Il pacifico mondo

Quando il grano verdeggia
e si sposano
aria fresca e sole caldo,
chi sta meglio di me
a vagare in maniche di camicia
per campagne ricche,
entrare in una cascina
accolto da cani solo
inizialmente abbaianti,
poi subito scodinzolanti,
felici di una visita spezza-noia,
di poter arraffare una grattatina
proprio in quel punto lì,
e vecchie solo
inizialmente seccate, solo
perché loro il computer
non sanno usarlo,
ma felici
di ritirare il pacchetto
e far parte anche loro
del mondo nuovo,
attraverso figli, nuore e nipoti?
Ah, che gioia, quando il corriere
è gentile,
è uno di noi, un figlio di madre,
un lavoratore
che entra in punta di piedi,
si scusa quasi,
cerca di non disturbare.
Gli si posson portare i bambini
in braccio, a dire: “Ciao,
come ti chiami? Io
mi chiamo Filippo!”. Schermaglie,
timidezze, mentre i cani
annusano le ruote
e sognano di lunghe strade,
lasciando un ricordo
per il cane che annuserà
prossimo. Si raccontano
acciacchi, è offerto
il caffè, ma:
“Purtroppo
se non continuo
non finisco più”,
è la scusa più azzeccata,
ancorché vera. Felice
di godere un attimo
del pacifico mondo, 
anche se in punta di piedi
perché il nuovo
sotto sotto spaventa.
Strade dissestate, ciuffoni d’erba,
alberi ingombranti graffiate
pure il furgone,
pagherò, purché
non mi sia tolto tutto ciò,
pagherò. E un’edicola,
una Madonna con bambino,
una Pietà, un San Luigi,
una pieve,
son sempre pronti
a confortare e consolare;
nel vagare un segno di croce,
un’Ave dischiude le labbra,
quasi si forma una lacrima,
quasi ex-voto... 
Meglio non fotografare
per mettere nello stato,
non si capirebbe,
meglio all’antica,
ricordare e parlare.
Quando facendo manovra
si rischia di finire in un fosso,
ma subito dopo
trotterellando sulle buche,
si attinge a tocco di labbra
alla bottiglietta d’acqua, godendo
l’aria dal finestrino,
come si può,
come si può non ringraziare?

Precedenze

Si è portati a pensare che la scelta del popolo di Israele sia una questione di preferenza, ma è solo precedenza.

Si tanga conto che nel giorno finale Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15, 28).

Inoltre, che mentre il regno dei cieli è eterno, la terra è il luogo dove vigono le leggi fisiche determinate dalla materia.

Ciò significa che se, in cielo, Dio vuole trasmettere qualcosa a un angelo, ad esempio un comando, nel momento stesso in cui lo pensa è trasmesso. Nell’eternità non ci sono problemi di spazio e tempo.

Gli uomini, invece, sono legati alla dimensione spazio-temporale. Dio ha creato le leggi fisiche e non ha alcun interesse a negarle andando contro se stesso. (Ciò vale anche per i miracoli, che non sono fenomeni impossibili, bensì improbabili).

Date le leggi fisiche che governano la vita sulla terra, e la collaborazione che Dio chiede all’uomo nell’opera di salvezza, succede che a volte Dio, volendo dare 10 euro a qualcuno, dia 10 euro a un altro e si aspetti che questo altro dia all’altro di prima i 10 euro.

Ammettiamo che Dio faccia avere a qualcuno 100 euro da distribuire a 10 persone. A causa delle leggi dello spazio e del tempo, volute pur sempre da Dio, si sarà costretti a darle in ordine, non tutte insieme. Perciò qualcuno riceverà i 10 euro prima, qualcuno dopo. Sulla terra la distribuzione è un problema logistico.

Facendo il corriere ho chiare queste cose. La mattina carico sul furgone 200 pacchi. Ciascun cliente crede di essere l’unico, di poter scegliere l’orario di consegna, ecco perché capita di non trovare i clienti in casa. Invece il mio compito, o comunque il compito di chi ha il dovere di pianificare il giro, è stabilire chi riceve il pacco la mattina e chi il pomeriggio, chi per primo e chi per ultimo, chi di prima e chi di tarda mattina, chi di primo e chi di tardo pomeriggio, chi a mezzogiorno e così via.

Ciò avviene anche per il deposito della fede. Dio potrebbe trasmettere la fede a tutti gli uomini nello stesso momento, così come potrebbe distribuire le sostanze materiali a tutti gli uomini nella stessa misura istantaneamente, se volesse. Ma ha voluto creare l’universo con leggi fisiche.

I beni spirituali sono soggetti anch’essi alle leggi della materia, dello spazio e del tempo, come quelli materiali. La fede è un bene spirituale. Si pensi a Gesù che dice: “Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò” (Gv 16, 7). Siccome lo Spirito Santo è lo spirito di Gesù – ogni uomo è composto di corpo, anima e spirito (cf. 1Ts 5, 23) – quando il Figlio, la Seconda Persona della Santissima Trinità, è sulla terra, è incarnato in Gesù, avviene che tutto lo Spirito Santo è con lui e nessun altro può averne parte. È per questo che è bene che Gesù torni al Padre; perché, a iniziare dalla Pentecoste, lo Spirito Santo sia distribuito ai cristiani, i battezzati. Quando Gesù era sulla terra, era per così dire un ladro di Spirito Santo, era talmente santo che tutto lo Spirito Santo era con lui. Nessun altro poteva parteciparne. Per poterlo distribuire, ha dovuto morire. Lo Spirito Santo ha allora potuto essere distribuito agli apostoli e agli altri discepoli, come prima che Cristo s’incarnasse era distribuito a profeti e ad altri uomini di Dio.

La fede è un tesoro che è stato dato inizialmente agli appartenenti al popolo d’Israele, non perché questo lo tenesse tutto per sé e si considerasse privilegiato, ma perché lo trasmettesse.

Ora disse il Signore
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele,
– poiché ero stato stimato dal Signore
e Dio era stato la mia forza –
mi disse: «È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti di Israele.
Ma io ti renderò luce delle nazioni
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra» (Is 49, 5-6)

Già gli israeliti erano chiamati a fare proseliti, a comunicare agli altri il vero Dio. Così oggi il cristiano, per il solo fatto di essere battezzato, è chiamato a fare apostolato, a evangelizzare. Il dono della fede è responsabilità. Da notare che il popolo scelto è il più piccolo, debole e disprezzato. “La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo” (Sal 118, 22). Un popolo nomade, senza terra propria, che vive sotto le tende. Ogni volta che si riceve un dono, come ad esempio la capacità di procurarsi ricchezze (v. Gates, Bezos, Musk, ecc.), bisogna ricordare che: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Lc 12, 48b).

È noto, dalle lettere di San Paolo, che la salvezza dovrà giungere a tutte le genti, per ultimo al popolo d’Israele che ha rifiutato il primo annuncio del Cristo:

Fratelli, Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio. Ora io dico: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta alle genti, per suscitare la loro gelosia. Se la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro totalità! Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: «Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati». Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! (Rm 11,1-2a.11-12.25-29)

Solo allora sarà la fine dei tempi, e Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15, 28).

Messa da requiem

Chi è come te, Signore,
che liberi il debole dal più forte?
(Sal 35, 10a) 


Eccomi qui, davanti al computer, come al solito senza niente da scrivere. Parto sempre in questo modo. E mentre inizio penso sempre a M. C. Mi dico, ma lui lo sa che so dattilografare e scrivo? C’è sempre questo pensiero sotto la mia attività di scrittura, è come se volessi che lui sapesse che scrivo. E che ho un computer potente come il suo. E che so usare il computer per produrre le mie opere. Come fa lui. Anche se lui fa il grafico. Però questa cosa è iniziata dopo che è rimasto vedovo. Da quel momento, il pensiero compare sempre quando mi metto a scrivere. La povera F., speriamo riposi in pace. Forse dovrei pregare per lei. Forse è in Purgatorio. Non era una cattiva persona. Solo, era atea. Come M. Questo compromette la possibilità di andare in Paradiso. Poiché è per fede che siamo salvati. Però entrambi sono battezzati, quindi con la loro buona vita, pur non avendo mai pronunciato una sola volta il nome di Gesù per invocarlo, possono essersi guadagnati il Purgatorio. Forse la mia presenza potrebbe aiutare M. a credere alla vita eterna e a pensare a sua moglie come a un’anima sempre presente. Potrebbe sentirsi meno sconfortato. Forse cercherebbe la mia amicizia, per provare a credere. Ma ha già i suoi amici. Quante volte abbiamo provato a essere amici, non ha mai funzionato. La verità, secondo me, è che siamo amici, lo siamo sempre stati. È bastato condividere i tempi dell’infanzia, a Magognino, o da mio padre. Ciò ha fatto di noi amici d’infanzia. La colpa è mia se non ci siamo frequentati. Lui sarebbe sempre stato disponibile. Bisogna dire che una volta abbiamo provato a frequentarci, ma è stato il periodo in cui era appena morto mio padre, o stava morendo, e in cui da poco mi ero lasciato con l’E., ed ero piuttosto lamentoso, sapevo parlare solo dei miei problemi, perché occupavano la mia mente e mi ossessionavano. Non apprezzai, al tempo, come M. riceveva il mio dolore. Per lui tutto doveva essere solo divertimento e risate. Al tempo non lo sopportai, e lasciai perdere di uscire con lui e i suoi amici, perché capivo che davo fastidio. Forse è anche per questo che adesso fa tanto la parte di quello che si sente bene pur essendo rimasto vedovo. È divenuta una questione di principio, come se il fatto di non avermi aiutato quando ne avevo bisogno fosse sempre stato il suo modo di pensare in merito a questi problemi. Quante cose si possono scoprire con la scrittura! Questa cosa l’ho appena scoperta, non l’avevo mai pensata. Sono fragile, faccio fatica a fare amicizie (o forse sono diventato così dopo le numerose botte ricevute dagli amici negli anni in cui sono stato male e nessuno mi ha aiutato perché a quell’età non ne avevano voglia, nessuno mi è stato vicino come volevo io, tutti erano disponibili, sì, ma a continuare a fare le cose che volevano loro, a patto che fossi stato disposto e capace di adattarmi a loro), mi lascio andare al dolore, a gustare il dolore, a viverlo, e forse in questo esagero, nel senso che probabilmente ho anche usato i dolori che mi sono capitati come alibi per non far nulla e non vivere, soprattutto per smettere di studiare e allo stesso tempo per non iniziare a lavorare. M., invece, è più forte di me come persona. Questo sicuramente. Partiamo da questa premessa. Io sono una persona più fragile e debole, lui una persona più forte e solida. Questo va detto. Non tralasciamo di asseverare questa verità. Detto questo, però, bisogna dire, ci sono stati comportamenti moralmente sconvenienti, sia da parte dell’uno sia da parte dell’altro. M., negli anni della giovinezza, non voleva avere a che fare col dolore, e nemmeno oggi, vuole continuare a vivere la sua eterna adolescenza e tutto deve continuare ad andare bene nella sua vita. Ops, sei rimasto vedovo! Cosa fai adesso? Fai finta di niente. Non piangi, non batti la testa contro il muro, continui ad andare avanti come nulla fosse, con l’aiuto degli amici, come dici. Però di fatto gli amici sono come te, senza problemi, coi genitori vivi, continuano a uscire la sera e a fare casino e tu ti sei adattato a loro, loro non si sono mai abbassati a provare a vivere il dolore, a starti vicino nel dolore. Io, dal canto mio, ho forse esagerato un po’ troppo il dolore che provavo. È colpa mia se è successo mentre non avevo ancora un lavoro? Se mi fosse capitato mentre avevo un lavoro, continuare a lavorare avrebbe aiutato a superare il dolore, a vivere il lutto. Non certo uscire con gli amici la sera a far baldoria. Il lavoro, elemento costante e abitudinario, necessita di concentrazione che toglie il pensiero dai dolori, è ciò che ci vuole per superare il lutto. Mio fratello e mia sorella l’avevano, il lavoro. Io avevo lo studio, ma il dolore impedisce di studiare. Lo studio non è come il lavoro. Il lavoro ti costringe a concentrarti perché c’è di mezzo il sostentamento per la vita, è una questione di vita o di morte; lo studio, invece, ha una concentrazione labile, facile a spezzarsi, qualsiasi pensiero ossessivo lo distrugge. Non si riesce a uscire da un dolore con lo studio. Questa è la mia opinione. È vero che anche lo studio, se si intende come propedeutico al lavoro, è un lavoro in sé ed è questione di vita o di morte. Ma, chissà perché, il mio studiare nessuno l’ha mai preso sul serio. Io stesso non ci credevo. Mentre studiavo non ho mai creduto che sarei arrivato da qualche parte. Studiavo per diventare giornalista, figuriamoci. Scienze della Comunicazione. Quale altro sbocco avrei potuto avere? Il giornalismo era l’unica attività concepibile. Di pubbliche relazioni non se ne sarebbe parlato. Forse il marketing, la pubblicità. Ma marketing e pubblicità mi sono sempre sembrati la versione cattiva, meno nobile, del giornalismo. E allora, nella mia megalomania, ho puntato sempre al giornalismo. Solo che, dicevo, dove andrò a finire? Non sono certo il tipo che riesce a trovare lavoro in qualche giornale, non sono abbastanza bravo, lo si vedeva dai miei studi. Non ero uno da tutti trenta. La prospettiva iniziò a diventare essere giornalista in qualche testata minore, locale, o in televisione, in radio o su internet allora nascente. Cominciò a diventare la prospettiva di un lavoro precario, come facevano in molti, a meno di farsi il culo a quadretti per farsi un nome e una posizione come certi blogger. Una cosa così non mi è mai sembrata né appetibile né possibile per la mia persona. Non sono mai stato la persona adatta a fare il freelancer. La precarietà mi spaventa. Nonostante tutto, mia madre viene dal ceto contadino e ha la terza media, sono cresciuto con lei, ho assorbito e acquisito la sua mentalità che è quella del posto fisso. Il lavoro sicuro. Non avrei mai potuto fare l’artista, anche quando ho cominciato a vedere che non me la cavavo malissimo con la scrittura (mediante i corsi di Composizione Testi in Italiano e in Inglese). Di fatto, oggi mi trovo bene col posto fisso, col lavoro da dipendente in Amazon. Togliamo il fatto che sono scontento di lavorare per la grande multinazionale del consumismo. Che i miei valori sono negati ogni giorno. Mi consolo dicendomi che è l’unica cosa che sono riuscito a trovare dopo aver smesso di fare il frate a 36 anni e mezzo. Altro non avrei potuto trovare. E allora accontentiamoci. Se non c’è alternativa, quello è il posto in cui ti ha messo Dio. Questo è un buon criterio di discernimento (per capire qual è la volontà di Dio su di te). Ma c’è sempre un’alternativa. Anche solo quella di fare l’elemosina. Ma bisogna esserne capaci. Anche nella parabola del figliol prodigo si parla di uno che non è capace di fare l'elemosina perché si vergogna. Quindi è evidente che l’elemosina non è sempre un’alternativa, ho sbagliato a scrivere. Il figliol prodigo infatti va a lavorare, anche se si mette a fare un lavoro peggiore di quello che aveva presso il padre. Si mette a pascolare i porci. Poi si rende conto che avrebbe vita migliore anche solo come servo di suo padre e decide di tornare a casa. Suo padre, contro le aspettative, lo accoglie di nuovo come figlio. Ma questa è la parabola. Torniamo al discorso. I dolori mi hanno colpito quando non avevo ancora un lavoro, e questo rendeva la mia fragilità ancor più fragile. Come colpa, dicevo, posso aver avuto quella di esagerare i dolori e usarli come alibi per far nulla. Sfruttando la bontà di mia madre che continuava a mantenermi. Se proprio devo dir la verità, però, aggiungerei due cose. Una, credo che il mio modo di vivere il dolore sia quello giusto. Non bisogna cercare di far finta che non ci sia, come fa M. M. non vuole mai parlare del lutto, evita come la morte l’argomento di sua moglie morta, continua a ridere e scherzare e vuole far vedere a tutti i costi che è forte. Atteggiamento tipico del non cristiano. Il cristiano, invece, non ha paura di far vedere le debolezze. Anche a costo di sembrare troppo lamentoso. Ma è la Bibbia, in un salmo, a consigliare di considerarsi come bimbi in braccio alla madre nel rapporto con Dio. Quindi io mi comporto così. Mi lamento, sbraccio, scalcio, me ne sto tranquillo a riposare quando non c’è nulla di cui lamentarsi, e mi godo l’abbraccio del Padre. Lui accetta tutto da me, perché è Padre e mi ama fortissimamente. Quindi ribadisco che secondo me l’atteggiamento giusto per vivere il dolore è innanzitutto prenderne atto. E comunicarlo ai propri cari, ai vicini. Questi, si vedrà dalla loro reazione se sono amici o no. L’amico si vede nel momento della crisi. Se un amico è disposto ad abbassarsi per vivere il tuo dolore è un vero amico. Altrimenti è meglio lasciarlo perdere. Non deve essere solo presente come riferimento per le uscite e i divertimenti. Non è questo che vuol dire il: “Se vuoi, io ci sono”. Deve essere in grado di sopportarti mentre piangi e ti strappi i capelli e ti cola il naso e sei tutto scarmigliato e pazzo di dolore. Allora sì, è un vero amico. Se no, possa andare a continuare a divertirsi. Quando sarò in grado di divertirmi ti chiamerò. Forse. Ecco, è di questo tipo di amici che mi sono trovato circondato quando sono capitati i dolori. Non ho mai teso a colpevolizzarli troppo. Eravamo tutti troppo giovani. Tutti volevamo continuare a fare la nostra vita da giovani, studiare, divertirci, essere spensierati. È a me che sono capitate le sfortune, tutti mi hanno evitato. Nessuno voleva vivere, a quell'età, ciò che stavo vivendo. Li capisco. Però capisco anche che da allora non ho più avuto amici. Mi sono sentito abbandonato da tutti. Tutti mi hanno voltato le spalle. Hanno detto: “O ti adatti a noi, o cazzi tuoi”. Be’, è da lì che ho cominciato a isolarmi. E ho paura che M., oggi, stia vivendo una cosa del genere. È lui che si adatta agli amici spensierati e pieni di genitori, sposati, con lavoro e con vita perfetta. Non ha mai realmente elaborato il lutto, l’immenso dolore che porta perdere la cara moglie amata a 41 anni dopo tre anni di matrimonio. Si è appiattito all’idea che bisogna essere forti e continuare a fare la vita di prima, non parlare mai di ciò che è successo, giammai, perché si è già sofferto troppo. Anzi, meglio sia morta perché negli ultimi tempi, quando lei soffriva a causa del tumore alle ossa, si stava fin troppo male per lei. Meglio che sia finita, ora è il tempo di guarire e non pensarci più. A me, sinceramente, questo atteggiamento non piace. La morte della moglie in età giovane è un evento devastante, tragico, una cosa non probabile e che capita rare volte nella vita. Innanzitutto bisogna imbracciare il dolore. Capire cosa è successo e che non si sarà mai più quelli di prima. La vita non continua. Se la vita continua, è perché siamo cristiani. Essere cristiani, le radici culturali che abbiamo dentro perché le nostre società le hanno vissute per secoli, è ciò che porta a dire: “La vita continua”. Perché sappiamo che c’è vita dopo la morte e che per i buoni la vita dopo la morte è felice. Perché abbiamo imparato che i morti non muoiono veramente, non ci abbandonano, non lasciano la vita vuota, non fanno sentire mancanza ma sono sempre presenti. È in base al Cristianesimo che la pensiamo così, che siamo in grado di affrontare il lutto, dopo aver elaborato il dolore e preso atto del nostro nuovo stato di vita. Sei un vedovo 41enne, renditi conto di ciò che sei, sei un’anomalia, un mostro, non andare in giro per locali coi cosiddetti amici a saltellare come uno scemo facendo finta di essere come tutti. Non sei come tutti. Prendi coscienza di ciò che sei. Secondo me non sei in grado di affrontare il dolore, non è vero che sei forte, non sei in grado di accettare il tuo nuovo, mostruoso, da zoppo, stato di vita. Sei uno zoppo, uno strano, un’anomalia. Non sei più il ragazzino che girava per locali sui Navigli di vent’anni fa. Smettila di far finta che tua moglie non sia morta. Fallo almeno per lei, vivi il lutto, commemora la sua anima, la sua morte, la sua persona. Rendile tributo vivendo il lutto. Lo merita, non solo perché era una brava persona, ma per il solo fatto che è stata tua moglie. Ho finito, non ho altro da dire su questo argomento. Devo dire che con questo scritto mi sono preso la rivincita su M. e su tutti quelli che hanno vissuto il lutto meglio di me. È vero che viviamo in un mondo dove non si vuole vedere la morte. È semplicemente perché si cerca di evitare il dolore. È un mondo completamente scristianizzato, in cui si vuole evitare la croce. La croce non è più causa di salvezza. Non è più lo strumento con cui Nostro Signore ha salvato l’umanità. E lo dice uno che quando è sulla croce si dibatte e lamenta. Ma è perché sono anch’io figlio di questo tempo, nato e cresciuto in mezzo a comodità e mollezze, come se tutto fosse dovuto. Queste cosiddette baby-gang non sono altro che ragazzini terrorizzati dalla vita. Quando iniziano a prendere coscienza di cosa li aspetta nel futuro, il lavoro, la famiglia, i figli, i conti da pagare, una vita di povertà al fondo dei più bassi strati della società, ecco che iniziano a dar di matto e ribellarsi. La loro violenza non è che un modo di ribellarsi alla vita, non alla società. Non si ribellano alla società, si ribellano alla vita. I cattivi, lo dico sempre, sono le persone più paurose e deboli che ci siano. Sono le persone che non riescono ad accettare di vivere la vita così com’è, con le leggi buone che Dio ha dato. Sì, il mondo è la periferia milanese con le sue ditte ovunque e i suoi palazzoni, non è una natura incontaminata dove vivere sempre nudi con la tua Eva. Scordatevi i ditalini che facevate alla vostra Mary quand’eravate a casa, tuona il sergente di Full metal jacket. Sì, il mondo è quella campagna desolata che d’inverno sembra tanto triste e inospitale, piena di capannoni e di trattori che vagano qua e là, di animali chiusi a centinaia in stalle a ricordare anche la nostra condizione di prigionieri stipati. Povero ciccio della baby-gang, proprio non ce la fai ad accettare il mondo com’è. Vieni da me, derubami, malmenami, tagliarmi, mostrami quanto sei forte, sono pronto, sei tu la mia croce, il male permesso da Dio che mi santificherà, mi porterà in Paradiso. Sì, perchè io non reagirò, ti darò ciò che vuoi, al massimo cercherò di farti arrestare, perché sia compiuta la giustizia, poiché Dio è grazia ma è anche giustizia, e io amo il mio Dio e voglio fare cose simili a lui; ma mi lascerò fare, lascerò che il malvagio, l’unico vero pauroso, anche se si sente audace, mi faccia a pezzi e umilii la mia mascolinità affinché il mio essere agnello davanti al lupo mi porti in Paradiso. Grazie. E mentre lo farai pregherò per te, perché Nostro Signore ha detto di pregare per i nemici e per quelli che ci perseguitano. Perché sei un poveretto, o malvagio, e hai bisogno di preghiere più di altri, perché il tuo destino è il più infimo di tutti, tutti ti odiano in vita e, dopo, la tua fine è la morte eterna. Prego per te, o malvagio, affinché anche tu possa salvarti. “O Gesù, perdona le nostre colpe, preservaci dal fuoco dell’inferno, porta in cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della tua misericordia”, preghiera rivelata da Maria ai pastorelli di Fatima. L’altra cosa che volevo dire che è usare il dolore come alibi, negli anni dei dolori, non è stato per me solo un modo per smettere di lavorare e studiare, ma un’astuzia per smettere di studiare la merda che facevano a studiare a Scienze della Comunicazione e per poter mettermi a studiare ciò che volevo, grazie a Dio che mi ha condotto per i suoi sentieri, ho usato come alibi i dolori che mi erano capitati per convincere mia madre a farmi fare quattro anni di psicanalisi, una delle cose migliori che abbia fatto, a mio parere, se devo dire la verità, e allo stesso tempo per dedicarmi liberamente allo studio come lo intendo veramente, non quello che porta ad avere il pezzo di carta per esercitare la professione, ma quello che nutre e cambia l’anima, la accresce, la migliora. Ecco, questo penso. Dovevo dirlo. Mentre scrivevo ascoltavo la Messa da requiem di Verdi. 

Il rosso e il nero

Ho sempre dato definizioni a due tipi di dolore dell’anima, quello per la rottura di una relazione e quello per la morte di un caro. Secondo me sono i dolori tipici che una persona può trovarsi ad affrontare nella vita.

Ho sperimentato la rottura della relazione col primo e unico amore, una ragazza con cui sono stato dai 20 ai 21 anni. Eravamo proprio innamorati persi. Siamo stati cinque anni compagni di classe ma non ci siamo mai degnati d’attenzione. Dopo un anno di università – io a Bologna, Scienze della Comunicazione, lei alla Bocconi, Economia aziendale – ci siamo rincontrati. Puntavo la sorella, di un anno minore e che non conoscevo bene. Quando tornavo a Milano, a volte, nel fine settimana uscivo con un altro ex-compagno di classe delle superiori, nel cui gruppo c’era la sorella di E. Nel periodo natalizio ero tornato a Milano per passarci un po’ di tempo e stare tranquillo a casa a preparare gli esami. Nell’appartamento bolognese c’erano lavoratori, eroinomani e fumatori quotidiani di marjuana, non c’era il clima ideale per concentrarsi. A Milano, nella casa vuota di mia madre, studiavo bene. Avevo preso sul serio l’università. La semiotica e la linguistica mi piacevano assai. E. non va mica a separarsi dal fidanzato storico, col quale era stata almeno tre anni durante le superiori, proprio in quel periodo? Iniziò a uscire col gruppo e si mise tra me e la sorella. Forse, con l’indipendenza e la sicurezza che avevo maturato nei primi mesi lontano da casa, studiando e lavorando (cameriere), sarei anche riuscito a fare una degna corte alla sorella di E., con telefonate, messaggi, inviti... cosa che non avevo mai fatto e che non avrei mai più fatto. Non ho potuto sapere come sarebbe andata con la sorella di E. proprio perché E. si è messa in mezzo. Siamo a novembre 2000. Mio padre verso settembre aveva avuto un ictus, era stato ospitalizzato, curetta, ed era tornato a casa. Con mio fratellastro e mia sorellastra (figli della prima moglie di mio padre) si iniziava a parlare di casa di riposo, per la quale anch’io avrei dovuto contribuire. Fu persino interpellata mia madre, che aveva lasciato mio padre 20 anni prima e non aveva alcuna intenzione di sostenerlo ora. Mi cambiò la vita. Prima avevo come prospettiva solo lo studio e l’impegno nella vita universitaria, le cose della mia età; di colpo, subentrò il problema del doversi prendere cura del padre anziano e malato, col quale, tra l’altro, non avevo mai vissuto. Diventai vulnerabile. Fu anche questo, ricordo, che mi spinse verso E. Col gruppo di amici che avevo a Bologna, una banda di sottoni, non si poteva certo parlare di queste cose. E. mi ascoltava e compativa. Iniziò a provare affetto per me, e io per lei. Facevamo lunghe chiaccherate, anche telefoniche. Un giorno, sotto Natale, eravamo in macchina per andare a far compere in centro, si mise a nevicare e a entrambi vennero le lacrime agli occhi. Ci guardavamo l’un l’altro stupiti, increduli che una cosa del genere potesse accadere a noi. Capimmo che eravamo innamorati. Praticamente non avevo mai fatto sesso. Il sesso con la persona di cui sei innamorato è una cosa pazzesca. Trascorremmo a casa sua, nel letto dei genitori, le vacanze da Natale all’Epifania. Credo di poter dire di essere stato felicissimo in quel periodo. Di studiare non se ne parlava. O si trombava o si parlava, il tempo rimasto era per lo studio. Iniziammo a capire che il rapporto poteva compromettere la carriera universitaria. Era un problema soprattutto per lei, che spendeva un sacco di soldi alla Bocconi. Ciò che posso dire è che anche quando studiavo non facevo altro che pensare a lei e alle cose da dire a lei. Iniziarono a esserci litigi, che si protraevano a lungo, fin nella notte, lasciandoci distrutti e incapaci di combinare alcunché. I genitori di lei, soprattutto, iniziarono a preoccuparsi della relazione. La madre di E. mi lanciava certe occhiatacce! Non nascondeva il suo astio per me. All’inizio E. difendeva la relazione contro i genitori. Però si vedeva che era provata. Avevo pensieri del tipo: “Se sono dannoso per lei è meglio che non stiamo insieme”. Mi lasciò per uno con più anni di me, col padre con la fabbrichetta, anche lui studiava alla Bocconi e un giorno avrebbe rilevato la fabbrichetta. Non ho avuto altre donne. La verità è che penso di essere innamorato di E. ancora oggi. Parlavamo di matrimonio e del nome dei figli. Quanti innamoramenti è in grado di sopportare una persona? Secondo me se ci rinnamoriamo, ci innamoriamo sempre della stessa persona, quella che, la prima volta, ha aperto il rubinetto.

Ho dato a questo tipo di dolore l’idea del colore rosso. È stata come una ferita aperta, uno squarcio. Sangue che usciva a fiotti. Non ho mai provato di nuovo un dolore così grande. La fine del primo amore è qualcosa che non auguro a nessuno. Anche perché, come detto, penso che il primo amore non finisca mai, e se amiamo riamiamo sempre la stessa persona e le cose che abbiamo provato con lei. Da quest’esperienza ho capito cosa intendeva Ludovico Ariosto componendo un’opera intitolata Orlando furioso. Divenni pazzo, non potevo più stare in casa, tormentavo in continuazione amici e non amici per uscire, anche le vacanze dovevano essere qualcosa di notevole... non esisteva che restassi a casa solo a far nulla. Dovevo essere in attività, in azione. La solitudine mi distruggeva, avevo disimparato a star solo, l’innamoramento aveva generato dipendenza. Quel genere di amore, quell’avere 24 ore su 24 una persona a disposizione, chi l'aveva mai sperimentato? Avevo crisi di pianto in cui urlavo e mi contorcevo, mi succedeva magari mentre ero in giro in macchina, in mezzo al traffico, davo pugni sul volante per la rabbia, al pensiero di essere stato lasciato per un altro. Questa follia durò almeno tre anni. Non potevo più passare in certi luoghi di Milano, i luoghi dove avevo amato lei o dove sapevo poteva esserci lei. L’università, è facile capirlo, andò a quel paese. Non riuscivo più a studiare. Cercai di allontanarmi da Milano trasferendomi di nuovo in pianta stabile a Bologna, ma non funzionò. Non riuscivo più a stare lontano da Milano. Anzi, dopo tre anni mi disiscrissi dall’Università di Bologna e mi iscrissi alla Cattolica di Milano, dove E. aveva detto che il suo ex era iscritto. Erano processi mentali folli, anomali, fuori di testa.

Il colore che ho attribuito alla morte di mio padre, invece, è il nero. È stato un dolore più depressivo, abbattente. Non mi faceva urlare e stramazzare, gettarmi a terra in pianto, non mi faceva andare in giro come una pallina da flipper impazzita; ma star fermo, inerme, senza forze, senza voglia di vita. Il lutto, dice Confucio, si porta per tre anni. Anche per me il blocco fu all’incirca di tale durata. È evidente che sono una persona fragile. Mio fratello e mia sorella, che hanno 16 e 15 anni più di me e un’altra idea di padre, ne uscirono con forza e stile. Volevo bene a mio padre, che mi aveva avuto a 49 anni, anche se lo vedevo solo nei fine settimana e d’estate. Gli ultimi anni ad accudirlo ci legarono in modo speciale.

Questi due dolori, ancorché differenti, hanno condizionato i miei anni dai 20 ai 30, lasciandomi vuoto e senza motivazioni. Non so se ho dato un’idea di cosa sono per me il rosso e il nero

La neuro

La vita era fallimento, la solitudine premeva, la conditio vivendi, pur essendo all’apparenza facile, non lo era. Filocamo aveva lasciato l’università, aveva perso il padre, era stato mollato dall’innamorata per un ricco, figlio del papi con l’azienda, era mantenuto dalla madre, negoziante sgobbona, e si era messo in psicanalisi. La solitudine lo portò, pur di comunicare, a cercare di farlo con l’universo. La scienza psicologica gli aveva insegnato il bisogno di parole che si ha sempre, da quando si è neonati e la madre avvolge in una coperta di parole. Gli mancavano, in quel periodo, quelle parole, gli erano sempre mancate. Ora le cercava nei libri, cercava una spiegazione, un senso. Cercava spiegazioni delle cose, all’apparenza era una ricerca di sapienza, ma sotto la superficie un bisogno primordiale, la suddivisione del mondo in categorie, uscire dall’indistinto, la prima suddivisione che avviene sentendo una parola. Poiché ogni parola è parte di un codice, ne è espressione e manifestazione, una parola rispecchia un intero pensiero, una concezione del mondo, è tassello in una più larga, totale, ripartizione. Ogni espressione è indizio di un’anima intera. Iniziò a ricavare segni ovunque. Un manifesto pubblicitario, il volo di un uccello, le parole lette sui giornali, su internet, tutto comunicava. Tutto gli parlava di sé, qualsiasi cosa gli diceva chi era. Un piccolo uccello nero che, sbucando da una siepe, gli sfrecciava davanti ai piedi era segno di sfortuna. Fu questo l’inizio; entrare nella vita religiosa, il via libera che portò all’esacerbazione. Dio comunica con l’uomo in ogni momento, basta saper ascoltarlo, è la frase ripetuta in ogni momento, basta saper leggere tra le righe. Peccato che poter capire cosa dice lo Spirito Santo bisogna essere santi, bisogna vivere vita santa. Come si fa a capire il Santo senza santità? Il Santo va da colui o colei che gli è simile. Capiamo i nostri simili. Giovane monaco vecchio diavolo, recita un detto. Il giovane frate non santo, che in realtà aveva iniziato molto prima, in solitudine, senza consiglio né supporto di alcuno, leggeva tutto in tutto. Ogni gesto, ogni parola divenirono ragione di significato. Dio gli parlava attraverso qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Poteva arrivare a turbarsi se la persona con cui parlava si metteva improvvisamente a grattarsi la testa con la mano sinistra piuttosto che con la destra. C’era una causa in questo, il suo universo, anche grazie alla lettura e al tentativo di interpretazione della Parola, era un insieme di collegamenti e parlava. Ne era felice, peccato che non sapeva ancora che non è solo Dio a parlare, ma anche il diavolo, il menzognero, quello là per chi non vuol dir il nome per paura che così facendo lo invoca... Perciò è necessario il cosiddetto discernimento, per capire, nei segni, non solo cosa si dice, ma chi parla. Dio, quando parla, dà ordini, dice cosa fare. Anche quando dice semplicemente cosa sei. Sei pigro, uguale devi attivarti. Stai sbagliando, uguale devi modificare il comportamento. Un uccello arriva da destra, segui quella via. In autostrada, un camion col volto di Padre Pio, segno propizio. Gli ordini che gli arrivavano da Dio mediante queste comunicazioni di cui solo lui sapeva, che solo lui sapeva leggere, divennero superiori agli ordini dei superiori. Divenne spinoso, i superiori gli davano ordini che lui non eseguiva perché doveva eseguire quelli datigli direttamente, solo a lui, da Dio. Con la disobbedienza costituiva una corona di spine per i superiori, i quali si santificavano per mezzo di lui. Poche cose sono dolorose come la disobbedienza di chi dovrebbe fare ciò che si dice, lo sanno i genitori, che hanno a che fare con altrui volontà che crescono divenendo spesse e dure. Lo sanno i capi negli uffici, dove vige, non detta, la legge della libertà. Il leggere segni di Filocamo divenne scienza. Filocamo era conscio di ciò che faceva, sapeva quando era iniziato, sapeva che gli serviva a riempire buchi, che era come l’amico immaginario. La vita religiosa era una giustificazione, un alibi. Lo faccio perché mi han detto di farlo, perché dicono che è così, che Dio parla. Finalmente, dato che sono frate, posso farlo liberamente. Leggendo sulle locuzioni che Santa Teresa d’Avila riceveva, iniziò a distinguere segni esterni da segni interni. Un segno che arriva mediante i sensi ha alta probabilità di essere diabolico. Ma anche un segno che appare a occhi chiusi è percepito dai sensi, quelli interni, per nominarli con San Giovanni della Croce. Qui finiva la sua comprensione, oltre non andava. Di fatto, l’unico discernimento, se ci si pensa, è quello mediante ragionamento; altro che segni. Ma anche coi ragionamenti quello là può giocare, maestro di ragionamenti fallaci. Prima di pensare che anche i sensi interni sono sensi, Filocamo credette che tutto ciò che si vede a occhi chiusi è segno di Dio, specialmente se in quel momento si è in preghiera. Cominciò a mettersi in preghiera a occhi chiusi e ad aspettare che apparisse l’immagine. Una volta, così facendo, all’una di notte gli apparve una tazza. L’interpretazione fu che doveva farsi un caffè e scendere nel coro della chiesa, diviso dalla stessa da una parete, aprire il tabernacolo che vi si trovava, nel quale c’era un’ostia in un piccolo ostensorio, e mettersi in Adorazione. Scese, si fece il caffè in cucina, si recò in coro, si inginocchiò davanti al tabernacolo, poi passò oltre, verso la sacrestia, dove, in uno sportello dell’armadio, erano appese le chiavi. Trovò tutti gli sportelli aperti, pensò: “Frà Elia – sacrestano – ne ha fatta un’altra delle sue. Forse, per via di una delle sue idiosincrasie, ha aperto tutti gli sportelli per far prendere aria ai lini e ai legni...”. Frà Elia faceva parecchi di ragionamenti del genere, un giorno su due era dal ferramenta, frà Filocamo doveva sopportarlo, perché era più anziano... Ancora mezzo assonnato, dato che il caffè non aveva ancora fatto effetto, diede poco peso alla cosa, prese le chiavi del tabernacolo, tornò in coro e lo aprì. Fece l’ora di Adorazione. Naturalmente non aveva detto nulla ai superiori. Uscendo dal coro, notò una finestra, che dava sul chiostro, aperta. Anche a quella non fece caso, tornò a letto. Capì, il giorno dopo, che il segno della tazza del caffè l’aveva mandato il diavolo per farlo scendere ed esporlo al pericolo dei ladri, mentre le elucubrazioni sulle idiosincrasie di frà Elia le aveva inviate Maria per non fargli capire che c’erano stati i ladri e per non fargli dare l’allarme. Probabilmente, mentre si sedeva a fare Adorazione, i ladri erano ancora lì e, stupendosi che frà Filocamo non reagisse al vedere tutto aperto, si dettero alla fuga. Rubarono 700 euro, praticamente tutti gli averi della congregazione, dalla cassa della segreteria. Fece fatica a spiegare ai confratelli il processo mentale che l’aveva portato a non dare l’allarme e a fare Adorazione in pace. Frà Elia fece una smorfia sentendo il racconto, ma frà Filocamo doveva dire la verità per spiegare cosa era successo. Capì, e lo capirono tutti, di essere stato da un lato ingannato, dall’altro salvato. Nessuno però gli chiese conto dell’abitudine di seguire segni. La madre fondatrice parlava sempre dell’importanza di seguire i tocchi dello Spirito Santo. Fu, questo, un fallo della congregazione, che avrebbe dovuto indirizzare qualche discorsetto all’abitudine di frà Filocamo. Era pericolosa, non solo per casi come questo, ma, come detto, perché lo portava a disubbidire. Il superiore gli diceva una cosa e lui, pensando che Dio gli avesse parlato, ne faceva un’altra. In più, prendeva iniziative. Quando avrebbe dovuto star fermo, magari a pregare, partiva per qualche impresa. Dire qualcosa a qualcuno, spostare un oggetto, partecipare a una liturgia. Fu ancora di notte che vide la mano della fondatrice col gesto: “Andare! Raus!”. In quel periodo aveva vita difficile. Frà Filocamo non amava la vita pastorale, non voleva star sempre in mezzo alla gente. La sua tendenza a sentirsi giudicato gli rendeva difficile essere figura pubblica, al centro dell’attenzione e delle chiacchere. Non voleva occuparsi dei bambini, dei ragazzi, la trovava una fatica insormontabile e la pigrizia vinceva. Era da due mesi in dialogo col superiore, il quale tendeva a minimizzare paure e lamentele. La congregazione era piccola, il superiore era praticamente il fondatore del ramo maschile, non reggeva l’idea di un altro membro che voleva andarsene. Dopo aver pregato offrendo la vita per una parrocchiana che, a quanto pare, riceveva malefici da un professionista pagato e manifestava episodi di possessione, con urla e vomito, frà Filocamo aveva anche iniziato ad avere tentazioni di tipo sessuale, sopite per quattro anni e mezzo. Anche questo, nei dialoghi coi superiori, fu preso sotto gamba. Perfino durante le liturgie alcune parole gli facevano pensare a cose sessuali. Filocamo si sentiva sporco, inadatto alla vita religiosa. Come faccio a occuparmi di famiglie con queste idee in testa? Una volta una parrocchiana, un’attrice dilettante, sempre truccata, col marito palestrato, che però leggeva bene, mentre leggeva il brano delle tentazioni nel deserto, al versetto: “E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame” si voltò verso Filocamo e lo guardò. Qualcosa si vedeva, si notava nei suoi comportamenti? I parrocchiani notavano che qualcosa in lui non era più puro, pulito? Poteva continuare a fare questo mestiere? Credeva che no. La notte in cui, in preghiera, a occhi chiusi – ci riprovava – vide la mano della fondatrice che faceva il gesto: “Va’ via” si spaventò. Non aveva imparato, dall’evento precedente, che a parlare può essere il diavolo. L’autorità della fondatrice era intensa. Si alzò dal letto, mise pantaloni, sandali e giacca e uscì nella notte. Probabilmente i parrocchiani avevano appena fatto qualche attività o rappresentazione coi boy-scout, di cui frà Filocamo non sapeva perché non gli piaceva stare coi giovani, e avevano dimenticato nel portico la luce accesa e una forca contro un muro. Nell’aura di mistero che circondava il gesto che stava facendo –  fuggire dal convento di notte – l’immagine gli rimase impressa come segno che la gente del paese non lo voleva. La forca, in particolare, era suggestiva. S’incamminò per la strada che porta al mare, dove passa il treno. Ci mise più di un’ora, tempo di esser giù e albeggiava. Si recò dal parroco del paese, il quale, vedendolo in quello stato, fu conciliante e gli diede 50 euro. Arrivò ad Ancona, dove, dopo aver dormito tre notti in stazione, fu fermato dai Carabinieri mentre camminava sulla linea bianca in mezzo alla strada… Così gli era stato comunicato dai segni che leggeva, interpretava, ormai qualsiasi cosa era segno, una luce, un colore, ogni secondo doveva svoltare e cambiare direzione, finì in mezzo alla strada... Interrogato, diede il numero della madre, che il giorno dopo approdò col treno. Tornò con lei a Milano. Il superiore diede il consiglio di mandarlo alla neuro, con parole sue. Consigliò un istituto cattolico a Brescia, non troppo lontano dal luogo dove abita la madre. All’Unità ospedaliera di riabilitazione psichiatrica Mosè Bonardi del Fatebenefratelli di Brescia Filocamo passò un mese. Ogni giorno, non avendo più la preghiera comunitaria, pregava tre rosari camminando in giardino. L’Istituto Padre Mosè Bonardi non è corsia psichiatrica. Innanzitutto si sta su base volontaria e non si può starvi più di un mese. Inoltre è una struttura composta da quattro case, solo piano terra, in cerchio attorno a un giardino. In ogni casa sono accolti da quattro a sei pazienti, per un totale possibile di 20 ospiti. Si hanno compiti, chi la cucina, chi il lavaggio pavimenti, chi il rifacimento letti. Nel frattempo si assiste a conferenze e si fanno attività tipo teatro. La cosa più importante è il lavoro con educatori e psicologi. A Filocamo fu diagnosticato un disturbo ossessivo-compulsivo con aspetti paranoidali, vale a dire interpretativi. Gli spiegarono che erano una componente nevrotica (l’ossessione) e una psicotica (l’interpretazione). Il disturbo fu giudicato serio e non guaribile, ma compensabile, per usare il gergo psichiatrico, con un farmaco che, riducendo la quantità di pensieri, riduce anche la percentuale di quelli disfunzionali, così chiamati perché provocano azioni controproducenti. Filocamo sfruttò al massimo il lavoro degli esperti di psicologia e psichiatria messi a disposizione. D’altronde, quand’era frà Filocamo il suo superiore gli aveva già prescritto di seguire una psicoterapia. Aveva dovuto fare un questionario di quattro ore più il test di Rorschach, dai quali risultava, difatti, che la sua interpretazione della realtà era sballata. Gli esperti dell’Istituto Bonardi raccolsero i risultati di questi test e, assieme ai racconti di Filocamo, diedero la diagnosi. Filocamo si rassegnò e l’accettò. Parve plausibile, per quanto uno poteva essere avverso alla psichiatria. Filocamo non era avverso, avendo fatto psicanalisi; a maggior ragione, era conscio dei limiti. Come sapeva e come spiegò, sapeva di aver iniziato a interpretare i segni già prima di diventare frate. Mentre recitava il rosario, alle sette, nel giardino, e l’alba mostrava automobili sfrecciare sull’autostrada, le ciminiere e i palazzi di uffici fecero venire l’idea di Brescia.  “Qui Dio mi ha portato, qui resterò e lavorerò”. Ancora oggi Filocamo è in cura al Centro Psico-Sociale, anche se gli fanno un colloquio dieci minuti l’anno. Combatte coi pensieri disfunzionali.