In birra veritas

Uno degli eventi più scioccanti della mia vita è stato quando mi sono picchiato con un cosiddetto amico.

Sono cresciuto da solo con la madre, perché i miei si sono separati quando avevo due anni. O meglio, più che separati cʼè da dire che è stata mia madre ad andarsene prendendo me.
Sono il frutto della seconda donna di mio padre. Si è sposato regolarmente negli anni ʼ60. Nel ʼ64 ha avuto un figlio (mio fratello) e nel ‘65 una figlia (mia sorella). Poi è successo qualcosa che nessuno mi ha mai raccontato. So solo che in quegli anni lui e sua moglie I. vivevano in Sardegna, a Palau, dove gestivano un piccolo ristorante-albergo. Lui era ricco e anticonformista. Poi si sono separati. A quanto pare è stata lei ad andarsene. Fatto sta che nella causa di divorzio, la prima (così dice mia madre) registrata negli archivi di Milano appena approvata la legge del ʼ74, i bambini sono stati affidati a mio padre. L'affidamento al padre è atipico, oggi è quasi automatico affidare alla madre, ma agli inizi il giudice vagliava caso per caso, e in quel caso I. è stata evidentemente giudicata indegna o incapace di mantenere i figli.

Mio padre torna a Milano. Siamo nella prima metà degli anni ʼ70. Assume una bambinaia, una giovane ventenne appena arrivata dal Friuli carica di belle speranze e voglia di fare. Questa ventenne friulana è mia madre. Presto diventano coppia e nellʼ80 nasco io. Mia madre è stata per una decina dʼanni la matrigna di mio fratello e mia sorella. Dato che mio padre aveva appena avuto un divorzio ed era già stato sposato in chiesa, non poteva risposarsi con mia madre. Almeno, avrebbe potuto farlo in Comune, ma non so perché abbiano deciso di non farlo. Per dissapori che non sto a spiegare (a quanto pare lui ha bruciato molti soldi in pochi anni e inoltre aveva una o più altre donne, ma di tutto questo non sono sicuro perché nessuno mi ha mai raccontato per bene cosa è successo), mia madre ha preso me, e se nʼè andata. Da quando ho circa due anni, dunque, vivo e cresco solo con la madre. (Ho sempre continuato a vedere, nei fine settimane e nelle estati, mio padre che si era trasferito in una cascina nellʼOltrepò Pavese, e in seguito ho conosciuto anche I., la quale, pentita, è tornata sui suoi passi e ha cercato di riallacciare i rapporti coi figli ormai più che ventenni e soprattutto ha fatto e fa una gran figura come supernonna sempre presente per i suoi nipoti, ossia i figli di mio fratello e mia sorella. Ma queste sono altre storie).

Alle medie avevo una amico, M., il primo della classe. Nonostante ci fossimo trasferiti nello stesso liceo, siamo finiti in classi diverse e durante la prima ci siamo persi di vista. Verso i 16 anni, ossia in seconda, ero solo e non avevo amici. Ero il tipo facile da bullizzare, perché tra medie e liceo ero tra i primi della classe. Ed ero un cocco di mamma. Verso i 16, perciò, senza nemmeno sapere il perché e il percome, ho iniziato a frequentare cattive compagnie a scuola. Quelli che fumavano nei bagni, per capirsi. A casa, mia madre non esercitava alcun tipo di controllo perché lavorava troppo e poi, da contadina arrivata in città che era e che è, non è mai stata il tipo che siede a un tavolo e chiede: “Cʼè qualcosa che non va? Hai bisogno di parlare?”. Da lì in poi la mia carriera scolastica è stata perenne declino. Non studiavo o studiavo poco. Alla maturità ho preso 71.
La cosa peggiore è che le compagnie che ho frequentato dai 16 ai 19 anni erano del tipo che bullizzavano anche chi era interno. Ho passato un liceo da inferno. Uscivo con una compagnia dove cʼerano ragazzi che costantemente mi prendevano in giro e mi bullizzavano, in particolare un certo V. e un certo A.

È finita a 19 anni. A luglio mi ero diplomato. Avevo deciso di andare allʼuniversità per il rotto della cuffia, Scienze della Comunicazione a Bologna dove sarei andato con lʼunico amico della compagnia con cui andavo dʼaccordo. Però lo ricordo come un periodo nero, fosco, la vita faceva paura. Ero uscito dalla scuola ed ero confuso, impaurito, rabbioso.
Una sera infrasettimanale, in una discoteca che si chiamava, se non sbaglio, UB, o UBI, in cui non ero mai stato perché nonostante tutto non ero il tipo discotecaro (mentre lo erano i miei aguzzini V. e A.), e questo era proprio il posto generalmente frequentato da coloro che ai tempi a Milano erano chiamati: “Tabbozzi” o “Tamarri”, ebbene in questa discoteca hanno la grande idea di fare la promozione: “10 euro, quanta birra vuoi”.

In vino veritas. Per tanti anni avevo sopportato. Non so quanti giri di birra avevo già fatto. Ero ubriaco fradicio. In coda, mi metto a spintonare V. Così, perché ne avevo voglia. Iniziamo a spintonarci e a tirarci qualche pugno, qualche schiaffo. I buttafuori ci portano fuori. A parte un flash del parcheggio, non ricordo niente. Ricordo solo che continuavo a incitare V., il tabbozzo e bullo per eccellenza, alla lotta e lo incalzavo. Il resto me lʼhanno raccontato. A. mi ha tenuto fermo e V. mi ha centrato con un pugno sulla bocca. Il labbro superiore si è tagliato contro un incisivo inferiore. Ho ancora la cicatrice. Sono caduto a terra come un sacco di patate e ho sbattutto lʼarcata sopracciliare destra sul bordo del marciapiede. Lʼaltra cosa che ricordo è che sono in macchina e guido verso casa, accanto a me e dietro gli unici amici che avevo nel gruppo, F. e A., che mi chiedono: “Ma ce la fai a guidare?”, e io: “Sì, sì, sì, non preoccupatevi!”. Guido come un pazzo e intanto mi guardo nello specchietto e il mio occhio destro è gonfio come quello di Rocky quando grida: “Adrianaaa!”. Lascio gli amici a casa (abitavano vicino a me), vado a casa mia, entro in bagno e vomito lʼanima. La mattina mi sveglio con nausea, mal di testa lancinante, labbro tagliato e occhio gonfio. Mia madre, poverina, si spaventa da morire e mi porta al pronto soccorso.

Il giorno stesso parto per la campagna, casa di mio padre. Lʼuniversità non è ancora iniziata. Resto lì, a leccarmi le ferite, come dice mia sorella, un paio di settimane. Poi mi trasferisco a Bologna, dove faccio tre anni di università prima di abbandonare. Ma questa è unʼaltra storia. Come quella di quando, dopo un anno di università, mi sono innamorato di una ex compagna di classe del liceo, E., che però studiava alla Bocconi a Milano e quindi ho iniziato a fare avanti indietro tra Bologna e Milano. Questo amore mi ha aiutato ad abbandonare le cattive compagnie. Ma poi è finito ed è stato un disastro per la mia vita, tanta sofferenza da portarmi a lasciare lʼuniversità. Tutte altre storie.

Sono contento però che a causa di in vino veritas ho avuto il coraggio di ribellarmi al mio aguzzino V., un individuo che oggi ha un bar ed è gran bestemmiatore, per quello che so, e di mettere i puntini sulle i a proposito di quello che pensavo di lui. È triste, però, pensare che probabilmente ancora oggi non vivo a Milano, la mia città, a causa di V. e di A. Ogni tanto prego per loro. A parte questo, non ho mai partecipato a una rissa né ho fatto a botte con qualcuno.

4 commenti:

  1. Se decidessi di scrivere un romanzo basato sulla tua vita, ne avresti di cose da dire :-D
    Parlando seriamente - capisco che il problema di cui parli è serio, anch'io ho subito forme di bullismo ma più psicologico che fisico - penso che avere ancora addosso le "ferite" del passato può succedere a tanti, non sei l'unico credimi.
    Però posso anche dirti che io ho sempre vissuto nella stessa città in cui vivono anche le persone con cui non voglio più avere niente a che fare. Se mi capita di incontrarle le ignoro, semplicemente. Posso camminare a testa alta davanti a loro perché io non gli ho mai fatto nulla di male, quindi non devo pormi alcun interrogativo tipo "avrò avuto qualche responsabilità anche io?"... No, io non he avuta nessuna. Quindi cammino a testa alta come può fare chi sa di essere dalla parte della ragione.

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    1. È probabile sia un caso più unico che raro. Ho sempre voluto andarmene da Milano. Credo avessi paura di restare a vivere con la mamma tutta la vita come un mio zio, poi lʼamore fallito che ha reso ogni angolo della città un luogo di sofferenza, poi il rapporto conflittuale col fratellone, lui stesso un mezzo bullo...

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  2. non capisco come fa la gente ad ubriacarsi bevendo birra, con tutto quel gas, quella schiuma che ti gonfiano la panza dopo un paio de bottigliette

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    1. Ne avevo bevuta assai! A 19 anni chi si rende conto di checcò!
      Mio padre era bevitore e non mi rimproverò, ma compatì e disse: “Quando ci si ubriaca di birra si sta male perché per ubriacarsi bisogna berne tanta, diversamente dai superalcolici”.

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