Finalmente ho capito

Pregavo, e ho avuto un’illuminazione sulla frase di Gesù: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6, 7) dopo la quale Gesù insegna il Padre nostro.

Avevo tante cose da chiedere, quindi stavo parlando a lungo. Ogni volta che mi rendo conto di star parlando a lungo, in preghiera, mi fermo e dico: “Non starò mica sbagliando?”.

Ho sempre fatto fatica a far convivere questa affermazione con altre esortazioni della Bibbia a pregare, soprattutto: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18, 1) e “pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie” (1Ts 5, 17-18).

Per capire che non c’è contraddizione tra la prima affermazione e le seconde si può leggere un passo di Fedro, il dialogo platonico. Nel passo si afferma che i discorsi non è importante tanto saper farli lunghi o corti a piacimento, allungando un discorso lungo o accorciando un discorso breve, bensì saper farli lunghi il giusto. Ogni discorso ha la sua giusta lunghezza in base al contenuto.

Socrate, in questo passo, si scaglia contro i sofisti del suo tempo. Costoro infatti si vantavano di essere in grado di allungare o accorciare a piacimento qualsiasi discorso, e di conoscere altre operazioni da applicare, specialmente agli scritti, per farli secondo le vigenti norme retoriche.

Ciò che Gesù dice è che la preghiera non dev’essere il luogo dove fare sfoggio di retorica, di arte oratoria. Una volta espresso il bisogno, o la lode, o il ringraziamento, è sufficiente. Non c’è bisogno di sprecare parole.

Le preghiere possono anche essere ripetute, ma devono essere semplici (ad es. Ave Maria), perché per esprimere i propri bisogni, le lodi e i ringraziamenti non occorrono tanti giri di parole. Possono anche essere lunghe, se uno ha tanti bisogni da esporre. 

Ma non occorre che dico una cosa e poi la ridico in un altro modo per essere più chiaro, poi in un altro modo ancora, per far vedere che so esprimere lo stesso concetto in più modi. Fare uso di tanti giri di parole per esprimere concetti semplici è il modo di parlare pagano.

Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita (Fil 2, 14-16)

Un popolo di bestemmiatori

Ma l’uomo nella prosperità non comprende,
è come gli animali che periscono (Sal 49, 13)

La mia teoria è questa. L’ho formulata nelle linee generali da quando sono stato nella vita religiosa. Poi è rimasta più o meno la stessa. (Mentre scrivo ho freddo alle gambe. Ho messo un pigiama corto, estivo. L’unica alternativa pulita sono pantaloni da tuta, troppo pesanti per queste giornate, anche se di fatto di notte fa ancora freddo, ma col piumone invernale, che ancora uso, il problema non si pone. Non riuscivo a prendere sonno, mi sono alzato e mi sono messo a scrivere. Ho messo una coperta sulle gambe nude. Come top ho un pile, ebbene sì, dormo con un top di pile. Ma mi sa che stasera lo tolgo e resto in maglia di lana. Tanto, come ho detto, per dormire mi copro ancora col piumone invernale. È che non accendo il riscaldamento, per risparmiare). La teoria, dicevo, è questa.

Nel dopoguerra l’Italia era un paese povero ma pieno di fede. Tutti avevano poco o nulla e si pregava. Dio ha ascoltato le preghiere e le ha esaudite. Beati i nostri nonni che avevano siffatto rapporto con Dio. L’Italia ha conosciuto un boom economico. Il Paese si è arricchito. E proprio questa è stata la sua disgrazia. Con la ricchezza sono arrivati i guai. Il ricco dimentica Dio. (Ossia colui che l’ha reso ricco).

Ma direi che questo discorso non vale solo per l’Italia. Vale in generale per l’Europa. Tutti i paesi europei, dopo la seconda guerra mondiale, dovevano uscire da situazioni di povertà. Allora c’era ancora fede. Nei miei anni da frate nelle Marche e nel Lazio, nelle missioncine popolari in parrocchie della Calabria e del basso Lazio, ho sentito parlare spesso di come al tempo dei nonni la sera nelle case dopo cena non si guardava la televisione, si diceva il rosario.

Con la ricchezza l’uomo si è dimenticato Dio. Ha creduto di essere lui l’artefice. Ha detto: “Come sono stato bravo a procurarmi questo benessere”. Sono io con la mia intelligenza che controllo la scienza, che l’ho scoperta e l’ho fatta progredire, portandola allo stato di produttrice di miracoli a cui è oggi, sono io...
Ma: “Ogni sapienza viene dal Signore / ed è sempre con lui” (Sir 1, 1).

È mia profonda convinzione che il benessere è arrivato perché i nostri nonni non avevano nulla e si rivolgevano a Dio. Ah, se la sera invece di guardare la televisione dicessimo il rosario... Quanti danni fa la meravigliosa, dannata televisione! Non ho la televisione, per la cronaca; in sua vece mi dànno con lo smartphone. Però è una lotta continua, sto cercando di diminuirne l’uso e soprattutto di farne un uso sempre più corretto. Whatsapp, Google News, Youtube, Kindle e commenti ai blog, questo è l’ideale finale del mio utilizzo dello smartphone.

L’altro punto, e qui vorrei conoscere ulteriori lingue, è questo. L’italiano, se non sbaglio, è l’unica lingua nella quale esiste la bestemmia. Bestemmia intesa come insulto a Dio. In inglese esiste “God damn it”, che significa letteralmente: “Dio maledica (una data cosa)”. Né in spagnolo né in francese mi pare esistano i rispettivi delle nostre due principali bestemmie, non le ripeto, una è rivolta a Dio, l’altra a Maria. Ma vale anche per le altre lingue. Siamo gli unici a lanciare insulti diretti a Dio.

Come si spiega che l’Italia è la beffa delle nazioni? Sfido chiunque a salire in treno a Ventimiglia e scendere a Nizza e a non notare l’immane differenza che si trova a distanza di pochi chilometri. Come è possibile che una nazione così popolosa e allo stesso tempo così laboriosa e inventiva, con eccellenze in ogni campo, sia un costante fallimento politico? Non abbiamo nulla di meno delle altre nazioni. Perché siamo una barzelletta all’estero? Perché l’italiano è così ridicolo?

È Dio che ci ha resi così. Dio che ci punisce costantemente, con la mafia, coi rom, con la politica da farsa... Con un modello di uomo senza dignità.
Per forza, non facciamo altro che bestemmiare! Non passa giorno in cui non ascolti bestemmie, bestemmie su bestemmie. Bestemmia il bambino, bestemmia la mamma, bestemmia la ragazzina, il muratore come il libero professionista, l’anziano come il giovane, il frequentatore di bar come l’avventore di ristoranti stellati, uomini e donne, grandi e piccini, tutti sono bestemmiatori in Italia!

È per questo che l’Italia va in rovina! Dio è scontento di noi. Dio non gradisce la nostra continua bestemmia. La bestemmia dell’italiano non è più nemmeno un gesto di stizza contro il fato (per le sfighe, quando ti cade l’auto sul piede perché hai messo male il cric, ad esempio, bisognerebbe maledire il demonio, l’unico demandato a fare del male, non Dio, il quale non potrebbe fare del male neanche se volesse, l’unica cosa che può fare Dio è permettere, lasciare che il demonio agisca...).

La bestemmia dell’italiano è ormai intercalare, parola qualsiasi detta in mezzo a discorso qualsiasi. Si bestemmia così, tanto per avere un’esclamazione da dire al posto di un’altra, più colorita di un’altra. Già la bestemmia piena di rabbia, in seguito a una sfiga, è un male. Ma la bestemmia come intercalare, senza motivo, giusto per inserire una frase che è diventata moda... non saprei cosa dire... Cosa pensa Dio guardandoci dall’alto? “Ma questi sono scemi”, dirà. “L’unico che può aiutarli, l’unico potente, l’unico in grado di apportare benefici, l’unico che può realizzare la propria volontà... e questi non solo mi dimenticano, ma mi bestemmiano a ogni piè sospinto...? Ma saranno scemi!”.

Non mi meraviglierei se ci piovesse addosso qualche bomba nucleare. Così, anche se non siamo nemici di nessuno e non siamo obbiettivo bellico di nessuno. Prima o poi arriverà, così, senza motivo. 

Stai attento a ciò che desideri!

Ho ascoltato la nuova canzone dei Red Hot Chili Peppers, Black summer, nella quale ho finalmente potuto sentire materiale nuovo di Frusciante, e il concerto n. 21 per pianoforte e orchestra di Mozart (K. 467), diretto da Muti e con Pollini come solista, un’ottima resa. Pollini, personalmente, l’ho trovato un po’ troppo interpretativo. Nel senso che ci ha messo troppo del suo, troppo di nuovo nella sua resa. Gli italiani ormai è da qualche decennio che fanno così. Visto che non sono in grado di fare le cose semplici (grandi), per cercare la grandezza si affidano alla ricerca del nuovo, del gesto inconsulto, dell’interpretazione fuori dal normale. Invece per rendere grande Mozart basterebbe interpretarlo alla lettera, come fa Karajan, perché Mozart è già grande. Non c’è bisogno che ci aggiungi del tuo. Certo, un interprete non può fare a meno di aggiungere del suo a un’opera che interpreta. Altrimenti non sarebbe un interprete. Il fatto è che quando sei un interprete non sei altro che un mediatore. Il lavoro del mediatore dovrebbe essere quello di farsi notare il meno possibile, di sparire. La mediazione non si dovrebbe sentire. Per godere di Mozart, ad esempio, la massima resa sarebbe quella del trapianto di cervello. Mettersi il cervello di Mozart nel cranio. Avere le stesse idee, pensare le stesse cose, concepire la stessa musica, capire la musica come faceva lui. Questo è l’ideale della trasmissione artistica. Lo stesso vale per Shakespeare. Ma lo stesso vale per qualsiasi artista. Già la messa su carta e per iscritto delle idee è un fallimento, una catastrofe, come dice Bernhard. “Di catastrofe in catastrofe” mi pare si intitoli un’intervista che gli hanno fatto, nella quale lo scrittore spiega quanto sia doloroso avere idee e vederle tramutate sulla carta in qualcosa di completamente diverso, di completamente insufficiente rispetto all’originale concepito nella mente. Woody Allen diceva, anche lui in un’intervista (a Truffaut o Godard!): “The best thing is when you get the idea. The rest is always a disappointment”. Parlava di quanto gli piaceva stare in casa a scrivere, di quanto gli piaceva quella parte dell’anno, in cui concepiva nella mente un film, e di quanto al contrario odiava il periodo dell’anno in cui usciva sulla strada a filmarlo. Scegliere gli attori, le location, i costumi, arrivare al montaggio… “You are out in the cold…”, diceva. E il film riesce sempre diverso da come l’hai pianificato, da come l’hai immaginato all’inizio. Woody Allen nella sua vita, in particolare nella parte finale, ha praticamente fatto un film all’anno. Sei mesi a scrivere, sei mesi a girare. Più o meno, poi non sarà esattamente così. Comunque il tutto, la creazione e la realizzazione, è sempre avvenuto, nel caso di questo artista, nell’arco di un anno circa. Poi lui è malato di disturbo ossessivo-compulsivo, come me, per cui è una persona estremamente abitudinaria.

Posso sopportare gli imprevisti solo nella scrittura. Ritengo solo la scrittura la mia vera attività, l’attività della mia vita. Il lavoro che ho è solo un modo per mantenermi, per portare a casa la fatidica pagnotta, per cui deve essere il più abitudinario possibile, il più esente da imprevisti possibile. Mi sveglio, compio una serie di operazioni sempre uguali, colazione, bagno, vestirsi, uscire, faccio le stesse strade, metto le mani sul volante alla stessa ora, nello stesso modo, sul lavoro, prima di partire, compio una serie di operazioni sempre uguali, e poi purtroppo è un lavoro che può dare imprevisti perché i clienti cambiano, il giro cambia ogni giorno, le strade cambiano e sono sempre diverse. Ma io cerco di minimizzare gli imprevisti e di rendere tutto sempre più abitudinario, sempre più uguale.
È il pensiero che deve essere pronto agli imprevisti. Il pensiero deve essere pronto ad accogliere l’idea, a elaborarla subito, a meditarla, a memorizzarla. Alla mia età gli imprevisti a livello di pensiero sono rari. Anche a leggere i classici, tutto è già stato detto, non c’è niente di nuovo. Leggere la Bibbia e interpretare un passo in modo diverso dal solito, farsi trasmettere una nuova verità sulla vita, questo sì che è un evento, questo è l’imprevisto che sono pronto ad accogliere. Scrivendo un romanzo, è così che vorrei trovarmi ad affrontare imprevisti. Far procedere la storia così o così? Come la vita, ogni azione è feconda di possibilità, preludio di sviluppi infiniti. Ma proprio per poter affrontare questo tipo di imprevisti, le difficoltà nel campo della scrittura e del pensiero, è per questo che voglio che ciò che faccio per vivere, il lavoro che mi dà da mangiare, dato che non ho mai avuto il coraggio di intraprendere l’attività di scrittore, un po’ perché non ne avevo la possibilità, economicamente parlando, un po’ perché non mi sono mai sentito capace, il lavoro che mi dà da mangiare deve essere come il mediatore, deve sparire, deve essere come se non ci fosse, non deve interferire con l’attività del pensiero dando ulteriori pensieri. Se no poi finisce che mi trovo a scrivere di lavoro, come di fatto a volte è successo. Se quella è l’unica roba che occupa la mente… mettiamo fuori quella. C’è solo quella!

Anche la preghiera non può essere ripetizione delle solite formule. “Canterò al Signore un canto nuovo!” (cf. Sal 33, 3; 96, 1; 149, 1; Is 42, 10), è questa l’essenza dell’orazione mentale. C’è da fare delle precisazioni per chi non conosce queste cose. C’è un problema di nomenclatura. Orazione mentale è contrapposto a orazione vocale. Solo che nella letteratura dedicata a queste cose la distinzione abbraccia uno spettro più ampio. Non si tratta solo di una differenza di organi usati, nella mentale si sta zitti, nella vocale si parla con la voce. Si tratta di una differenza di qualità. È invalso l’uso della nomenclatura in questo modo: per orazione mentale si intende quella non formularia, quella che si inventa di volta in volta, il dialogo a tu per tu con Dio. Per vocale si intende la preghiera formularia, il Padre nostro, l’Ave Maria, il Gloria al Padre, i Salmi e tutta la preghiera liturgica, e tutte le preghiere che sono state messe per iscritto e che uno può leggere, ripetere, recitare. Quest’ultima è la distinzione che si ritrova nei testi di Santa Teresa d’Avila, ad esempio, la quale la desumeva dai trattati sull’orazione del suo tempo che lei stessa leggeva. In realtà basta attenersi ai significati delle parole per ricavare che orazione mentale è quella fatta dicendo parole mentalmente, stando zitti con la bocca, sia che si dicano preghiere personali, inventate sul momento, dialogando con Dio, sia che si dicano preghiere già preparate. Mentre vocale è la preghiera, lo dice la parola, detta a voce, ancora una volta: sia che si dicano preghiere personali, inventate sul momento, dialogando con Dio, sia che si dicano preghiere già preparate.
Fatta questa distinzione, si capisce che la distinzione tra orazione mentale e vocale è minima. C’è poca differenza se uno pensa solo le parole o se le dice a voce.
La distinzione seria è quella tra preghiera formularia e dialogo con Dio. “Cantate al Signore un canto nuovo!”. Dio sa di cosa abbiamo bisogno e non vuole che sprechiamo parole, come dice Gesù nel Vangelo. Però vuole anche che di volta in volta gli presentiamo i bisogni, le ansie, le gioie, le domande, i ringraziamenti che si presentano a loro volta a noi di giorno in giorno. È vero, il Padre nostro riassume tutto, sia fatta la volontà di Dio anche sulla terra, possiamo avere il pane quotidiano, ci si possano perdonare i peccati, possiamo perdonare anche noi chi ci ha peccato contro, possiamo essere aiutati nella tentazione e possiamo essere liberati dal male. Sotto questo ombrello è racchiuso tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno. L’ha insegnato Cristo. E lui era uno che si ritirava spesso in disparte, magari su qualche altura, per stare giorni e notti in preghiera, e “nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime” (Eb 5, 7). 

L’anima cambia di giorno in giorno, e così come parlare con un amico può essere uno sfogo che libera da un peso, allo stesso modo parlare con Dio delle necessità così come si presentano quotidianamente è un modo per fare un lavoro chirurgico nell’anima e nella vita. Non sappiamo quali sono le preghiere che Dio ascolterà, ma intanto presentiamogliele. L’esaudimento e il non esaudimento sono il modo migliore per capire se una preghiera andava fatta o no. Perché Dio esaudisce solo ciò che ritiene un bene, non solo per la persona che chiede, ma nell’economia dell’universo intero.

È vero che esaudisce anche sotto insistenza, come dice il passo del Vangelo di Luca.

Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: «C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi». E il Signore soggiunse: «Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente.

Perciò, come si dice in Platone (Alcibiade II), è bene stare attenti a ciò che si chiede.