Io e la musica classica

Sto ascoltando il concerto per pianoforte e orchestra n. 17 di Mozart interpretato da Mitsuko Uchida. Vorrei familiarizzarmi perché il 9 febbraio c’è Mitsuko Uchida al Teatro Grande di Brescia. Suonerà i concerti per pianoforte e orchestra 17 e 22 più un pezzo di Jörg Widmann, mai sentito. Sono proprio due concerti per pianoforte e orchestra che non ho quasi mai ascoltato. Mi sono familiarizzato col 18, il 9, il 21 e il 24. C’è sempre una prima volta. Questa è l’occasione che aspettavo. Non è semplice familiarizzarsi con la musica classica, a parte coi pezzi più noti e orecchiabili. Nella maggior parte dei casi serve una decina di ascolti. Solo così si iniziano a trovare cose già ascoltate. Fino al decimo o giù di lì si fa fatica a capire e riconoscere. Vorrei ascoltare Mitsuko Uchida dal vivo. Credo che il fatto che viene a Brescia sia un dono di Dio dedicato a me. Ho visto il manifesto una mattina uscito di casa, di fronte era parcheggiata la mia auto. “Possibile?”, ho detto. “Proprio a Brescia? Cavolo ci viene a fare dame Mitsuko Uchida a Brescia?”. Viene con un certo José Maria Blumenschein, violinista e con la Mahler Chamber Ochestra. Quando ho letto: “Mahler” ho storto il naso. Thomas Bernhard mi ha insegnato a disprezzare Mahler, non ho mai ascoltato neanche una sua nota. D’altronde non suonano Mahler, suonano l’amato Mozart, “Mahler Chamber Orchestra” è solo il nome. Mi piacerebbe sapere cosa pensa dame Mitsuko Uchida di Mahler. Un suo giudizio potrebbe cambiare quello inculcatomi da Bernhard.

Oggi sono a casa dal lavoro. Ci stanno obbligando a usare ferie e permessi avanzati dall’anno scorso. Attendo le 10,30 circa, quando il responsabile è tranquillo. A quell’ora i furgoni sono partiti e i colleghi hanno iniziato a consegnare. Deve stare vicino al telefono e rispondere alle chiamate di chi ha problemi. Di fatto ormai non siamo più in periodo di picco, quando c’erano i ragazzini assunti apposta che chiamavano in ufficio mille volte al secondo, dal 24 dicembre sono stati lasciati a casa perché il contratto a tempo determinato è scaduto. Quelli che lavorano ora sono quasi tutti esperti che conoscono le zone. Ciò significa che il responsabile, una volta partiti, può allungare le gambe sotto il tavolo e accendersi una paglia. Non ha più nulla da fare. In teoria dovrebbe stare a guardare costantemente i pallini sul computer, ciascun pallino un furgone geolocalizzato che si muove sulla mappa. Ma non lo fa. Ne è prova il fatto che ogni sera, quando ho finito, mi scrive su Whatsapp per mandarmi a fare un salvataggio senza sapere che non ho ancora fatto la pausa. Io, la pausa, la mezz’ora che spetta, la faccio verso la fine. Il responsabile ha di nuovo da fare nel tardo pomeriggio, quando c’è da organizzare i salvataggi. Quando uno finisce presto va ad aiutare uno che non ha ancora finito. Si chiama: “Salvataggio”. Il responsabile, in pratica, non ha nulla di serio da fare fino alle 16,30 circa. È a quell’ora che si vede chi è vicino alla fine e chi è in difficoltà. Quando devo chiedere qualcosa chiamo verso le 10,30 così lo trovo poco occupato e disponibile ad ascoltare. Devo chiedere se mi fa usare un giorno di ferie o di permesso venerdì 9 febbraio così posso andare ad ascoltare Mitsuko Uchida.

Non so con chi andare. Una volta ricevuto l’eventuale okay chiamo una signora dell’Ordine Secolare dei Carmelitani Scalzi, il mio gruppo di preghiera, per chiedere se vuol venire. È in pensione e gira l’Italia per mostre. Ama soprattutto la pittura. Chissà se le piace la musica, in particolare quella di Mozart. Speriamo di sì! In ogni caso siamo ormai amici. Magari viene. Magari le pago io il biglietto, così la invoglio. Potrei anche andare da solo, ma non so se me la sentirei. Il mio amico frate di 76 anni, amante dell’opera, in primavera va a Genova a sentire tre opere. Da solo. Lui può. Io non so se ce la farei, ma è una possibilità che contemplo.

Finito il concerto per pianoforte e orchestra 17 di Mozart ho messo Le quattro stagioni di Vivaldi, Karajan e Mutter, 1984. Qualcosa di straordinario. L’ho ascoltato mentre scrivevo il post. A tratti dalla bellezza mi venivano le lacrime. Sono familiare con Le quattro stagioni perché mio padre aveva il cd. Andavo a casa sua nei fine settimana, abitava in collina, in provincia di Pavia, nella casa dove oggi vive mia sorella. Mio padre metteva anche le sinfonie 5 e 6 di Beethoven, la 9 di Dvořák (Dal nuovo mondo), i Carmina burana... Se qualcuno ha voglia di ascoltare la nonna di Beethoven, consiglio questa interpretazione della Olso Philarmonic Orchestra diretta da Klaus Mäkelä, eccezionale.

Corvione

Corvione è frazione di Gambara (BS). Si trova tra Gambara e Isorella. C’è una lunga strada in mezzo ai campi con a un certo punto un cimiterino sulla sinistra (sulla destra arrivando da Isorella), poi un arco antico sotto il quale si è costretti a passare. L’arco fa parte di una struttura più ampia che definirei un’enorme cascina poggiata sulla pianura. Quando dico enorme intendo che il muraglione è lungo mezzo chilometro.

Sulla rotonda all’ingresso di Gambara c’è un cartello con scritto: “Benvenuti nella terra dei Gambara”. Il paese ha preso il nome dalla famiglia o la famiglia ha preso il nome dalla terra? Perché, a volte, i cognomi hanno origini topografiche... Già Gambara è piccola, Corvione è in pratica un’enorme cascina con attorno i campi.

Corvione, oggi, è ghetto. Ci hanno messo gli uomini di colore. All’inizio pensavo facessero i braccianti a giornata e si erano trasferiti lì perché lì avevano trovato lavoro. Controllando su internet ho scoperto che nel marzo 2023 l’ex ristorante Corvione ha ospitato 30 profughi richiedenti asilo, tutti maggiorenni e provenienti dall’Africa. A Corvione abita anche qualche italiano che ordina pacchi. Le donne, non so come facciano ad abitare lì. D’estate, quando ho iniziato a fare quelle zone, sotto l’arco stavano seduti a far niente gli uomini di colore su sedie bianche in plastica. Secondo me quegli uomini sbavano per quelle donne che abitano lì solitarie, sperdute. Una è una bella ragazza, giovane. Secondo me a qualcuno l’ha data. Dopo un po’, alle pressioni si cede...

Sono i film che mi faccio. In realtà non so nulla di cosa succede. Ultimamente, d’inverno, passando si vedevano gli uomini di colore giocare a calcio in uno spiazzo. D’estate sono seduti sulle sedie, anche se non devi consegnare sei costretto a rallentare perché vicino all’arco ci sono dossi artificiali, ti fissano, muovendo la testa lentamente, come uomini di paese seduti fuori dal bar...

Ad azione, reazione

Quando studiavo all’università incappai in un articolo accademico, che non faceva parte dei miei studi, che parlava più o meno di saturazione cognitiva, cioè della possibilità della mente di arrivare a un punto di pienezza. Abbiamo limiti in questo senso o possiamo imparare illimitatamente?

Mi pongo oggi il quesito perché, come quando studiavo, ho l’impressione che niente possa entrare più nel mio cervello. Anche ai tempi dello studio c’è stato un periodo in cui mi sentivo saturo. Non ce la facevo più a studiare. Forse è stata anche questa sensazione a farmi abbandonare gli studi – anche se le ragioni reali, concrete, sono state poi altre (struttura e sovrastruttura).

In realtà oggi penso che quella di saturazione, se sovviene, sia appunto una sensazione, non un vero limite del cervello. L’uomo può imparare all’infinito, anche perché il vero imparare, dalla percezione che ho, è un togliere, un pulire, non un accumulare. Quando apprendiamo qualcosa ci liberiamo da opinioni false. Non acquisiamo necessariamente opinioni vere, ma già abbiamo fatto un bel lavoro se ci siamo liberati da quelle false, il risultato è sapere di non sapere, già tanto.

La sensazione che sovviene quando ci si sente non più in grado di acquisire conoscenze secondo me equivale allo stato di Teeteto quando Socrate gli dice, nel dialogo omonimo: “Tu hai le doglie”. A un periodo di studio intenso, cioè di introiezione, dovrebbe corrispondere uno di estroiezione ossia di produzione. In ambito universitario, ciò corrisponde all’esame. L’esame basato su esposizione e domande e risposte è meglio del quiz a risposta multipla. Se l’esame è orale, ancora meglio. Uno deve essere in grado di dar forma a ciò che ha introiettato e partorire qualcosa di nuovo, la conoscenza da lui acquisita e vista dalla sua prospettiva. A livello macro ciò si ripropone nella tesi, che è specchio, sul lato produttivo, dell’introiettamento avvenuto durante il lato passivo, acquisitivo, degli anni di studio.

Ho studiato e appreso parecchio dopo aver abbandonato gli studi, forse più di quando ero iscritto all’università. Arrivato all’esame di Diritto della Comunicazione, non ce l’ho fatta. La Giurisprudenza non è la mia materia, il linguaggio è astruso e non ho memoria per tenere a mente leggi, articoli e commi. Mi interessanto le dinamiche dominanti (v. A beautiful mind), le cause e i perché dei fatti primari. Ad esempio, in Diritto, sarei semmai interessato a chiedere: “Perché esistono le leggi?”.

Abbandonando l’università ho potuto continuare gli studi nutrendomi di ciò che la mia anima mi portava a introiettare, andavo a tatto, a sentimento, a naso. Avevo i miei ritmi. Lo studio non era più forzato né con scadenze. Se una cosa non mi piaceva, non la studiavo. Prendevo appunti praticamente per ogni frase che leggevo. Era il mio modo di partorire immediatamente ciò che la lettura provocava. Ad azione, reazione. Anche oggi sono fatto così. Se leggo una pagina o anche solo un paragrafo, già qualcosa è smosso dentro; devo produrre qualcosa, una meditazione, un post, una pagina di diario.

Forse è anche l’età. A vent’anni si digerisce tutto, poi la digestione diventa lenta e macchinosa e non tutti i cibi sono assimilabili.

Il mio metodo per leggere un libro è sempre lo stesso: leggerlo tutto velocemente la prima volta, per avere la visione completa, poi studiarlo pezzo per pezzo. Oggi non ho tempo di leggere un intero libro velocemente, perciò parto subito con lo studio pezzo per pezzo. Studio per me significa commento, produzione, parto di qualcosa di personale.

La compravendita

Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora (Mt 25, 1-13)

Questo passo del Vangelo è stato letto domenica 12 novembre 2023. È un passo conosciuto che mi ha sempre incuriosito. Ho sempre fatto fatica a entrare nella simbologia. Mi sono sempre chiesto cosa significhino le lampade, l’olio, i vasi.

Oggi, domenica 12 novembre 2023, due punti hanno colpito la mia attenzione costringendomi a riflettere. Uno, mi sembra di aver capito cos’è l’olio. Due, mi ha colpito il fatto che si può comprare.

Cos’è l’olio secondo me si capisce dall’ingiunzione finale: “Vegliate!”. Per riempire i propri vasi di olio è necessario vegliare. Gesù invita a vegliare in più parti del Vangelo. Vegliare non significa solo star svegli, significa pregare e allo stesso tempo obbedire a Dio, significa non peccare. Se si veglia si è pronti per l’arrivo del padrone, di cui non si conosce né il giorno né l’ora. Cos’è l’arrivo del padrone se non il giorno del giudizio e cosa significa esser pronti per quel giorno se non essere trovati senza peccato? Vegliare significa dunque stare attenti alla propria condotta secondo i precetti che Dio ha dato nell’Antico e Nuovo Testamento. Significa inoltre pregare Dio con preghiere di lode e ringraziamento, poiché Dio le merita, solo per ultime le preghiere di domanda.

Ora, se uno non riesce a fare per Dio direttamente queste cose (obbedienza, preghiera) può occuparsi di altre e acquistarsi meriti in altre maniere. Può lavorare, donare, servire gli altri. Sono meriti che rappresentano altrettante monete di scambio per comprare l’olio della veglia. Se ci si impegna a fare il bene, Dio non se ne scorda. Il bene fatto o anche il fare le cose bene equivale a servire Dio e pregare. Ecco perché è possibile fare altro e poi comprare l’olio coi meriti acquisiti, anche se non si serve Dio direttamente.

Le vergini sagge non sono necessariamente quelle che si occupano delle cose di Dio tutto il tempo, sono semplicemente quelle che si preoccupano di avere con sé l’olio in piccoli vasi in tempo per l’arrivo dello sposo. L’olio, come visto, si può anche comprare. Esiste cioè una moneta, un metodo indiretto per procurarselo. Ciò che fanno di sbagliato le vergini stolte è non farsi trovare con l’olio all’arrivo dello sposo.

Le vergini sagge si rifiutano di dare alle stolte l’olio non per durezza e mancanza di carità, ma perché allo sposo non manchino spose pronte. Questa è la vera cura che le vergini sagge hanno nei confronti dello sposo rispetto alle vergini stolte.

Vegliare significa dunque varie cose, significa pregare, non poltrire o oziare, non deviare dai comandamenti di Dio, lavorare per il bene comune, per gli altri e non per se stessi. I comportamenti rivolti al rapporto con Dio sono secondo me il modo diretto per procurarsi l’olio per le lampade, gli altri il modo indiretto, che ha bisogno di compravendita per arrivare a possedere l’olio.