, ho detto io. “Purtroppo Amazon i libri li imballa così. Quando sono uno o due va ancora bene, il pacco è bello stretto e compatto. Ma quando sono tanti, fanno questi imballi che non valgono niente”.

Tutto questo lʼho detto con una smorfia di dolore sul volto. Il muscolo della schiena mi era partito esattamente prima di entrare nella libreria. Soffrivo, quindi non avevo nemmeno voglia di stare lì a parlare. Ho liquidato il povero libraio. Mi sta pure simpatico e la sua sorte mi sta a cuore. “Non pensano che una libreria possa comprare dei libri per rivenderli”. “Ma anche un i-a-o”, ha detto lui. “Anche un…?” ho detto io. Non capivo per via della mascherina. “Anche un i-a-o”. “Mi scusi, non capisco, un…?”. “Anche un privato”, ha detto il libraio scandendo la parola. Intanto io soffrivo e volevo andarmene. “Ah, certo, anche un privato. Ma insomma, non cʼè niente da fare, ad Amazon i libri li imballano così!”. “Va bene, arrivederci!”.

In giornata ho chiamato la segretaria del medico di base, la quale è riuscita a darmi appuntamento per la sera stessa dopo il lavoro. Al dottore ho spiegato, quando mi ha chiesto: “Le fa male alla base della schiena?”, “No, mi fa male la parte destra, esattamente sotto lʼascella”.
Mi ha prescritto il Brufen e ha detto: “Se lunedì le fa ancora male, resti a casa e mi chiami”.

Stamattina lʼho chiamato e gli ho detto: “Buongiorno, dottore. Senta, io ho ancora male alla schiena. Oggi sono rimasto a casa”. E lui: “Va bene, cosa faccio, le do due giorni?”. Volevo dirgli: “Veda lei”, ma ho detto: “Sì, va bene, direi che due giorni dovrebbero bastare”. Sottinteso: “…a farmi passare il male alla schiena”. Il dottore: “Va bene, mi richiami dopo, che le do il numero (del certificato). Le do due giorni per la lombalgia”. “La chiamo su questo numero?”. “Sì, fra mezzʼora”. “Ok, grazie, grazie”. Abbiamo riattaccato. Alle 11,20 l‘ho richiamato e mi ha dato il codice del certificato.

Per me però non è lombalgia. Gli ho spiegato, quando mi ha chiesto: “Le fa male alla base della schiena?”, “No, mi fa male la parte destra, esattamente sotto lʼascella”.

Gli ho portato anche delle lastre che mi aveva fatto fare il 10 febbraio, appena prima che scoppiasse il Covid. Avevo fatto le lastre ma non avevo fatto in tempo a portargliele per fargliele vedere. Le ha guardate e ha detto: “Non cʼè niente. Le lastre sono negative”.
Quindi non ho problemi alla schiena.
Ho solo solo questo muscolo sotto lʼascella che ogni tanto si stira o si strappa o si contrae – è già successo un altro paio di volte, una volta ero stato a casa tre giorni, unʼaltra volta il male mi era passato dopo circa tre ore, perciò non avevo ritenuto necessario chiamare il medico di base.

Film che mi faccio dal mio locale-mono

Cʼè il solito cane che abbaia. Mi disturba.
Non ha niente contro cui abbaiare. È solo frustrato.
Ha un parco immenso in cui muoversi, giocare, fare il padrone e lui cosa fa? Si mette davanti al cancello che dà sulla strada e abbaia. Abbaia a chi? Al passante che passa ogni mezzʼora?
Questa è una zona periferica della città. Una volta era un paese a sé. Alla fine di questa zona cʼè il confine della città e iniziano i paesi della provincia. Siamo praticamente in campagna. Anzi, cʼè tutta una parte di campagna che separa la città da questa zona. La città è comunque piccola, e per arrivare qui dal centro ci vogliono 12-15 minuti.
Però è vero che davanti a quel cancello passerà si e no una persona ogni quarto dʼora, se non di meno. Non è certo una strada affollata.

Mi disturbano anche i vicini.
Cʼè evidentemente una parete spessa che divide la mia casa (locale-mono) dalla loro stanza da letto (locale-bi, so come è fatta la casa, perché i vicini precedenti mi invitavano). Infatti non sento mai niente.
Però ogni tanto urlano. Specialmente lui. Ultimamente gridano. Ho sentito distintamente una bestemmia due volte.
Io con uno così non vorrei mai stare. Fossi in lei lo lascerei.
Lei ogni tanto ride. Giocano a qualcosa secondo me. Quando uno vince, urla di gioia.
Lei mi pare veramente un pezzo di pane, non si merita un bestemmiatore.
Se non ho capito male il ragazzo di prima, col quale si era trasferita qui, lʼha lasciata e se nʼè andato. Lei ha pianto a voce alta – non sto scherzando – almeno per due ore consecutive. La sentivo chiaramente attraverso la suddetta parete. Una cosa pazzesca. Allʼinizio non capivo cosʼera, anzi pensavo fossero grida di godimento e ho teso lʼorecchio (perché ovviamente tali cose mi incuriosiscono). Poi ho capito che era pianto. Ero appena tornato dal lavoro. Saranno state, che so, le 17,30, le 18,00. È andata avanti almeno due ore. Il ragazzo con cui si era trasferita qui, un tipo mulatto che parla perfettamente italiano, non sʼè più visto. Adesso a quanto pare ce nʼè un altro – il bestemmiatore – ma non lʼho ancora visto.
Lei, ho scoperto, lavora al supermercato qua vicino. Non in quello dove vado io, lʼaltro. In effetti quando si è trasferita mi sembrava familiare. Ogni tanto vado nel suo supermercato a fare la scorta di marmellata, perché hanno i vasi grossi da mezzo chilo della Zuegg. Mangio un sacco di marmellata la mattina, insieme a tante fette di pane tostato.
I collegamenti tra i pianti e le rotture di fidanzamento li ho fatti io. Di fatto le cose potrebbero essere completamente lʼopposto. La narrazione che ho fatto è la ricostruzione fatta da me in base a cose sentite e viste. Ma esco presto la mattina e quando torno a casa mi infilo nel mio appartamento e non ci sono per nessuno. (A parte parenti e amici intimi).
Non ho per niente rapporti con questi vicini perché una volta abbiamo litigato.
Erano appena arrivati. Era estate. Loro – avendo il locale-bi –  hanno un piccolo spazio allʼaperto che è proprio appena fuori dalla mia porta dʼingresso. Siccome sono giovani, è la prima volta che vanno a vivere da soli. Primo lavoro, avviato, dopo un poʼ prima casa, chissà se in affitto o se lʼhanno comprata, comunque, pensavano di poter fare ciò che volevano, di divertirsi, di godersi la conquistata indipendenza. Non pensavano che stavano andando a vivere in un condominio dove pure lì vigono regole. Li ho sopportati varie volte usando tappi per le orecchie. Ma quando una volta mi hanno svegliato alle 1,40, ridendo e scherzando con unʼaltra coppia proprio nel loro spaziettino allʼaperto attorno a un tavolo, non ci ho più visto. Sono uscito e ho detto che dopo le 23,00 non si può fare rumore e che se avessero continuato avrei avvisato lʼamministratore ecc. Lei si è scusata subito: “Scusa, scusa”. Poco dopo gli amici sono andati. È brutto fare il guastafeste. Ma io il giorno dopo dovevo svegliarmi alle 6,00 per andare al lavoro. Ho il sonno leggero. Prendo pure un sonnifero. Date queste condizioni, se mi svegli sei in torto marcio, anche considerato il fatto che è vero che nei condomini è proibito da regolamento fare rumore dopo le 23,00.
Da allora è tanto se ci diciamo: “Ciao” quando ci incrociamo. Mi sono fatto i miei film sullo stato della coppia, ma potrebbero essere tutti sbagliati.
Ogni tanto alzano la voce, o per litigare o per gioire o per giocare – sarcazzo – e mi disturbano. Per il resto sono buoni vicini. La strigliata di quella volta alle 1,40 è servita.

Non era vero che se non porti al Comando della Polizia Provinciale il modulo decurtazione punti entro 60 giorni revocano la patente. Semplicemente fanno un ulteriore verbale di circa 300 euro. E non decurtano i punti. Avrei preferito pagare e non avere i punti decurtati. Ma a quanto pare sono riuscito a portare – per mia sfortuna – entrambi i moduli per tempo. Uno con un giorno di ritardo, ma hanno detto che forse andava bene lo stesso. Lʼaltro esattamente il giorno della scadenza. Almeno, non mi è arrivato ancora nessun verbale da 300 euro a casa. Perciò i 6 punti, 3 per multa, dovrei averli persi. Tra poco controllerò sul Portale dellʼautomobilista. Dovrebbero essermi rimasti 11 punti. Male. 18 li ho persi con ben 6 multe con due soli autovelox della tangenziale sud. 4 multe il primo anno di lavoro (2018), tutte con lo stesso autovelox – di cui non sapevo dellʼesistenza. 2 multe a ottobre 2020 con un autovelox di cui non sapevo dellʼesistenza. 1 punto, il diciannovesimo, perché una volta un vigile pignolissimo – per non usare unʼaltra parola – mi ha aggiunto nel verbale di divieto di sosta: “Uso improprio dei dispositivi di segnalazione dʼemergenza”. Avevo le quattro frecce.

Pensieri asfissianti

Sono terrorizzato allʼidea che mi revochino la patente. Se mi revocano la patente potrei perdere il lavoro. Proprio adesso che sto comprando casa. Se perdo il lavoro non posso più comprare casa. Che disastro.

Dico: “potrei” perché cʼè la speranza che i miei capi mi assegnino altre mansioni come ad esempio a K., il quale è rimasto più di un mese senza patente e ciononostante gli hanno trovato da fare, lavori dʼufficio e organizzativi.

Sono in ansia da giorni. Sabato pensavo di risolvere la cosa. Sono andato al Comando della Municipale, che ha un piantone 24 ore al giorno che ritira i moduli di decurtazione punti patente. Ma non dovevo andare al Comando della Municipale, bensì a quello della Provinciale. Le multe le ho prese con lʼautovelox della tangenziale sud, che è una strada provinciale.

Da quando hanno aperto il nuovo punto di smistamento abbiamo cambiato luogo di lavoro. Nuovo luogo di lavoro, nuova strada per andarci. E sulla nuova strada per andare al nuovo luogo di lavoro, nel lato del ritorno, cʼè un autovelox di cui nessuno ha detto niente. Brutte cacchette scivolose che non siete altro. Qualcuno poteva fare un accenno, no? Ciò che è peggio, non è segnalato da Google Maps. Io quella strada non lʼavevo mai fatta, in quel tratto di tangenziale non ero mai andato, porca puzzola. Il centro di smistamento apre lʼ1 ottobre. Prendo una multa con la macchina, tornando a casa, lʼ8 ottobre, e una col furgone, andando a consegnare (dal centro di smistamento alla città) il 18 ottobre. Mannaggia mannaggiucola porca puzzolina/paletta. Due multe da 137 virgola qualcosa euro e tre punti ciascuna.

Come funzionano i moduli decurtazione punti patente? Lʼautovelox fa la foto alla targa del veicolo. Allʼindirizzo di residenza dellʼintestatario è recapitata la multa. Nella busta con la multa cʼè il modulo decurtazione punti. Serve semplicemente a dire chi era alla guida. (Ero io, alla guida).

Consegni il modulo compilato coi dati anagrafici e i dati della patente al comando della Provinciale – in questo caso della Provinciale, perché la tangenziale sud dove cʼè lʼautovelox che è la mia nemesi è una strada provinciale – e loro, godendo di brutto, decurtano i punti.

Il problema non è neanche perdere sei punti, anche se ovviamente è una cosa grave. Il problema è che una delle due multe mi è stata notificata non ricordo quando, mi pare a metà novembre, pur essendo il verbale della prima metà di ottobre. Se non si va al comando della Provinciale col modulo della decurtazione dei punti entro 60 giorni dal giorno di notifica del verbale, la patente è revocata.

Di questo ho paura, di aver sforato i 60 giorni.

Domani vediamo.

Aiutooo!

Se il Signore vorrà

Ho sconfinato il Comune per comprarmi cibo giapponese e cinese da portare a casa. Sushi, ravioli al vapore con carne, manzo con funghi e bamboo. 

Se Dio vuole (non si dice: “Se tutto va bene”, perché san Giacomo nella Scrittura ricorda di dire sempre: “Se Dio vuole” (cf. Gc 4, 15), “Inshallà” dicono i musulmani), se Dio vuole – dicevo – a metà gennaio rogito. Non significa un rivoltamento di stomaco. Significa che compro casa. Metà la paga mia madre. Essere cresciuto da solo con la mamma ed essere il suo cocco ha lati positivi. A parte gli scherzi, mia madre è santa.

Sono sempre lo stesso, sempre più schiacciato dal lavoro e sempre più pigro quando sono a casa. Eppure Dio di grazie me ne fa. Io faccio le cazzate, tipo perdere punti della patente, e lui mi fa le grazie. Chissà chi avrà la meglio alla fine. Diciamo che è semplice. Non posso continuare a basarmi sulla preghiera degli altri. È così che ho trovato lavoro, ed è così che riesco a continuare a svolgerlo. Merito di chi prega per me.

Io sono talmente indisciplinato che non riesco a essere costante nemmeno nella cosa più preziosa che lʼuomo ha sotto questo cielo, la preghiera. Se riuscissimo ad assicurarci lʼaiuto di Dio potremmo fare qualsiasi cosa. “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4, 13). Se non lo fai per disciplina, almeno fallo per amore. Dio vuole un rapporto dʼamore da te. Vuole che lo ami. Vuole che ti rivolgi a lui non solo per chiedergli cose, ma perché intrattenerti con lui ti piace. Brama questo tipo di rapporto con noi.

Sono nel I Anno di Formazione dellʼOrdine Secolare dei Carmelitani Scalzi della mia città. Stiamo leggendo santa Teresa dʼAvila, Vita e Cammino di perfezione. In entrambi i libri, in vari punti la santa insegna un metodo di orazione basato sul dialogo amoroso con Dio. Poi possono esserci le richieste di perdono, le lodi, i ringraziamenti, le richieste di grazie in generale, per sé o per altri. Ma innanzitutto ciò che occorre imparare è un dialogo da solo a solo. Un dialogo fatto anche di sguardi, silenzi, attese. Chi è in formazione come me, e sarà in futuro ammesso allʼOrdine Secolare, è obbligato a praticare mezzʼora quotidiana di questo tipo di orazione, che può essere in alcuni punti simile alla meditazione. Però è chiaro e abbastanza ribadito che Dio non chiede lunghi discorsi (cf. Mt 6, 7) e, se vuole che impariamo qualcosa di ordine teologico, sarà lui a farcene rivelazione. Basta chiedere e abbandonarsi.
Chi è in formazione come me deve anche pregare almeno Lodi, Vespri e Compieta giornalmente. Io non riesco a fare nulla di tutto ciò. Infatti vengo debitamente rimproverato dalla maestra proprio perché indisciplinato. Menomale che cʼè qualcuno che mi rimprovera. “Mi percuota il giusto e il fedele mi rimproveri, ma l'olio dell'empio non profumi il mio capo” (Sal 141, 5).

Sono giunto a questa conclusione. Dentro di me l'ho detto e ribadito più volte già da tempo. L'unica cosa buona che ho fatto nella vita, l'unica cosa intelligente, per così dire, è aver scoperto che esistono al mondo persone che pregano ed essermi attaccato a loro con venerazione.

Una persona che prega, una volta che ti ha conosciuto pregherà per te. Anche se non lo fa volontariamente, lo fa involontariamente

Ciascuna persona che incontriamo diventa immediatamente per noi una missione. Dobbiamo pregare per le persone che incrociamo per strada, per le persone che sono in coda davanti a noi alla Posta, ecc. Gli incontri sono: "quelli che mi hai dato" (cf. Gv 17, 24; 18, 9). Non dobbiamo perderne nemmeno uno, come ha fatto Gesù. Il nostro spirito lo sa, anche se non preghiamo volontariamente per loro. Dentro di noi vogliamo automaticamente il bene per coloro che ci sono stati dati, che ci sono stati affidati, che sono stati affidati alla nostra preghiera. E lo Spirito Santo sa interpretare i gemiti inesprimibili del nostro spirito (cf. Rm 8, 26).