Tre luoghi

A Milano cʼè una zona in cui ci sono tre luoghi significativi. I tre luoghi sono significativi per me perciò sono questi a risaltare nella mia mente, ma sono sicuro che nella stessa zona ci sono tantissimi altri luoghi anche più significativi. Però soltanto di questi tre luoghi parlo.
Chiamo la zona: “la zona di via Lazzaretto”.
Voglio precisare che non vivo a Milano. Sono nato e cresciuto a Milano, ma ora vivo in una città medio-grande a nord-est di Milano.

Nella zona di via Lazzaretto cʼè un negozio di dischi che si chiama Nashville. Secondo me il nome Nashville è perfetto per un negozio di dischi. Non è un caso che il negozio esista ancora nonostante le difficoltà che un negozio del genere deve incontrare per sopravvivere. Sono entrato nel negozio di dischi Nashville massimo tre volte. Però avrei voluto entrarci di più.
Non sono mai stato un grande ascoltatore di musica. Da ragazzino sicuramente non passavo il mio tempo nei negozi di dischi. Ho recuperato e mi sono fatto una cultura musicale quando è arrivato internet. Lì sì che ho scaricato e ascoltato di tutto. Però ho anche scoperto di non essere un fanatico di musica. Dopo un poʼ mi sono rotto. Oggi ascolto solamente Mozart e John Frusciante, con qualche piccola aggiunta, Monteverdi, Bach, Beethoven, il canto gregoriano, gli album regalati gratuitamente dal sito Lovegoodculture.com e basta. Seriamente, non riesco ad ascoltare altro. Nel negozio Nashville non ho mai comprato nulla, o forse al massimo un cd. Eppure mi è sempre piaciuto. Avrei voluto essere uno di quei frequentatori di negozi di dischi che passano il tempo a browsare tra il materiale in cerca di chissà che affare...

Lʼaltra cosa che cʼè nella zona di via Lazzaretto è il Libraccio. Nei Libraccio milanesi ho trascorso davvero tante ore. Lì sì che passavo il tempo a browsare tra il materiale in cerca di qualche affare. Al Libraccio ho comprato molto e ho anche letto molto. È per questo che li giravo tutti. Non potevo farmi vedere sempre nello stesso Libraccio perché mi fermavo a leggere e spesso uscivo senza aver comprato nulla. Che bello, il Libraccio! I Libraccio di Milano sono enormi e pieni di roba, anche se spesso è sempre la stessa. Nella città in cui vivo ora cʼè un solo Libraccio ed è davvero povero. Non ha nemmeno lʼaria di essere Libraccio, è talmente piccolo…

Lʼaltra cosa ancora che cʼè nella zona di via Lazzaretto è la piscina Cozzi, costruita nel 1932 con vasca da 33 metri.
Per due anni ho corso tutti i giorni. Mi svegliavo la mattina presto, prendevo la macchina di mia madre e andavo in qualche parco milanese a correre. A mia madre però la macchina serviva per lavoro, non tutti i giorni ma quasi. A un certo punto glielʼho sottratta talmente tanto, e proprio nelle ore in cui le serviva, che si è arrabbiata e ha proibito di farmela usare tutti i giorni. Da quel momento, siccome non avrei potuto correre per la città come fanno molti, ma ho sempre avuto bisogno di andare in un parco, nei giorni in cui non avevo la macchina o andavo in autobus al Saini, un centro sportivo annesso al parco Forlanini, zona aeroporto di Linate, dove ci sono spogliatoi per chi vuole usare la pista di atletica, ma poi può andare anche a correre nel parco, o andavo a nuotare in piscina. La piscina Cozzi era la piscina in cui andavo a nuotare più frequentemente. Andavo anche, però, in altre piscine, quelle rionali, più piccole. Giravo diverse piscine, come i Libraccio e le biblioteche.

Non mi piaceva farmi vedere nello stesso posto. Desideravo lʼanonimato. Quando mi rendevo conto che in un posto cominciavo a essere conosciuto, cambiavo. Così, in un paio dʼanni, ho girato tutte le piscine, i Libraccio e le biblioteche di Milano.

Umiltà

Giustizia, saggezza, temperanza e coraggio sono le quattro virtù cardinali. Fede, speranza e carità sono le tre virtù teologali.
umiltà dove la mettiamo?
Nel senso... se non fa parte di queste categorie è possibile addirittura annoverarla tra le virtù? È lʼumiltà una virtù?
Quelle due categorie – cardinali e teologali – e quelle sette virtù non esauriscono tutte le virtù?

Mi viene in mente il libro Le piccole virtù di Natalia Ginzburg. Lo lessi tanto tempo fa e non ricordo nulla. Però questo titolo, Le piccole virtù mi fa pensare che esistano virtù minori oltre alle sette grandi virtù elencate allʼinizio.
Il problema, a questo punto, è questo. Lʼumiltà risulterebbe essere come minimo una virtù minore, una piccola virtù.
Eppure nella letteratura cristiana si trova lʼumiltà elencata tra le massime virtù. Ad esempio Santa Teresa dʼAvila, non ricordo se nella sua Autobiografia o se altrove, la mette al primo posto.

Io, francamente, da quando sono diventato credente – circa 12 anni fa – ho maturato sempre più lʼidea che lʼumiltà sia di importanza fondamentale. Non so dove collocarla in una gerarchia di virtù, però so che è di importanza fondamentale.

Lʼumiltà è collegata alla piccolezza, che è una caratteristica umana amata tanto da Dio.

Cosa significa essere piccoli? Significa non avere qualità. Non avere ricchezze di nessun tipo, né materiali né spirituali. Il piccolo per eccellenza è Lazzaro del capitolo 16 del Vangelo di Luca: “Cʼera un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe” (Lc 16, 19-21)

Il grande per eccellenza invece è San Giovanni Battista. “In verità vi dico: «Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista»” (Mt 11, 11). Pensiamo alle virtù di San Giovanni Battista. Sin da giovane si è ritirato nel deserto. Un asceta, uno che si nutriva di quasi nulla, che compiva grandi digiuni. Inoltre, un uomo della Parola. È grazie al suo profondo studio della Scrittura e alla sua vita irreprensibile, priva di tutto, francescana nel vero senso del termine, che poteva permettersi di accusare un intero popolo: “Razza di vipere” (Mt 3, 7). Se non dai lʼesempio per primo, ovviamente, se non sei irreprensibile tu stesso, non puoi incolpare nessuno. Lui invece poteva. Poco cibo, niente sesso, niente ricchezze. San Giovanni Battista lo immagino molto alto e magrissimo, longineo, un tipo alla Pannella, che grida anatemi contro i propri compatrioti. La perfetta figura del profeta.

Quando si pensa alla differenza tra grandi e piccoli bisogna pensare al resto del Vangelo su Giovanni il Battista: “tuttavia il più piccolo – tra i nati di donna – nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11, 11).

Per essere umili bisogna essere piccoli. E si badi bene, lʼumiltà non può essere falsa. Faccio un esempio. Nel libro Oltre il giardino (titolo originale: To kill a mockingbird) verso la fine appare in paese un cane con la rabbia. Tutti vanno a rinchiudersi nelle case. Però se non ricordo male cʼè ancora qualcuno a portata del cane rabbioso. Il protagonista del libro, Atticus Finch, prende una carabina e gli spara da 900 metri, uccidendolo prima che possa attaccare quel qualcuno rimasto indietro che non era ancora riuscito a chiudersi in casa. Atticus Finch è avvocato. Nessuno sapeva che sapeva sparare così bene e che aveva una tale mira. Ha questo talento che aveva sempre tenuto nascosto non dicendolo mai a nessuno. Nel momento del bisogno, tutti hanno scoperto le doti da cecchino dellʼavvocato.
Si potrebbe dire che lʼavvocato abbia nascosto questa sua dote, questo suo talento per umiltà.
Tuttavia, questa non è vera umiltà.
La vera umiltà non è saper fare qualcosa e nasconderlo, non dire nulla a nessuno. Non è avere delle ricchezze e andare in giro vestiti da straccione.

La vera umiltà si può ottenere solamente mediante la vera, concreta piccolezza. La vera piccolezza significa non sapere fare nulla, non possedere nulla, non avere qualità interiori né virtù.

Il discorso, mi rendo conto, è controverso. Ma sfido chiunque ad alzare la testa contro il proprio vicino se si non ha nulla di cui potersi vantare.
Il contrario dellʼumiltà infatti è la superbia.
Se si leggono i padri del deserto, si scopre che lʼultimo demonio che il monaco deve sconfiggere, dopo aver sconfitto tutti gli altri (pigrizia, lussuria, gola, ira, ecc.), è la superbia.
Perché superbia è dire: “Che bravo che sono”. “Io sì che sono bravo”. “Io sono più bravo degli altri”. “Io sì che ce lʼho fatta a sconfiggere tutti i demoni e a guadagnare tutte le virtù”.

Per finire, una nota personale. Anni fa desideravo la sapienza. Non so perché, ma per qualche anno non feci altro che leggere libri. Quando divenni credente, realizzai che la sapienza poteva rendermi superbo. Appena ebbi lʼoccasione, passai un intero ritiro di tre giorni a chiedere lʼumiltà. Formulavo la preghiera principale più o meno in questo modo: “Signore, io desidero la sapienza, e ti prego di darmela, ma se non posso avere la sapienza senza essere superbo, ti prego, non darmela. Dammi anzitutto lʼumiltà. Ciò che voglio più di ogni altra cosa è lʼumiltà. Non voglio mai che capiti che io mi creda più sapiente di mio fratello. Non voglio mai essere convinto di essere quello che ha ragione, tanto da arrivare a disdegnare la relazione con la persona. Ti prego, Signore, dammi anzitutto lʼumiltà, e se poi è possibile che abbia qualche forma di sapienza pur avendo lʼumiltà, allora dammi anche la sapienza. Ma sapienza senza umiltà, no”. Finì che per tre giorni non feci altro, svegliandomi alle cinque di mattina per andare a pregare in un uliveto, che chiedere di avere innanzittutto lʼumiltà.

Oggi, non faccio altro che contemplare quotidianamente le mie mille miserie. Ogni incrocio di sguardo con una persona è motivo di calcolo delle differenze tra me e la persona, ossia per dire: “Quella persona ha…”, “Mentre a me manca…”. È un tormento continuo. Non sto scherzando. È unʼagonia quotidiana. Ogni persona che incontro mi fa venire in mente qualcosa che non ho, sia dal punto di vista materiale, sia spirituale.

Mi scuso se parlo spesso di queste cose. Ma queste sono le mie giornate.
Sono convinto che Dio abbia ascoltato quelle mie preghiere e, oltre ad avermi privato di numerose qualità, oggi non faccia altro che mettermi sotto gli occhi tutte le piccolezze di cui sono afflitto.
Da un lato sono contento, perché so che Dio è vicino ai piccoli ed essere piccoli permette di affidarsi a Dio come un “bimbo svezzato in braccio a sua madre” (Sal 131, 2). Però dʼaltra parte è una sofferenza continua. Non riesco a darmi pace nel constatare la mia miseria nel perpetuo confronto con gli altri.
Ultimamente, tra lʼaltro, sono scontento anche della mia capacità di scrittura. Faccio infatti il confronto con vari interessantissimi blog che mi è capitato di scoprire in rete, e mi deprimo.

La classicità di Friends

Per me Friends è un classico.

È il classico dei classici tra le sitcom, e in quanto tale entra a far parte dei classici della letteratura. Dopotutto, è teatro.

Per la definizione di classico rimanderei a Italo Calvino (“Perché leggere i classici?”) o a Umberto Eco (qualche Bustina di Minerva).

Perché penso che Friends sia un classico? Le ragioni, principalmente, sono tre.
Il momento in cui è arrivato, la forma famiglia pur non essendo una vera famiglia, il livello non troppo sofisticato.

Innanzitutto, il momento in cui è arrivato. È arrivato al culmine. Ha rappresentato la somma di tutte le sitcom fatte ed esistite in precedenza. Non è un caso che, finito Friends, cʼè stata la paura collettiva che quel formato particolare di sitcom, ossia il multicamera (tre o quattro cineprese) filmato davanti a un pubblico dal vivo in studio era morto.
In realtà la sitcom multicamera è stata portata avanti da telefilm come The big bang theory, How I met your mother, Two and a half men e altri. Ma nessuno ha raggiunto risultati stellari come Friends. Sono sempre state tutte sitcom di nicchia, ossia ciascuna dedicata a un settore di pubblico particolare.

Il sottotitolo di Friends, quando è nata la sitcom, era qualcosa del genere: “La vita di sei persone che vivono in quel periodo in cui si esce dalla famiglia e in cui gli amici diventano la propria famiglia”.
Le più classiche delle sitcom hanno sempre avuto al centro la famiglia. Raffiguravano la vita di famiglia. Friends ha continuato a fare questo, pur staccandosene. Genio puro. Non stiamo parlando di un genere di nicchia che si rivolge solo a un certo tipo di pubblico. Il senso di famiglia presente in Friends lʼha sempre reso appetibile a qualsiasi pubblico. So che può sembrare ardito come concetto, ma non è un caso che la puntata finale sia stata guardata da 52,5 milioni di americani, rendendola la quinta più guardata puntata finale di una serie nella storia della televisione.

Per quanto rigurda il livello, è vero, si può accusare Friends ogni tanto di essere basso come livello di storie e di battute, spesso incentrate sul sesso o sul cibo.
La verità è che questa medietà è un elemento che rende Friends un classico. Deve potere essere visto da tutti. Prendiamo serie come Frasier, in onda negli anni Novanta, che narra le vicende di due fratelli psicologi di cui uno gestisce anche un programma radiofonico. Bellissimo, per carità, ma troppo sofisticato, troppo di nicchia. Come del resto The big bang theory.

Friends ha elementi di tutte le sitcom. È la somma di tutte le sitcom.
È lʼunica serie con un cast di sei attori tutti esattamente alla pari e allo stesso livello. Infatti per tutti gli anni della produzione si sono alleati perché nessuno avesse la paga che superasse quella degli altri. Hanno tutti sempre voluto la stessa identica paga per dieci anni.
Tutti e sei gli attori erano egualmente pieni di talento. Anche se io li dividerei in tre coppie discendenti in base alla bravura. Perry-Aniston, Scwhimmer-Kudrow, LeBlanc-Cox.

La forza segreta di questa sitcom, in ogni caso, al di là di tutte le teorie, e qui non metto un “per me” perché siamo di fronte a un dato oggettivo, è che contrariamente a molti set in cui ci sono rivalità, ego e rancori, qui i sei attori che interpretavano sei amici erano, e sono, anche veri amici nella vita.

Tentativo di volontariato fallito

Tempo fa ho trovato un direttore spirituale.

La direzione spirituale è una funzione del sacerdote. Il suo compito dovrebbe essere, in quanto persona più vicina a Dio degli altri, ascoltare cosa Dio ha da dire sulla persona di cui è direttore, ad esempio se Dio vuole che la persona faccia o non faccia qualcosa, cambi vita o resti nella vita in cui è. Non so dare una definizione migliore di direttore spirituale. Posso dire solo cosa farei io se fossi sacerdote e direttore spirituale di qualcuno. Mi metterei in preghiera e chiederei a Dio di dirmi quali consigli dare alla persona affidata alla mia cura. La cosa fondamentale, in questo caso, non è tanto sapere come pregare, poiché pregare, se uno ci pensa, anche se esiste una vasta letteratura di consigli su come pregare, è abbastanza immediato. La cosa difficile non è tanto saper parlare a Dio, ma saperlo ascoltare. Per ascoltare bisogna saper fare silenzio. Saper fare silenzio sembra quasi una cosa buddista, ma si tratta di questo. Se viene un pensiero, mandarlo via. Se viene un altro pensiero, mandare via anche quello. E così via. Una volta fatto silenzio, in teoria, i pensieri che vengono in mente dopo aver pregato dovrebbero essere messaggi di Dio. Come si fa a capire quali pensieri vengono da Dio e quali non vengono da Dio? Qui entra in gioco il discernimento, ossia la capacità di discernere lo Spirito di Dio dagli altri spiriti. Non parlo delle locuzioni, ossia vere e proprie frasi che vengono in mente e che i santi hanno sperimentato. Non parlo nemmeno di immagini che uno può vedere mentalmente. Parlo semplicemente, quando dico: “pensieri”, di cose che vengono in mente, ricordi. Se a uno, dopo che ha pregato e chiesto a Dio la risposta a una certa domanda, dopo che si è messo in ascolto ed è riuscito a fare silenzio, viene in mente una data cosa, che di solito è il ricordo di qualcosa che gli è successo, questo qualcuno dovrebbe chiedersi: “Cosa vuole dire la data cosa? Cosa vuol dirmi Dio mediante tale ricordo?”. A questo punto si può lavorare col sistema delle associazioni di idee che si usa anche in psicanalisi. Si dovrebbe arrivare a un risutato. Io, almeno, ho sempre fatto così. Se non altro perché non conosco altro metodo. Nessuno me ne ha mai spiegato un altro e io da solo non sono mai riuscito a venire a capo di cosa voglia dire ascoltare Dio se non col metodo che ho appena illustrato.
Il pericolo è appunto non ascoltare la voce di Dio ma quella del demonio (che è lʼunica altra voce che si può sentire se si toglie quella di Dio; cʼè lo Spirito di Dio e poi ci sono tanti altri spiriti, che sono tutti spiriti demoniaci, tutti diciamo emissari di quello là).
Se si ascoltano le voci sbagliate si rischia di commettere grossi errori nella vita.

Ma non volevo dilungarmi sulla figura del direttore spirituale. Volevo raccontare un episodio che mostra ulteriormente quanto io sia una persona orribile e quanto al momento stia vivendo un percorso in discesa.
Il mio direttore spirituale era nientemeno che il Direttore della Pastorale Sanitaria della Diocesi. Uno grosso. Non dico come lʼho conosciuto, dico solo che gli ho chiesto di farmi da direttore spirituale e che lui ha accettato.
Lʼunica cosa che mi ha chiesto di aggiungere alla mia vita è il volontariato. A me sembrava unʼottima idea. Vivo una vita troppo solitaria, non ho una compagna e non ho figli, ho bisogno di qualcuno a cui dare gratuitamente. Altrimenti come posso vivere il Vangelo? Nella vita quotidiana le occasioni sono rare. Perlopiù si hanno tante occasioni di perdonare, perché le persone sono tutte peccatrici (siamo tutti peccatori) perciò è normale subire qualche torto, anche piccolo, durante la giornata. Quelle sono le occasioni di perdono.
Don G. come volontariato mi ha proposto di andare con lui ogni domenica in una struttura dove vivono persone disabili. Lui dice la messa e fa un giro, salutando questo e quello. Quando ero frate – sono stato frate per cinque anni, non ho mai fatto i voti perpetui – una cosa che facevo era andare una volta a settimana in una struttura dove vivevano persone disabili. Avevo vari amici, uno in particolare, mi divertivo, ci divertivamo, cantavamo a squarciagola durante la messa e insomma non era male come cosa.
Ma da quando ho smesso di fare il frate non sono più riuscito ad avere a che fare con persone disabili, non, almeno, come animatore. Vivo una vita solitaria e faccio fatica ad avere a che fare con le persone, a fare amicizia, in generale. Ho qualche amico, ma solo due o tre che vedo di persona. Gli altri vivono lontano e li sento per telefono.
Non so proprio come spiegarlo, so che la mia immagine è quella di una persona orribile, ma proprio non sono più riuscito ad avere quellʼallegria, quel modo di fare tenero e amichevole che è necessario per avere a che fare con le persone disabili, che alla fine dei conti sono persone come le altre.
Dopo essere andato due domeniche ho smesso di andare del tutto. Non ho più chiamato don G. e oggi non ho più direttore spirituale.

Ogni tanto esco a cena con un frate anziano che anche se mi dà qualche consiglio non è ufficialmente il mio direttore spirituale. Dopo cena andiamo al cinema.
Lʼho conosciuto in confessionale. Ha fatto tutto lui. Mi ha invitato a cena. È un buon amico. Ringrazio Dio che cʼè.

Resta il fatto che la mia vita ha bisogno di cospicui miglioramenti, pigrizia – maledetta pigrizia – permettendo.

Vivere tanto e poco

Davanti a Dio, chi può dire se è meglio vivere una vita lunga o morire presto?

Gesù è morto presto, e la sua, si può dire, è la vita più compiuta di tutte. Nulla da aggiungere, nulla da togliere, la vita perfetta. Gesù è modello per lʼuomo e la sua vita è modello per la vita dellʼuomo.
Perciò vivere una vita lunga non significa necessariamente aver raggiunto un grande risultato.

Mi trovo in imbarazzo quando mi capita di incontrare qualcuno che mi dice: “Ho ben 87 anni!”, “Ho ben 92 anni!”, come se meritasse un premio o bisognasse garantirgli unʼonorificenza.
Di fatto è così che si tende a rispondere: “Complimenti! È arrivato fino a 92 anni!”.

Lʼetà va rispettata. Questo è certo. Ma perché?
Di mio direi che lʼanzianità porta con sé saggezza. Un mio amico vecchio mi assicura che non è così, e che invece si rincoglionisce e che è meglio essere giovani.
Cosa dire di uno che muore in guerra, o compiendo il suo servizio nelle forze dellʼordine? Non è forse più onorevole di uno che è vissuto a lungo?

Non è così ovvio che la vita più lunga sia la più onorevole.
Si potrebbe pensare che sia meritevole il fatto di essere sopravvissuti a lungo, con tutte le difficoltà che la vita offre.
Ma chi può seriamente dire una cosa del genere? Una malattia mica è nostra responsabilità. Si pensi a quei giovani fino al giorno prima pieni di salute, che si ammalano. Si pensi, dʼaltro canto, a quegli sportivi che muoiono sul colpo.
“Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita” (Lc 12, 20). La nostra vita è in mano a Dio, così come il momento in cui moriamo.

Dato che la vita è sofferenza, posso dare credito a chi ha vissuto a lungo perché ha sofferto per tanto tempo. E chi ha sofferto merita rispetto.

Piuttosto, mi è capitato di pensare una cosa del genere. Uno va quando è pronto. Cosa vuol dire essere pronti? Vuol dire aver fatto tutto ciò che si doveva fare nella vita. E qui si torna alla vita di Gesù.
Si pensi ad esempio anche a Mozart. Ha iniziato a comporre prestissimo. Nella sua vita ha composto tantissimo. Poco dopo i quarantʼanni aveva già conseguito tutto ciò che Dio gli aveva affidato di conseguire. Poteva andare. Poteva morire.
Secondo questʼottica, certi vecchi sarebbero ancora sulla terra perché devono ancora espiare ciò che non hanno fatto. Ecco dove porterebbero le omissioni...
“Dio ti tiene sulla terra perché non hai ancora sofferto abbastanza e quindi non sei ancora pronto per morire”.
Chi, invece, prende la sua croce su di sé ogni giorno... muore al momento giusto.
Il momento giusto? Il momento pre-pensato per lui o lei da Dio. Perdiamo tale momento tutte le volte che evitiamo una croce, tutte le volte che diciamo: “No” a Dio, tutte le volte che deviamo dalla strada maestra per il Paradiso che Dio ha preparato.

Detto questo, cʼè la seria possibilità che incontriamo un serio e venerabile anziano per cui vale questa Parola: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; dʼaltra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere dʼaiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede...” (1Cor 1, 21-25). Si pensi a uno che ha già raggiunto il momento giusto, che era pronto per morire perché aveva fatto tutto ciò che doveva fare, e che Dio tiene ancora su questa terra perché è di beneficio per gli altri. Che santità... che venerabilità...

Vocazione

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! (1Cor 13, 13)

Non sapeva cosa dire. Quello che in inglese chiamano: “small talk” era sempre stato il suo debole. Le chiacchere, le conversazioni non erano proprio il suo forte. Forse era perché era cresciuto da solo con la madre. In casa non aveva nessuno con cui parlare. Non era cresciuto abituato alla conversazione con la gente di casa come la maggior parte delle persone. Con la madre non parlava mai. La madre aveva un negozio dove stava la maggior parte del giorno. Quando tornava a casa cucinava e si metteva a tavola col figlio, ma tenevano la televisione accesa e guardavano Striscia la notizia. Il figlio, non appena poteva, si alzava e andava a guardare la televisione in sala. Cartoni animati, telefilm, aspettava il film della sera...
Quando fu divenuto frate, la cosa che lo terrorizzava di più erano le chiacchere da sagrato. Amava la messa e tutto quanto  comportava, la liturgia, i canti, le preghiere, lʼEucaristia. Ma non sopportava di doversi mettere a parlare con le persone fuori, sul sagrato della chiesa, alla fine della messa. Aveva il terrore del sagrato e lo sapeva. Faceva apposta a restare in sacrestia a finire di sistemare fino allʼultimo per rimandare il più possibile il momento in cui sarebbe dovuto uscire sul sagrato. Non sapeva come parlare alle famiglie. Non sapeva come attaccare discorso. I suoi confratelli frati, giovani e pieni di entusiasmo, ci sguazzavano nella situazione sagrato. Lui non vedeva lʼora che finisse e non vedeva lʼora di svignarsela. Forse, segretamente, in fondo al cuore, non vedeva lʼora di andare a guardare la televisione in sala, qualche telefilm, qualche cartone animato, aspettare il film della sera...
Ma no, queste cose non lo interessavano più. Agognava però la solitudine. Lettura e preghiera. Magari scrittura, qualche appunto sulle cose lette, qualche resoconto diaresco sui fatti della giornata. I resoconti diareschi fini a se stessi non gli erano mai piaciuti. Se scriveva qualcosa che gli era successo era solo per lamentarsi di qualche insuccesso o di qualche problema che stava vivendo nella sua vita, o magari per lamentarsi di qualcuno. 
Infine scoprì che la sua mancanza di idee sulle cose da dire sul sagrato davanti alla chiesa altro non era che mancanza di carità. Lʼincapacità di stare in mezzo alle persone è sempre stato segno di mancanza di carità. Gli pesava conoscere persone nuove. Non disdegnava ascoltare le vite delle persone, più volte era stato encomiato per la sua capacità di ascolto. Ma non era facile entrare velocemente in quel rapporto con tutti. Per lo più si trattava di essere bravi nello small talk. Questo lo annoiava a morte. Voleva andare sui libri o stare da solo con Dio, a pregare. Capì che non poteva fare il frate da parrocchia. O vita monastica, o altrimenti meglio abbandonare e lasciar perdere tutto.

La differenza tra fare un favore e farsi prendere per il culo

E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due.
(Mt 5, 41)

Oggi, alla fine del lavoro, un collega mi ha chiesto se lo accompagnavo con la macchina in un posto. Aveva gli occhiali da sole e si capiva benissimo che aveva fumato.
Naturalmente non ha fatto lo stesso lavoro che ho fatto io durante la giornata, ossia il corriere. Fumato comʼera, tuttʼal più avrà lavorato un poʼ in magazzino.
È una mia supposizione. In realtà è probabile che stesse bazzicando in magazzino, allʼora del mio rientro, perché abita lì.
Il magazzino che fa da base alla mia azienda ha gli uffici al piano terra e un appartamento al primo piano. Questo collega è in affitto nellʼappartamento al primo piano.
Possiede solo un motorino. A quanto pare il posto dove doveva andare non è che non fosse raggiungibile in motorino, però bisognava arrivarci per tempo. Da quello che sono riuscito a capire, aveva un appuntamento con un dottore, credo uno psicologo o uno psichiatra.
In macchina non continuava a far altro che dire che era nervoso per questo appuntamento e che presto avrebbe rimesso in sesto la sua vita, e cose di questo genere. Inoltre mi ringraziava per il gran favore che gli facevo.

Arriviamo allʼAuchan di C. Mi dice di entrare nel parcheggio, che deve prelevare al bancomat. Scende dalla macchina e si dirige effettivamente verso il bancomat, intanto io parcheggio e mi metto ad aspettarlo.
Mi metto a leggere un poʼ di blog e a scrivere un paio di commenti, a leggere le notizie su Google News. Dopo una ventina di minuti mi rendo conto che non è ancora tornato.
Provo a telefonargli. Il telefono squilla dentro la macchina. Lʼha lasciato in una di quelle grosse buste per la spesa che ormai usano tutti anche per cose che non cʼentrano con la spesa, in cui ci sono anche altre cose sue.
Faccio passare unʼaltra decina di minuti, poi decido di scendere dalla macchina e di andare a cercarlo. Parto dal bancomat, guardo in giro, ma il supermercato è enorme e pieno di gente. Di lui, nessuna traccia.

Arrabbiato, chiamo in magazzino e chiedo se cʼè ancora qualcuno. La mia intenzione è andarmene, passare dal magazzino, lasciare giù la sua roba – cioè la grossa busta della spesa con dentro anche il telefono – e andare a casa. Dopotutto il collega abita sopra il magazzino.
In magazzino mi dicono che saranno lì ancora unʼoretta.
Parto. Dieci minuti e sono in magazzino. Lascio la sua roba in ufficio e sparisco.

Il collega quindi è rimasto, per quanto ne so, allʼAuchan di C., paese appena fuori dalla città in cui vivo, quindici minuti di macchina ma almeno unʼora e mezza di autobus per tornare a casa, senza telefono e chissà se con soldi.

Io sono troppo incazzato perché mi ha mollato lì senza dirmi dove andava, lasciando in macchina pure il telefono. In magazzino mi aveva detto che avrei dovuto semplicemente lasciarlo in un posto per un appuntamento con un dottore.

Ma adesso naturalmente al mio confessore toccherà sentir parlare di questa storia. Lʼho mollato là senza telefono.
(Ovviamente tutto questo rinforza lʼidea che sono una persona orribile).

In più, cʼè da aspettare e vedere la sua reazione. Chissà cosa mi dirà la prossima volta che ci vediamo in magazzino. Magari ci sarà una discussione, magari dovremo picchiarci.

Che razza di situazione. Vuoi fare un favore a qualcuno, questo qualcuno viene fuori che è un demente e un fattone. Alla fine sei tu che fai la figura del bastardo, perché magari potevi aspettare dieci minuti di più.
Ma uno non ha diritto di andarsene a casa dopo una giornata di lavoro? Ti faccio un favore, ma se tiri la corda, e mi tiri per il culo...

Code

Come non sopporto quelli che, quando sei in coda, invece di mettersi alle spalle, cioè dietro, si mettono di fianco!

È una coda. Non sei capace di metterti alle spalle? 
Non è che il tuo trucco ti farà passare davanti, non farai più in fretta! 

Ventagli

C'è gente che non prende in mano un ventaglio o qualcosa con cui sventolarsi per tutta la giornata, e appena entra in chiesa deve per forza prendere in mano qualcosa e mettersi a sventolarsi, altrimenti pare che non ce la faccia a stare in chiesa.

Oddio, per carità, non posso stare in chiesa senza sventolarmi! Muoio!

Mi metto nei panni di colui che deve predicare. Non deve essere facile concentrarsi con tutti quegli sventolamenti davanti alla faccia...

Vogliamo dare ai predicatori il rispetto che gli si deve? Durante una predica può parlare lo Spirito Santo! Le sante predicazioni hanno operato conversioni in tutto il mondo! 
Già non tocchiamo la Parola di Dio quando siamo a casa nostra. Dovremmo ardere nellʼattesa che almeno il predicatore che ascoltiamo una volta a settimana – se è tanto – ci informi, ci spieghi, ci illumini e ci trasmetta la Parola.

Lʼimpegno del perdono

Non è così facile perdonare. A volte crediamo di aver perdonato, ma in realtà il nostro comportamento verso la persona che ci ha ferito è cambiato. Cambia automaticamente, anche contro la nostra volontà. La persona che ci ha ferito se ne accorge. Il nostro comportamento non è più sciolto come prima.
Quando si ferisce una persona, il suo cuore si indurisce nei confronti di chi ha ferito. Succede automaticamente; uno pensa: “Fa niente” e invece il suo comportamento cambia. Lo sforzo di perdonare invece non è affatto automatico.
Per capire se si è perdonato veramente bisognerebbe confrontare il comportamento che si aveva prima col comportamento che si ha dopo. Si riesce di nuovo a sorridere alla persona così facilmente? Si ha lo stesso desiderio di parlarle che si aveva prima? O la si evita non appena si percepisce con la coda dellʼocchio? Se non si riesce a comportarsi con la stessa scioltezza di prima significa che qualcosa è cambiato.
Allo sforzo di perdonare bisognerebbe sempre dedicare un poʼ di tempo, perché non è una cosa scontata. Bisognerebbe accompagnarvi anche un poʼ di preghiera. “Signore, aiutami tu a perdonare la tale persona”. “Dammi un poʼ del tuo perdono, della tua capacità di perdonare”.
È il momento in cui dobbiamo tornare a essere persona nuova... o meglio, dobbiamo divenire nuova creatura per tornare a essere come prima.

Cʼè un collega sul lavoro che nel suo desiderio di fare battute a volte mi ferisce. Lʼultima volta è andata così. Io avevo una maglietta con su scritto: “Nada te turbe”, che è lʼinizio della famosa preghiera di S. Teresa dʼAvila:
Nada te turbe
nada te espante,
todo se pasa,
Dios no se muda;
la paciencia
todo lo alcanza;
quien a Dios tiene
nada le falta.
Solo Dios basta. 
Nulla ti turbi,
nulla ti spaventi;
tutto passa,
Dio non cambia;
la pazienza
ottiene tutto;
chi possiede Dio
non manca di nulla.
Solo Dio basta.
Erano presenti il collega e una donna. La donna mi ha chiesto: “Cosa cʼè scritto sulla tua maglietta?”. Non riusciva a leggere bene. Glielʼho detto: “Nada te turbe”. Ma prima che riuscissi a spiegare che sono parole di una santa il collega è intervenuto.
“Nada te t…”. “Nada te t…”. Ha fatto un poʼ di tentativi e infine è venuto fuori con la frase: “Nessuno ti tromba! Per forza, con quella pancia. Qua, con questo lavoro, tutti dimagriscono. Tu sei lʼunico che è ingrassato!”.
In questo modo è stato interrotto il mio tentativo di spiegazione su cosa cʼera scritto sulla maglietta e sulla provenienza delle parole.

Bisogna precisare che il collega è albanese e musulmano. Qualche mese fa si è lasciato con la donna con cui stava da anni, ma in poco tempo se nʼè trovata unʼaltra. A una cena, qualche tempo fa, mi ha fatto vedere la sua foto. Devo dire che si è trovato una gran bella ragazza.

La mattina dopo, automaticamente, senza pensarci e senza farlo apposta, ho visto il collega con la coda dell'occhio, lʼho evitato e sono andato a salutare altre persone.
Adesso che ci penso, mi rendo conto che non sono nemmeno più riuscito a guardarlo negli occhi. Anzi, oggi ho persino notato che non è così magro come mi sembrava. 

Lepri contro cani

Una volta un ragazzo di tredici anni camminava con suo padre non lontano da un fiume.
È un piccolo fiume dellʼOltrepò pavese che si chiama Staffora ed è affluente del Po. Le rive sassose, con pianticelle qua e là, in alcuni punti sono larghe, tanto che si può camminare sulla riva sassosa ed essere anche a più di 50 metri dallʼacqua.

A volte il ragazzo e suo padre andavano a pescare alla Staffora. Cʼerano tre o quattro punti con bei fondoni in cui si pescava bene.
Il pesce più ambito era il cavedano. Di cavedani se ne potevano trovare anche di certe dimensioni. Ma era più facile prendere le cosiddette alborelle, ovvero pesciolini tipo sardine. I cavedani si potevano fare arrosto, al forno o in carpione (sottʼaceto con aromi). Le alborelle si facevano fritte e si mangiavano con lisca e testa, come sardine. Di alborelle bisognava pescarne tante per potersene fare una mangiata.

A volte il ragazzo e suo padre si facevano lasciare da un amico con la macchina in un punto della Staffora. Partivano la mattina e si portavano dietro panini. Camminavano e pescavano lungo il fiume tutto il giorno. Poi lʼamico verso sera li andava a prendere qualche chilometro più in giù, in un altro punto dove si erano dati appuntamento.

A volte, però, il ragazzo e suo padre andavano alla Staffora semplicemente a fare una camminata, perché la loro casa non era lontana dalla Staffora. Portavano con sé la loro cagna Lucri, diminutivo di Lucrezia.

Una di queste volte il ragazzo stava camminando lontano dallʼacqua, vicino a dove iniziano a esserci alberi e più in là campi.
Allʼimprovviso vide una lepre spuntare dallʼerba e mettersi a correre per scappargli. La cagna Lucri si mise subito a rincorrere la lepre.
Il ragazzo chiamò il padre e disse: “Papà, cʼè una lepre! La Lucri si è messa a inseguirla!”.
“Seh! Figurati se la prende! Le lepri sono molto più veloci dei cani!”, disse il padre quando arrivò dal ragazzo.
“Davvero?”.
“Sì, sì. A questʼora sarà già sparita nel bosco. Alla Lucri la lepre le fa un baffo!”.
Bisogna ricordare che il padre del ragazzo era stato cacciatore anni prima, quindi non cʼera ragione per cui il ragazzo non dovesse credere alle sue parole.

Rimasero qualche secondo a guardare la Lucri frugare in lontananza. Della lepre neanche lʼombra.

Continuarono la camminata, poi tornarono a casa, e raccontarono ai loro la corsa a vuoto della Lucri.

Invidia

Sono una persona orribile. Che sia affetto da invidia posso dimostrarlo con due semplici casi.

Il primo è verso un collega di lavoro, P., che è il più bravo di tutti.
Faccio il corriere, e non sono uno dei più bravi. Tra corrieri dire: “più bravo” significa dire: “più veloce”. Io non sono uno dei più veloci, ossia non sono uno dei primi a rientrare in magazzino la sera. Piuttosto, sono uno degli ultimi. P., invece, è sempre il primo. Ci mette unʼora e mezza, due ore in meno di me, e di molti altri, a fare il suo giro.
Va tenuto conto che tutti i giri sono pensati per durare circa otto ore. Lui ce ne mette in media sei, io ce ne metto in media otto. Diciamo che io sono nella norma, ma P. è straordinario.

Con P. cʼerano anche presupposti perché si formasse unʼamicizia. I primi tempi abitavo lontano e andavo a lavorare in treno. Dovevo prendere treno e un autobus. Arrivavo sul lavoro prestissimo. P. prendeva anche lui lʼautobus. Una mattina mi colse a dire il rosario fuori dai cancelli in attesa che aprissero. Mi raccontò della sua conversione e subito tra noi si formò un legame basato su Dio. Una domenica, per dire, siamo stati a visitare un famoso santuario insieme.

P. ora è in ferie. Oggi mi hanno dato la sua zona. Mi sono reso conto che odio la sua zona. E mi sono reso conto che allʼinizio non odiavo la sua zona. Prima che diventasse definitivamente la sua zona, ossia prima che fosse assegnata definitivamente a lui, la amavo. È una zona residenziale con poco traffico, non si impazzisce tanto a farla.
Oggi invece la odio. Perché? Perché so che non sarò mai in grado di farla velocemente come lui. Questo me la rende odiosa.

Tempo fa P. ha scoperto che cʼera gente che gli parlava alle spalle. Si è confidato con me e mi ha detto di esserci rimasto male. Mi ha detto: “Forse è colpa dellʼinvidia”. Io gli ho detto: “Ti tocca. Sei il più bravo. Devi portare questo fardello”.
Non lʼha presa bene. Secondo me non gli è piaciuto ciò che ho detto. Per un poʼ, nei giorni successivi, non mi ha guardato con sorriso. La mia frase era di fatto una mezza confessione, che provavo invidia nei suoi confronti, e speravo che da amico comprendesse. Glielʼho detto a cuore aperto.
È difficile per noialtri, che non siamo bravi come lui, andare al lavoro tutti i giorni. Se fossero tutti come lui, per me, o per altri, non ci sarebbe posto di lavoro. Son cose serie, son cose che fanno pensare.
Oggi P. mi sorride di nuovo. Spero abbia capito quanto è difficile gestire uno come lui sul posto di lavoro.
Eppure so di essere una persona orribile. So che dovrei imparare solo ad ammirarlo, senza invidiarlo. E se non sono in grado di stare al passo, cavoli miei, mi sia tolto il posto di lavoro.
In termini di principio, se ci penso, se penso che hanno crocifisso Gesù per invidia, e se penso alla posizione che rivesto io in questa storia e alla posizione che riveste P., so di essere dalla parte del torto. Dovrei semplicemente ammirarlo, cercare di imparare da lui e impegnarmi per cercare di avvicinarmi ai suoi risultati.

Però non riesco a cancellare il fatto che odio la sua zona e odio quando mi tocca farla. E di fatto lʼamicizia con P., con presupposti posti da Dio stesso, non è mai decollata.

Lʼaltro caso di invidia riguarda Larry David, co-creatore di Seinfeld negli anni ʼ90 e creatore di Curb your enthusiasm. Ho appena comprato su Amazon il dvd box con tutte e nove le stagioni di Curb your enthusiasm. Ho appena finito di vedere la prima stagione. Mi rendo sempre più conto che Larry David è un genio.
Larry David è davvero geniale. Rosico di invidia nei suoi confronti. Io non sono altro che un misero corriere, e non faccio nemmeno bene il mio lavoro. Larry David ha avuto il coraggio di vivere gli anni in cui non aveva lavoro e di mettersi a scrivere. Ha tenuto testa ai propri genitori, contrarissimi alla sua carriera di scrittore. È vero che ha avuto Jerry Seinfeld ad aiutarlo. Io non sono mai riuscito ad avere lʼappoggio di nessuno, semplicemente perché non sono mai riuscito ad avere lʼamicizia di nessuno.

Ma lasciamo perdere lʼamicizia, un altro argomento che dimostrerebbe che sono una persona orribile. Per il momento lascio da parte anche Larry David, perché è un capitolo a parte.

Pensiero da scrittore da quattro soldi

Ieri al Penny Market ho comprato un pezzo di focaccia con cipolla che faceva raramente schifo.

Nel senso che raramente ho mangiato una focaccia così schifosa.

Ciò che conta è il gusto

Una cosa che mi è venuta in mente stasera è il film The prisoner of Second Avenue. Commedia di Neil Simon, film con Jack Lemmon e Anne Bancroft.
Dovrei seriamente procurarmi le commedie di Neil Simon. Sono stufo di vedere i film che non sono altro che commedie macellate, fatte a pezzi. Voglio leggere gli originali.
The prisoner of Second Avenue parla di un uomo che viene licenziato. La moglie, che prima faceva la casalinga, trova lavoro e finisce per portare a casa la pagnotta al posto suo.
Non ricordo altro. Dovrei rivederlo il film.
Non è che sia un film stratosferico, però ha quel tipico gusto simoniano che amo tanto. Neil Simon ha un buon tocco. Come Woody Allen.
Woody Allen specialmente nei cosiddetti anni della maturità. Dopo che è diventato vecchio non cʼè stata più la corsa allʼoro di quando era giovane. Però anche un film come Annie Hall, quanta genuinità. Una commedia romantica che finisce coi due che si lasciano. Quanta lontananza dagli schemi hollywoodiani.
Cʼè tanta genuinità in Neil Simon. È uno che si mostra così comʼè. Senza paura di piacere per forza al mondo di Hollywood.
Decisamente, la prossima cosa che cerco su Amazon è un libro con una raccolta di commedie di Neil Simon. Voglio vedere almeno The odd couple, Biloxi Blues, The prisoner of Second Avenue e The heartbreak kid come sono originariamente, prima che gli sceneggiatori dei film le hanno cambiate nel fare lʼadattamento.
Vediamo se trovo la versione Kindle, scaricabile sul telefono.

Trovate:
The Collected Plays of Neil Simon. Volume 1
The Collected Plays of Neil Simon. Volume 2
The Collected Plays of Neil Simon. Volume 3
The Collected Plays of Neil Simon. Volume 4
Costano un poʼ. Devo pensarci.

Che vicino orribile

Ho provato a mettermi a guardare un film, A walk to remember, ma gli auricolari bluetooth sono scarichi, perciò ho dovuto metterli in carica e ho dovuto smettere di guardare il film. Tanto già dallʼinizio posso dire che è un film che non mi piace. Ne ho piene le palle di film adolescenziali. È che quando si cercano su internet liste di romcom vengono fuori parecchie storie dʼamore ambientate negli anni dellʼadolescenza. Ormai sono troppo vecchio per interessarmi di dinamiche adolescenziali. Anche se è vero che lʼamore non ha età. Però forse dovrei puntare più sulle vecchie commedie romantiche in bianco e nero.

La cosa peggiore del fatto che gli auricolari bluetooth siano scarichi non è non poter guardare il film, ma non potermi isolare dai rumori esterni.
I rumori esterni sono i miei vicini che passano il tempo nel loro spazio allʼaperto, che è appena fuori dalla mia porta. E il tempo che i miei vicini passano nel loro spazio allʼaperto spesso lo passano parlando. Il vicino, ossia il padre di famiglia, quando non ha ospiti o amici con cui parlare parla al telefono. Va a finire che cʼè sempre un rumore di sottofondo fuori dalla mia porta. Sta diventando una cosa insopportabile, specialmente se la sera voglio mettermi a leggere o scrivere.
La soluzione abituale è ascoltare musica (Mozart, Haydn, gregoriano) con gli auricolari bluetooth, ma in occasioni come questa non mi resta che prendere due strappi di carta igienica, inzupparli dʼacqua e improvvisare tappi per le orecchie. Ma le voci si sentono anche attraverso i tappi per le orecchie, a volte.

Io naturalmente non ho uno spazio allʼaperto perché ho un misero monolocale.
E soprattutto, a questi vicini di casa non si può dir niente perché hanno una bambina malata di leucemia. Sono una giovane coppia ucraina, e sono venuti a vivere nella città in cui vivo perché la città in cui vivo è famosa per le cure contro la leucemia infantile.
Sono entrambi pittori, quindi non schiodano mai, tranne quando vanno in ospedale.

Che altro posso dire? So di essere una persona orribile. Aspetto un fulmine dal cielo da un momento allʼaltro.
È evidente che questa è una famiglia che ha sofferto e soffre terribilmente. Solo negli ultimi mesi a V., la bambina, sono ricresciuti i capelli. Ultimamente sta meglio, ma so che le cure che ha fatto lʼhanno fatta soffrire tanto. Ogni tanto ha delle febbri.
È una famiglia a cui è permesso tutto. A me toccano solo dei gran tappi per le orecchie.
A loro, con tutto quello che passano, tocca pure un vicino come me.

Far ridere e ridere e basta

Una cosa di cui non sono minimamente capace è l'umorismo. È una cosa che mi rattrista parecchio, perché adoro umorismo e commedia. Anzi, non faccio altro che guardare commedie. La commedia è senza dubbio il mio genere preferito.

Ci sono persone con cui parlo quotidianamente, che hanno quotidianamente la capacità di fare battute. Fanno battute su qualsiasi cosa e ne fanno in continuazione. Ascolto, ma a me non viene in mente niente.

Guardo tonnellate di commedie.
Ho il dvd box di Friends e di The Phil Silvers show.
Se guardo un film, guardo una commedia. Per lo più guardo commedie romantiche, che in inglese chiamano “romcom”.
Su Youtube guardo tonnellate di spezzoni di sitcom. The office, Cheers, Frasier, Seinfeld, Curb your enthusiasm, Married with children, Parks and recreation, Leave it to Beaver... 
Mi sono appena svenato e ho comprato il dvd box di The office e di Curb your enthusiasm su Amazon. Arriveranno a settembre. Potrò vedere le puntate intere.
Guardo anche la cosiddetta “stand up comedy”, la commedia in piedi. Guardo la stand up comedy di Woody Allen quando era giovane.
Ho appena scoperto Rodney Dangerfield con le sue cosiddette “one-liners”, ossia battute da una riga. Sono tutte battute con “set up” e “punch-line”. Ad esempio:

I told my wife the truth. I told her I was seeing a psychiatrist. Then she told me the truth. That she was seeing a psychiatrist, a bartender and two plumbers. 
Ho detto a mia moglie la verità. Le ho detto che stavo vedendo uno psichiatra. Allora lei mia ha detto la verità. Che stava vedendo uno psichiatra, un barista e due idraulici.

Ho anche un libro con le commedie di George S. Kaufman. Ne ho letta una. You canʼt take it with you (da cui il film di Frank Capra che in italiano sʼintitola Lʼeterna illusione).

Insomma, la commedia la capisco. Le battute le capisco. In generale mi faccio grandi risate.
Ma non riesco a essere umoristico. Non riesco a pensare a battute.
È vero che gli scrittori comici dicono che pensare e scrivere battute è molto più difficile di quello che si pensa. Magari se mi sedessi e provassi a pensare e a scrivere battute, come fanno i professionisti, riuscirei a produrre qualcosa.
Però è anche vero che, come ho detto, ci sono persone che snocciolano battute quotidianamente, nelle normali conversazioni.
Cosa vorrà dire, sulla mia persona, la mia incapacità di fare battute? È mancanza di arguzia? È mancanza di intelligenza? Son cose che mi chiedo.

Lodare se si può

Da quando ho letto Simposio di Platone ho imparato a fare la distinzione tra elogio, biasimo, adulazione e insulto.

Il passaggio che mi ha ispirato tale distinzione è verso la fine, nel discorso di Socrate.

In Simposio ci sono sette discorsi. Parlano, in questʼordine, Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate e Alcibiade. Ciascuno è chiamato a fare un elogio di Eros.
La sera prima avevano partecipato alla festa in onore della vittoria di Agatone alle gare di tragedie, e tutti avevano bevuto assai. Ritrovatisi a casa di Agatone la sera dopo  la sera cioè in cui sono avvenuti i fatti registrati in Simposio – gli amici decidono di non continuare a bere perché sono tutti più o meno rintronati e col mal di testa, e decidono invece di intrattenersi con discorsi. A turno, girando verso destra, ciascuno deve fare un elogio di Eros.
Alcibiade arriva alla fine. È completamente ubriaco. Beve ulteriormente. Dice di non voler fare lʼelogio di Eros, ma di Socrate.
(Ma lasciamo perdere Alcibiade, anche se il suo discorso va letto se si vuole capire qualcosa su Socrate).

Socrate, quando è il suo turno, fa una puntualizzazione su cosa è elogio. Dice, cioè, che è dire la verità in positivo su qualcuno o qualcosa, tralasciando le cose negative. Dice di non essere capace di fare un elogio di Eros come li hanno fatti gli altri, che erano delle esagerazioni  quindi delle adulazioni  piene di dettagli non verificati, e si ripropone di non far altro, su Eros, che dire la verità.
(Suggerisco a chiunque di leggere Simposio nella traduzione di Giovanni Reale, in particolare il discorso di Socrate, per capire cosa e chi è Eros).

Ho costruito questo schema basandomi sulle parole di Socrate su cosa è elogio.


elogio equivale alla lode. Il biasimo equivale al rimprovero.
Adulare significa dire qualcosa di falso in positivo su una persona, tipo: “Sei il più grande artista di questa generazione!”. Insultare significa dire qualcosa di falso in negativo su una persona, tipo: “Sei una merda!”. Ma nessuno è merda, o un cane, o qualcosa di peggio, perché siamo carne e ossa e siamo uomini.