Balda

A Civitanova Marche c’è un santuario che si chiama Santa Maria Apparente. Civitanova è sul mare, Santa Maria Apparente è campagna, entroterra. Un tempo era paese a sé, oggi è periferia di Civitanova. È un quartiere, però, che prende nome dal santuario e si identifica con la parrocchia. Le altre parrocchie di Civitanova sono San Marone, San Pietro, Cristo Re, San Carlo Borromeo, San Giuseppe Operaio e Santa Maria Ausiliatrice. Sembrano tante, ma Civitanova conta 42.000 abitanti. Sono tutte vicine al mare tranne Santa Maria Apparente. Santa Maria Apparente è talmente addentro la campagna che non sembra nemmeno di essere in un posto di mare. Eppure anche a Santa Maria Apparente c’è qualche B&B, per i turisti che scelgono Civitanova. Una mia nemica, per così dire, fu una parrocchiana attiva in parrocchia che da circa un anno aveva investito in un albergo-ristorante appena rimodernato situato poco oltre il santuario. Anche il santuario era stato ristrutturato di recente, era stato inoltre creato un appartamento moderno alle sue spalle, sopra la sacrestia. L’intenzione era posizionare qualcuno a vivere nel santuario che facesse da guida turistica. Dietro la sacrestia era stato creato un negozio che conteneva ogni sorta di oggetto religioso con l’effige della statua della Madonna che si trova nel santuario, rappresentante Vico Salimbene, il giovane che l’ha vista apparire il 5 giugno 1411, inginocchiato accanto a lei. Rosari, coroncine, immagini, soprammobili, poster, boccette d’acqua a forma di Madonna... Accanto al santuario c’è un pozzo, a cui è collegata una fontana. Il luogo da cui scaturisce l’acqua, secondo la leggenda, è stato indicato a Vico Salimbene da Maria durante l’apparizione. L’acqua è considerata miracolosa. Sono amico di una donna, Libosa, che dopo sette anni di epatite è guarita miracolosamente, tanto che il medico non è riuscito a spiegarlo, grazie a due mesi di cure con l’acqua di Santa Maria Apparente. Libosa va a riempire bottiglie e taniche ogni sabato. La beve, ci cucina e ci si lava. Quando ero a Santa Maria Apparente ero novizio, obbedivo in tutto al mio superiore. Il mio superiore, nonché maestro dei novizi, era stato fatto vice-parroco e sarebbe stato ordinato sacerdote un paio d’anni dopo, a 30 anni. A 31 è diventato parroco della parrocchia di Santa Lucia a Fermo. Per dire il talento che ha. Ha cinque anni meno di me, eppure era mio maestro quando ero novizio. Andava d’accordo con la mia nemica, la parrocchiana che voleva, piamente, riaccendere l’interesse turistico per il santuario, la cui acqua considerava realmente miracolosa, come tutti, d’altronde, in parrocchia, e la cui presenza di Maria considerava certa, come tutti, d’altronde, in parrocchia, compreso me. La parrocchiana aveva però qualche interesse economico, l’albergo-ristorante nei pressi del santuario che da poco aveva rilevato assieme al marito e ad alcuni soci e che contava sarebbe stato alloggio per pellegrini accorsi a frotte su pullman. Per questo ci teneva che noi frati, messi lì, secondo lei, apposta, fossimo sempre presenti per accogliere, imparassimo a memoria la storia dell’apparizione e facessimo pubblicità. Noi però avevamo altre priorità, tra cui il seminario. Nessuno mi ha mai dato l’obbedienza di imparare a memoria la storia del santuario e di restare a fare accoglienza a chi capitava. La mia nemica però non se l’è presa coi superiori, ma unicamente con me. Ero l’unico considerato nullafacente, inutile fardello. Colpa mia se i superiori hanno deciso di stabilire il noviziato a Santa Maria Apparente? Il parroco abitava in canonica, accanto alla chiesa parrocchiale, finita di costruire nel 2010 a un chilometro dal santuario. Il santuario era troppo piccolo e troppo lontano dal centro del quartiere. La chiesa nuova è moderna, capace, così dicono, di accogliere fino a 1000 persone. Nella mia vita da frate, in tutte le parrocchie in cui sono stato, non sono mai stato popolare. Avevo magari il gruppo di affezionati, che credevano in me, nella purezza della mia vocazione, mi chiedevano consigli spirituali, mi sostenevano e pregavano per me. Ma per lo più non sono mai stato ben visto. Sono sempre stato messo in ombra dai miei confratelli, talentuosi, indefessi lavoratori e più puri come storia di vita. Dopotutto ero un convertito, uno che aveva un passato, mentre loro erano tutti vergini che avevano avuto la vocazione da giovani, puri che avevano conservato la purezza fin nella vita religiosa. Non potevo competere con loro. Una persona che mi voleva bene era Balda, la vicina di casa. Da un lato c’era una donna abnegata che per più di dieci anni ha curato il marito operato al cervello e ridotto quasi a vegetale. Dall’altro Balda, una vecchia che per tutta la vita ha coltivato la terra. “Sono sempre stata cencia”, mi diceva spesso. Era piccola ma fortissima. Alle cinque del mattino la vedevo, dalla finestra della mia camera sopra la sacrestia del santuario, uscire nel suo terreno a lavorare. Vangava, bruciava, coltivava. Quando il marito era vivo, facevano gli ortolani. Coltivavano il vasto pezzo di terra alle spalle della casa, poi il marito partiva con l’Apecar e andava al mercato di Fermo coi prodotti. Balda non ha mai smesso di coltivare. Ogni settimana ci faceva trovare, appeso alla maniglia della porta dell’appartamento, a cui si accede tramite una scala posteriore, un sacchetto con ogni ben della terra, insalata, pomodori, zucchine, cavoli, cavolfiori, peperoni, melanzane, quando era stagione fave, poi frutta... Insomma ci voleva bene. Diceva che eravamo degli angeli che di colpo erano arrivati al santuario. Balda aveva perso una figlia a causa di un male incurabile. Diceva che era: “la meglio figlia di Santa Maria Apparente”. Era bella, intelligente, artistica. Lavorava ceramiche e faceva vestiti. Balda mi invitava ad andare nell’orto a vedere come si coltivava. In mezzo alla campagna mi confessava che dopo la morte della figlia aveva pensato spesso di suicidarsi, lo diceva con una sorta di spavento, come se facesse sacrilegio. Però serviva a farmi capire quanto aveva sofferto, quanto la perdita della figlia aveva sconvolto la sua idea di vita e quanto era caduta in depressione. Veniva a messa la domenica sera, sempre vestita di nero, di nero andava anche quando doveva recarsi in città. Ma usciva raramente, il suo posto era la campagna, vestita di abiti trasandati, colorati, indossati perfettamente, usati centomila volte. La domenica mattina c’erano le messe nella chiesa parrocchiale, la sera al santuario. Era parecchio frequentata anche la messa al santuario. A volte ho cantato come un angelo, dirigendo i canti dal microfono. Vedevo le facce stupite della gente. Al santuario facevamo anche matrimoni. Il santuario era gettonato. Accorrevano da tutta Civitanova e da fuori. In qualità di manovale della comunità ero quello che doveva preparare la chiesa. Pulivo chiesa e sagrato (aghi di pino), poi arrivavano i fioristi, poi accoglievo il sacerdote, poi mi mettevo a girare tra gli ospiti, salutando qua e là, pregando mentalmente per la venuta dello Spirito Santo. L’obbiettivo era che il sacerdote parlasse davvero la Parola di Dio. Poteva succedere solo se era posseduto dallo Spirito Santo. “Ogni sapienza viene dal Signore / ed è sempre con lui” (Sir 1, 1). Pregavo così ad ogni messa. Lo faccio ancora. “Signore, ti prego, parlaci attraverso questo predicatore. Fa’ che durante l’omelia possiamo ascoltare non solo una parola umana, ma la tua Parola”. È sempre stata mia opinione che Dio, quando parla attraverso un sacerdote durante l’omelia, lo fa miratamente. Magari non tutta l’omelia è perfusa di Spirito Santo, e magari non per tutti, ma a Dio basta una parola per colpire la persona. A ciascuno la sua. È la parola che ti fa mettere a piangere, che ti fa capire che stai sbagliando in un dato comportamento, che ti converte, che aumenta la tua fede. Dio è preciso. Volevo vedere l’intera assemblea in lacrime durante il matrimonio. Volevo vedere gli intervenuti a messa solo per il matrimonio, e che per il resto non andavano mai, essere toccati da qualcosa. Spesso capitava che l’intera assemblea si sciogliesse in lacrime e anch’io piangevo. Ho sempre pianto, come quando guardo su Youtube i video con i wedding proposal flash mob, dove un gruppo di ballerini inizia a ballare in mezzo a una piazza in cui la fidanzata è stata invitata senza sapere niente, poi si mette a ballare anche il fidanzato, sulle note di Marry you dei Bruno Mars, e alla fine lui le dà l’anello. Alla fine del matrimonio arrivava Balda con la scopa, e insieme ci mettevamo a rammucchiare, come diceva lei, riso e coriandoli. Li mettevamo in un secchio, lei poi usava il riso per le sue galline. Il parroco cercava di vietare i coriandoli, ma ormai negli ultimi matrimoni tutti li usavano. Il fatto è che poi, a causa del vento, andavano sparsi dappertutto, toccava inseguirli per tutto il sagrato, fino alle spalle del santuario. Il parroco era anziano e in ogni caso non si sarebbe mai messo a spazzare coriandoli, c’era sempre qualche pia donna della parrocchia per queste cose. Per quanto riguarda il santuario, in aiuto a Balda c’eravamo noi giovani frati. Libosa e il suo gruppo di preghiera andavano al santuario ogni sabato alle 15,00 per pregare un rosario più coroncina allo Spirito Santo. Libosa diceva che erano state le loro preghiere a far arrivare i frati. Chiedevano a me di fare le meditazioni sui misteri del rosario. Mi preparavo tutta la mattina, scrivendo e mandando a memoria paragrafetti di tre minuti. Ero affezionato al gruppo di Libosa, e loro a me. Sento altre persone della parrocchia tutt’oggi, ma loro no. Forse perché il mio abbandono è stato troppo doloroso per entrambe le parti. Sono sempre stato convinto, basandomi sul primo verso del libro del Siracide, che la sapienza divina sia come il cono di luce sul palco. È sempre lì, fisso, immobile. Tutto ciò che spetta a noi è entrare in esso – ed è anche la parte più difficile, perché si ottiene solo con la santità della vita – poi, una volta lì, non facciamo altro che riflettere la luce con il nostro stesso corpo. Tutto il lavoro è entrare nel cono, poi, una volta lì, non resta da fare altro.




Tutto il mondo è paese

Mentre mi godo il regalo di Gesù di due giorni di malattia per un forte raffreddore, maldigola, tosse, malditesta, febbre anche a più di 38°C, che mi hanno fatto saltare gli ultimi due giorni di picco, dopo che stavo quasi per impazzire a fare la città (zona Ospedale) in 9 ore al giorno senza pause, ricordo una via di Botticino, non ricordo il nome, forse via Cavour, o via Marconi. Ha una ciclabile, e in più, al di là della ciclabile, uno spartitraffico laterale che la separa da un altro spazio carreggiabile che serve ad accedere a un gruppo di condomini. I condomini sono isolati, lontani dalla strada e immersi nel verde, tanto che appunto hanno una carreggiata indipendente, affiancata all’arteria normale, per recarvicisi. Parte della carreggiata indipendente serve anche da parcheggio auto, ma non tutta, perché appunto serve usare quella parte di carreggiata, separata con uno spartitraffico dall’arteria principale, per recarsi ai condomini.

I paesi hanno i nomi delle vie tutti uguali, via Palestro, via Salvo d’Acquisto, via Roma, via Martiri della libertà, ecc. In genere sai che quando trovi questi nomi sei al centro del paese, perché sono vie nominate tanto tempo fa. Le zone nuove sono nominate via 11 settembre 2001, via Giovanni Paolo II, via Sandra Mondaini, via Raimondo Vianello, via Giacinto Facchetti, via Caduti del lavoro, via Donatori di sangue… O le zone industriali, via Industriale, via Artigianale, via Gianni Agnelli (sic). Come corriere so che quando trovo questi nomi, trovo anche una bella zona residenziale, con strade larghe, parcheggi, moderne villette a schiera, ecc. In queste zone è facile consegnare. Non c’è traffico e arrivi col furgone esattamente davanti alla porta del cliente. Le zone centrali dei paesi, invece, via Zanardelli, via Aldo Moro, via Mazzini, via delle Rimembranze, ecc. sono più scomode perché monocorsia, con divieti di sosta estesi, ciottolati, vicoletti da cui bisogna uscire in retro. Per non parlare delle famigerate via Castello e via Chiesa, ovunque scomodissime. Tocca di solito lasciare il furgone lontano e farsi la strada a piedi, portando uno o più pacchi.

Mi cambiano continuamente zona. Praticamente ho fatto tutta la provincia di Brescia (lato est), dalla città alla campagna (la Bassa), al lago di Garda alle montagne (lago d’Idro, Ponte Caffaro, Val Trompia, Val Sabbia e paesini limitrofi). Non c’è rotta che non riesca a chiudere. Quando c’è da fare la città, la danno a me, un po’ perché la conosco, un po’ perché sanno che la porto a termine senza aiuti.
Il fatto che uno sia capace di fare qualsiasi zona, senza bisogno di impararne a memoria una e fare sempre quella è un buon segno, visto positivamente. Di fatto, sei quello sfruttato più malamente, perché ci sono quelli che usano sempre lo stesso furgone e fanno sempre la stessa zona. Costoro fanno la cosiddetta bella vita, mentre gli altri sono trattati da puttane della strada, costretti ad adattarsi a qualsiasi zona anche se non l’hanno mai vista prima, a trovare indirizzi al buio e nella nebbia, ecc.

Un conto è camminare, un conto è camminare portando un peso. Anche Gesù è salito sul Golgotha portando la Croce. È mia convinzione, dopo anni di esperienze e riflessioni, che sia sbagliato diffondere un’idea di Dio come di qualcuno che vuole la nostra felicità su questa terra.

In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. (Mc 10, 29-30)

Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti. (Lc 14, 13-14)

Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. (Mt 6, 1)

Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. (Lc 12, 33)

Se abbiamo già la felicità su questa terra, abbiamo già ricevuto la ricompensa. Uno può anche chiederla, e può anche riceverla – a Dio nulla è impossibile – ma più riceviamo nell’aldiquà, meno riceveremo nell’aldilà.
La vita del vero cristiano è tribolazione, obbrobrio, scandalo e stoltezza, cioè croce. Se Dio vuole farti un vero regalo, ti dà la croce. Come ha fatto col suo figlio unigenito, l’amato, colui nel quale si è compiaciuto.
Lo dice uno che si lamenta quando è sulla croce, perché è un debole, e che si dimena come un pesce fuori dall’acqua, o come un uomo in acqua che annega: rallegriamoci nelle sofferenze, perché la sofferenza è la strada per il Paradiso.
L’unico esempio che mi viene in mente è questo. Padre Elia Maria Bruson, con-fondatore dei Fratelli Francescani Missionari del Cuore di Gesù e di Maria Immacolata (la comunità di cui ho fatto parte), era un frate francescano conventuale, morto nel 2002 per un tumore alle ossa. Ha rifiutato la morfina. I testimoni dicono che negli ultimi minuti, poco prima di spirare, dopo aver attraversato dure sofferenze, aveva sul volto un sorriso e negli occhi una luce di gioia che si potrebbe chiamare solo beatitudine.

Vivere di carità

Siccome non ho qualità, non suscito ammirazione. Si ammira ciò che è ammirabile, si ama ciò che è amabile.

Non ho queste cose. Intendo le amabili. Almeno, ne ho poche. Al momento non me ne viene in mente neanche una.
Siccome non ho nessuna cosa amabile, sono costretto a vivere di compassione.

La compassione è una forma di carità. La compassione a molti dà fastidio, come, appunto, la carità.

Ricevere carità significa che si è in basso. Nella fattispecie, se ricevo carità da qualcuno significa che quel qualcuno è più in alto.
L’esempio più banale… se ricevo un euro di elemosina significa che il qualcuno che lo dà è in partenza più in alto di me, avendo l’euro, mentre io sono più in basso, non avendolo.

Quante volte mi è capitato di ricevere negazioni anche solo mentre provavo a dire una parola buona a qualcuno che aveva subito un fatto brutto. Ad esempio un collega rientrato dal lavoro che aveva fatto un danno al furgone, o un incidente. Ho un collega che ha addirittura fatto un grosso incidente, restando ferito ed essendo stato portato in ospedale con l’elisoccorso, ed è rimasto a casa più di un mese, che da quando è tornato a momenti non parla con nessuno per non dover ricevere atti di compassione. Se si parla con lui, non si sfiora nemmeno l’argomento.

La carità non viene accolta. Eppure quanto è bello ricevere carità. La carità è il modo di agire principale di Dio. Carità significa dare. Ammettere carità significa ammettere di ricevere significa ammettere di non avere.

Ho imparato a vivere di carità. Se si è peccatori, poveri, deboli, vivere di carità significa anche vivere di misericordia.
Una persona può darci fastidio per i suoi difetti. Con essa, per superare il fastidio per i suoi difetti, possiamo usare misericordia.

Nel famoso episodio del lebbroso San Francesco dice che all’inizio aveva ripugnanza ad avvicinarsi al lebbroso. Poi però “usò misericordia” e imparò ad avvicinarsi.

Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo. (Testamento, 110)

Non è colpa del lebbroso essere lebbroso, però spesso viviamo i difetti degli altri come qualcosa che ci dà fastidio, come l’avessero fatto apposta. È per questo che usare misericordia può essere un trucco per superare il fastidio. Perdonare un difetto, anche se non è una colpa.

Il mio confratello fa sempre il rumore di schiarirsi la gola mentre tira su col naso mentre preghiamo insieme… uso misericordia, lo perdono. Perdonare significa subire, tenersi il torto subito. Poi però ci si sente liberi, vengono eliminati rancore e risentimento. Ecco perché il giogo di Gesù è soave (Mt 11, 30). Farsi fare le cose, anche se sembra che gli altri ne approfittino. Lasciarsi fare le cose e lasciar correre… vera libertà. Si è in pace con gli altri e con se stessi. Si è liberi da sentimenti cattivi, odio e giudizio.

Oggi, solennità dell’Immacolata Concezione, è il compleanno di Alipietto, finisce 10 anni. Gli ho comprato La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl. Mi aveva chiesto una lavatrice in miniatura, ma pensavo di non essere in grado di trovarla. (Proprio ora, mentre scrivo, sono andato su internet e ho scoperto che su Amazon ne vendono una di 18 cm di altezza, prezzo 44 euro, l’ho comprata, gliela darò a Santa Lucia o Natale).

Non so se Alipio, nonno di Alipietto, sarà felice che gli darò la lavatrice in miniatura. Già ritiene sbagliato che Alipietto abbia la fissazione per le lavatrici.
Inoltre potrebbe considerarlo uno spreco di soldi. Alipio, da giovane, voleva entrare nella vita religiosa. Ha fatto esperienze alla Certosa di Farneta (LU), coi comboniani ed è persino stato in Francia, coi Piccoli Fratelli di Gesù fondati da Charles de Foucauld. Dopo un po’ che stava via subentrava in lui una sorta di tristezza, così gli è stato consigliato di tornare a casa e farsi una famiglia. Così ha fatto. Ha avuto sei figli. Il primo è il padre di Alipietto. Alipio ha lavorato tutta la vita come insegnante di Italiano alle medie. Quando è andato in pensione si è messo a fare le pulizie di tre condomini con un paio di pakistani. Oggi, che ha 78 anni, va in bicicletta come un missile.
Ammiro Alipio come poche altre persone e penso sia un santo.

Dopo le esperienze nella vita religiosa e dopo essere tornato a casa, aveva un gran desiderio di vivere una vita di carità. Voleva aiutare gli stranieri che arrivavano in Italia. Ha parlato di questo desiderio a un vescovo e ha ricevuto la benedizione: “Fa’ come ti ispira il cuore”.

Da qui nasce il dilemma di come vive Alipio, specialmente nei riguardi della propria famiglia. Ha fatto talmente tante opere di carità – e continua a farle, coi soldi della pensione – che tiene la famiglia in uno stato di indigenza. In casa con sé ha ancora tre figli. Due sono invalidi civili (psichiatrici) e godono di una piccola pensione di invalidità. Il terzo faceva il camionista ma non lavora da quattro anni.

Al di là dei figli invalidi… verso i quali diciamo la responsabilità è ridotta, ma verso la moglie? Il suo caso mi fa venire in mente quello di Lev Nikolaevič Tolstoj. Ricordo di aver letto il diario della moglie Sofja. Tolstoj da vecchio voleva donare, non ricordo a chi, forse allo stato, i diritti d’autore ricavati dalle sue opere. La moglie Sofja voleva opporsi, perché già erano poveri, e in più c’erano i figli da mantenere dopo la morte dello scrittore. Era contraria a queste forme di carità esagerata.

La moglie di Alipio una volta mi ha preso da parte e mi ha chiesto di parlare con Alipio per convincerlo a smettere di dare soldi a stranieri, in particolare a un rom che secondo lei approfitta.
La moglie di Alipio è anziana e non cammina, è mezza cieca per via delle cataratte, ha bisogno di cure ma deve sempre aspettare mesi perché non hanno abbastanza soldi per fare le visite a pagamento.

La vita di Alipio per me è un dilemma. Capisco la volontà di vivere di carità, nel senso di farla. Capisco la volontà di santificarsi dando. Però credo anche che, se ti sei fatto una famiglia, abbia responsabilità anche verso essa. Anzi, hai responsabilità innanzitutto verso la famiglia, già ciò che fai per loro è una forma di carità, perché è un dare senza contraccambio. Poi, se vuoi, se avanza qualcosa, puoi dare anche ad altri. Ma tenere la famiglia in stato di indigenza per dare ad altri, non lo trovo giusto, ed è un dilemma. La vita di Alipio per me è un dilemma, come lo è quella di Tolstoj.
E sì che ammiro Alipio come poche altre persone e penso sia un santo.