Frate mosca

Vi era inoltre in un luogo un certo frate che non si prestava per la questua, ma valeva per quattro a tavola. Notando il santo che era amico del ventre, partecipe del frutto ma non della fatica, un giorno lo riprese così: “Va per la tua strada, frate mosca, perché tu vuoi mangiare il sudore dei tuoi fratelli e rimanere ozioso nell’opera di Dio. Tu rassomigli a frate fuco, che lascia lavorare le api, ma vuole essere il primo a mangiare il miele”. (Fonti Francescane, 663)

And oftentimes, to win us to our harm,
the instruments of darkness tell us truths.

(Macbeth


21 febbraio, memoria di San Pier Damiani, dottore della Chiesa. Ieri, ben tre volte sono passato davanti al cartello: “Via Disciplina”, che poi la scritta: “Via” è talmente piccola che si legge praticamente solo: “Disciplina”. Ieri sera, primi vespri di San Pier Damiani, ho visto un video di Scrubs che parlava della pigrizia a studiare da parte di un apprendista, alla fine il dottor Cox lo licenzia. È stata una doccia fredda al pensiero che il video riguardasse me e fosse diretto dall’Immacolata a me. Più che dall’Immacolata, in questo caso da San Pier Damiani, dottore della Chiesa.

Da quando sono uscito dalla vita religiosa ho sempre pensato non fosse più un dovere impostomi da Dio occuparmi dello studio. Ho sempre detto: “Se ha voluto che facessi il corriere, vorrà che mi dedichi pienamente all’attività di corriere”. Ho scoperto presto che nei ritagli di tempo è ben poco ciò che riesco a fare. Ma poi c’è anche Sara che sprona. Non è certo un caso che sia lettore del suo blog.

È anche una sorta di ripicca contro Dio. Da quando sono divenuto frate ho sempre fatto fatica a studiare, i cosiddetti impegni pastorali mi hanno impedito di studiare decentemente. Dovevo svegliarmi alle cinque in segreto – in altre parole contro il volere dei superiori – o sottraevo tempo alla vita pastorale. Restavo in camera con Aristotele rimandando all’ultimo il tempo della preghiera e la preparazione per la messa.
Quando dovevo dare gli esami in seminario la questione non era diversa. Non mi era lasciato molto tempo per studiare. Il risultato era che accattavo 28, 25, 23 e simili. Davvero voleva l’Immacolata che mi laureassi con tali voti? Facevo una fatica immensa. Non avevo tempo. Avrei dovuto avere la piena libertà dello studente. Inoltre avevo 35 anni. Sentivo appieno il peso dell’età. Avevo sempre fatto fatica a studiare all’università, quegli esami odiati, già mal sopportati all’ascolto, da studiare per obbligo... Cosa ne traeva l’Immacolata da una cosa così mal fatta? Me lo sono sempre chiesto... Sarei diventato un prete mediocre, come mediocre ero in parrocchia già.

Allora ho detto: “Dio, da un lato vuoi che studi, dall’altro non me ne dai agio. Come devo fare, scrivere fino a mezzanotte come San Massimiliano? Poi chi le fa 160 fermate il giorno dopo?”.

Per uno come me ci sarebbe stato bisogno di una libertà assoluta per dedicarsi agli studi. L’università, perlomeno come è concepita oggi, è disprezzabile. Una volta c’era più libertà, più tempo per studiare.

I miei confratelli, i superiori, non me lo permettevano. Erano loro che pagavano. Non permettevano che mi dedicassi interamente agli studi. Volevano facessi qualcosa per la comunità, lavorassi in parrocchia. Dovevo fare volontariato ospedaliero, cosa che dopo una mattina di seminario era pesante... Ogni venerdì sera a dire il rosario a casa dell’amico, occuparsi del giardino, l’oratorio, il catechismo (improvvisato). Quando avrei dovuto studiare?

La verità è che i miei compiti non sono mai stati chiari e non sono mai stati discussi da nessuno. Questo è stato un errore nei miei confronti. Qualcuno doveva prendere una mezz’oretta, sedersi davanti a me e dire: “Tu in parrocchia hai questo, questo e quell’altro da fare. Non ti azzardare a fare altro”. Con tale chiarezza avrei potuto dedicarmi pacificamente agli studi. Invece il mio superiore era un sostenitore dell’iniziativa personale: “Fa’ ciò che vuoi”. Sottinteso: “Fa vedere che sei volenteroso, uno che si propone per fare questo e quello”. Facile, per lui, che il seminario l’aveva finito. Ormai lo scopo della sua preparazione era tutti i giorni sotto i suoi occhi: operare in parrocchia. Io invece fui costretto a operare in parrocchia senza compiti precisi, abbandonato al giudizio costante sul mio spirito di iniziativa. Il giudizio veniva sia dai superiori sia dai parrocchiani.

Durante un viaggio a San Giovanni Rotondo, da solo, per meditare sulla mia vocazione (due settimane prima di abbandonare) a tavola coi Frati Minori che mi avevano invitato, appresi che c’era un loro giovane frate che si lamentava dei miei stessi problemi: “Come faccio a prepararmi agli esami se devo fare il campo scuola coi ragazzi, se devo andare in missione popolare nel tale paese?”. L’Immacolata, mettendomi di fronte questa vicenda umana, mi faceva capire che i problemi che credevo di avere in quanto parte di una comunità appena fondata e quindi priva di organizzazione erano gli stessi di una comunità inveterata. Chissà se quel giovane frate ha tenuto duro nei Frati Minori...

L’Immacolata vuole che uno sviluppi mille talenti. Devi fare questo e quello e quello e quello. Io non ci riuscivo, era un peso troppo grande. Soprattutto non volevo farlo. Volevo esser libero di dedicarmi totalmente agli studi. Eppure se tale libertà l’avessi avuta mi sarei sentito in colpa, perché avevo lasciato tutto per andare a vivere alle spalle di quattro frati. Non ero capace di fare l’elemosina. Elemosina per noi significava andare in un supermercato a chiedere se davano roba in scadenza. Facevamo spesa così, qualcosa anche pagando. Telefonavamo prima, dicevamo: “Possiamo venire?” e loro dicevano: “Certo!”. Ma, appunto, faceva il mio superiore, io non ero capace di fare quella telefonata o di presentarmi al supermercato con le borse e dire: “Salve!”. Allora mi dicevo: “Che francescano sono?”.

I superiori e i confratelli avevano ragione a non volermi lasciare libertà di studiare. Chi è questo frate mosca che pretende di venire qua e non far niente per guadagnarsi la vita, nemmeno l’elemosina, solo di appoggiarsi a noi che sgobbiamo, per mettersi a studiare? Eppure, se dovevo diventare sacerdote, dovevo studiare, su questo non ci piove. Verso la fine abbandonai l’idea di divenire sacerdote.

Come me lo facevano pesare. Loro, che avevano avuto tutto. I primi due un appartamento a Roma, mantenuti dagli sforzi di uno sparuto gruppo di suore che svolgeva il più disparato numero di servizi. Non dovevano far altro che studiare. Hanno addirittura avuto la grazia di essere ordinati da San Giovanni Paolo II. Al tempo in cui arrivai io mantenevano coi loro due stipendi di sacerdote tre ragazzi. Fin quando non sono stati ordinati loro, io, da quando sono arrivato, sono stato a loro servizio. Nei primi anni in cui ho fatto parte della comunità dovevo servire i tre che ancora dovevano finire di studiare per divenire sacerdoti. Poi sarebbe toccato a me essere servito e riverito fino a quando, terminati gli studi, non sarei stato pronto anch’io a lavorare pienamente in parrocchia.

Ho sempre avuto l’impressione che mi fosse toccato un trattamento diverso dagli altri. Quando sono andato via ormai i tre erano sacerdoti. Totale: cinque stipendi da sacerdote, più un sesto arrivato poi. Non ci sarebbe più stato il minimo problema economico per mantenere un nuovo aspirante sacerdote. Ma è proprio allora, quando è toccata a me, che a tutti è venuto il braccino. Forse non mi davo da fare abbastanza, la refrattarietà alla vita di parrocchia la notavano tutti. Proprio non avevo voglia, la mia vocazione era stata sin da sempre monastica. Ora et labora. Non ora et stat in parochia.

Ma se l’Immacolata mi aveva chiamato a questo, dovevo sforzarmi e provare.

Una mia spiegazione al cambiamento di Macbeth

Nel saggio in fondo all’edizione Mondadori 1983 Yves Bonnefoy dice, anzitutto: “Quanto a Macbeth, egli ci appare come il colpevole assoluto”.
Penso di poter intuire che, andando avanti nella lettura, Macbeth diverrà sempre più ambizioso e spietato, tanto da lasciare l’impressione, in chi arriva in fondo e può dire di aver letto l’opera intera, che il personaggio cattivo sia lui. È la reputazione con cui Macbeth passa alla storia. Ma io, che ho letto solo fino all’omicidio di Duncan (Atto II, scena 2) e ho chiaro in mente il ruolo di Lady Macbeth nel convincere il marito a compiere qualcosa che lui ha solo insinuato con trepidazione, rispondo a Bonnefoy e a chi attribuisce tutta la colpa a Macbeth che la vera malvagia è lei. È lei a non avere il minimo rimorso e a sobillare Macbeth intenzionalmente prima all’omicidio e in seguito, quando lui, dopo l’omicidio, ancora vacilla, alla risolutezza e alla fermezza; è lei a dire, dopo aver letto la lettera mandata da Macbeth: 

Hie thee hither
that I may pour my spirits in thine ear,
and chastise with the valour of my toungue
all that impedes thee from the golden round
which fate and metaphysical aid doth seem
to have thee crowned withal.

Corri qui presto, così ch’io possa riempire coi miei spiriti il tuo orecchio e castigare col valore della mia lingua tutto ciò che ti trattiene dal cerchio d’oro di cui il fato e l’aiuto metafisico sembrano già averti coronato.

Ci sono, quindi, un personaggio tridimensionale, poiché ha rimorsi: Macbeth; e un personaggio piatto, che secondo me non esiste in natura: la totalmente malvagia e divorata dall’ambizione Lady Macbeth.

Più avanti, Bonnefoy dice: “Macbeth, che soccombe con tanta facilità, e che tanto in fretta diventerà una figura così nera, non può essere stato, prima che l’azione abbia inizio, un vero giusto e un’anima pura”. Questa frase è ciò che mi ha spinto a scrivere il post. Anch’io trovo che l’inizio di Macbeth sia problematico e che il passaggio dalla rettitudine al servire l’ambizione in modo così sanguinario sia più che altro artificio letterario, qualcosa che non può verificarsi in realtà; non è un caso che si usa una sorta di deus ex machina: le streghe; mi sembra un espediente esterno e non realistico per produrre il cambiamento in Macbeth.

Il fatto che le serie ultimamente siano piene di archi negativi (vedi Breaking bad e Better call Saul) non significa che il mondo ne sia pieno. Significa solo che sono storie, non so perché, che attirano pubblico. A questo punto torno, anche di malavoglia, al russo Dostoevskij che in Delitto e castigo, dipingendo un personaggio carico di rimorsi dopo un delitto, fa opera realistica. Anche Woody Allen in Cassandra’s Dream esce dal realistico, secondo me, ponendo uno accanto all’altro due fratelli: uno colto da rimorsi e uno no. Secondo me non esistono personaggi totalmente privi di coscienza poiché penso che Dio la metta in ogni uomo. Se uno fa il male è solo perché crede che ciò che fa sia in qualche modo buono. Vedi Putin, che giustifica le proprie malefatte chiamando la guerra: “santa” e valendosi dell’appoggio della Chiesa Ortodossa.

Infatti, capirei benissimo, perché anch’io sono un po’ così, se Macbeth fosse psicotico, uno che legge i segni e ascolta indicazioni provenienti dall’esterno sulla propria predestinazione. Se uno si convince che il fato – o in qualsiasi altro modo vuoi chiamare Dio – abbia deciso che è predestinato a divenire re, farà qualsiasi cosa (lecita? È qui il problema... se i segni mi chiedono di commettere peccato, non vengono da Dio ma dall’avversario) per divenire re. Agire in seguito a segni esterni demoniaci è ciò che rende psicotici. Vedi anche la schizofrenia in A beautiful mind (anche se in A beautiful mind gran parte dei segni, tipo i tre personaggi che Nash vede regolarmente, sono vere e proprie allucinazioni dall’interno).

***

Se devo dare una mia spiegazione realistica – come faccio quando commento i personaggi inventati da Ariano Geta – direi che secondo me Macbeth potrebbe essere puro all’inizio (contrariamente a quanto dice Bonnefoy) e cambiare a causa dei numerosi omicidi che è costretto a compiere in battaglia. All’inizio buono, obbediente, leale, a servizio del re porta avanti la sua causa da suddito modello. Tuttavia uccidi qui, uccidi là, anche se la ragion di stato ossia la causa della guerra giustifica gli omicidi, a lungo andare l’anima si macchia, tanto da trasformare Macbeth da buono in cattivo.

È sempre la solita storia: più si fa una cosa, più la si farà. Le azioni che ripetiamo determinano il nostro progresso nella virtù o nel vizio. Più si compiono azioni buone, più si diventa virtuosi. Più si compiono azioni cattive, più si diventa viziosi.

Questa è la mia spiegazione, per ora. Attendo di giungere alla fine.