Problemi di etica, vita buona, religione e Vangelo

In Platone e Aristotele i problemi di etica sono affrontati nel dettaglio. Ci sono analisi dei tipi di piaceri, dei tipi di dolori, di cosa significa assenza di piaceri e di dolori, di cosa è scienza, di cosa è conoscenza e dei benefici che apportano allʼanima. Si fanno, in questi autori, su tutte queste cose grandi ragionamenti per stabilire in quali quantità ciascuna di queste cose deve essere presente nella vita perché la vita si detta buona.

NellʼAntico Testamento la vita buona è lʼosservanza delle leggi mosaiche.

Nel Nuovo Testamento la vita buona è lʼosservanza del “nuovo comandamento”: amare. “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34).

Nella Bibbia nel suo insieme la vita buona si riassume nel concetto di “fare la volontà di Dio al posto della propria”.
Dio è ragione, logos, intelligenza, lui sa cosa è meglio per noi, lui ragiona meglio di noi, la sua volontà è migliore della nostra, per cui il comandamento generale del “fare la volontà di Dio”, “obbedire a Dio” è valido.

Gesù ha semplificato tutto, ha dato un comandamento solo. Volontà di Dio for dummies: amare.

Amare uguale dare.

Così come rinnegare la propria volontà è un esercizio, un allenamento, nellʼarte di fare la volontà di qualcun altro, e quindi più o meno ne è lʼequivalente; allo stesso modo, siccome il dare costituisce per forza un privarsi, allora se noi ci priviamo di cose (abiti, soldi, carne addosso al corpo, energie, beni di qualsiasi tipo, come lʼintelligenza o la sanità mentale), ciò ci porta a fare la volontà di Dio, ossia a obbedire al comandamento unico dellʼamore

San Francesco è uno di quelli che nella vita hanno seguito il principio del privarsi in quanto speculare al dare.

“Tutto è compiuto!” (gr. “τετέλεσται”, lat. “consummatum est”, Gv 19, 30). Quando non si ha più nulla, cioè quando si è morti (il corpo non ha più forze per sostenere lʼalito, lo spirito, la vita) si è adempiuta appieno la volontà di Dio.

Arrivare a sera senza avere più forze per alzare un dito e crollare dal sonno è un buon modo per prendere su di sé la “croce quotidiana” (cf. Lc 9, 23). Non importa a chi è diretta la fatica. Lʼimportante è che sia un privarsi, che equivale specularmente al dare.
Non importa a chi do la mela. Lʼimportante, per la mia salvezza, per la mia entrata in Paradiso, è che io non ho più la mela per me. Ecco lʼimportanza di fioretti, penitenze, sacrifici. 

Per il principio dellʼentropia (nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si conserva e si trasforma) la mela a cui ho rinunciato arriverà un giorno a qualcun altro in qualche forma. 

Il passo evangelico su Lazzaro in Paradiso accanto ad Abramo è da accostare al verso della Prima lettera ai Colossesi in cui San Paolo dice: “ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce” (1Col 1, 12).

C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi». (Lc 16, 19-31)

Il tutto è da accostare a questo passo di Fedone (dialogo platonico), in cui Socrate si augura di andare, dopo la morte, in un luogo in cui ci sono grandi uomini.

«Questo mi pare naturale – disse Cebete. Ma quello che poco fa affermavi, cioè che i filosofi dovrebbero volere di buon animo la morte, a me pare insensato, vale dire che il dio è colui che ha cura di noi e che noi siamo suo possesso. Infatti, che gli uomini più saggi non si rammarichino di uscire da questo servizio in cui sono tutelati dai migliori tutori che esistano, quali sono appunto gli dèi, è cosa che non ha senso. Né si può credere che uno sia convinto di provvedere a se stesso con maggior vantaggio, una volta liberatosi da quel servizio. Un folle potrebbe credere questo e pensare che si deve fuggire dal padrone; e solo un folle non penserebbe che non si deve fuggire dal padrone buono, ma che, anzi, conviene rimanere con lui, e che, fuggendo, si commetterebbe una follia. Invece chi è saggio desidera stare sempre accanto a chi è migliore di lui. Ma, se si ragiona così, risulta naturale esattamente il contrario, Socrate, di quello che prima si diceva, ossia che ai saggi conviene rammaricarsi della morte, agli stolti rallegrarsene».
Socrate, udito questo, mi parve compiacersi di quella vivace argomentazione di Cebete, e, rivolgendo verso di noi lo sguardo, disse: «Cebete tira sempre fuori ragionamenti nuovi e non si lascia mai convincere immediatamente da quello che uno gli dice».
E Simmia: «Ma questa volta, Socrate, sembra anche a me che Cebete abbia qualche ragione: perché mai uomini veramente sapienti si sottrarrebbero a padroni migliori di loro e se ne andrebbero lontano da essi così facilmente? E mi sembra che Cebete rivolga il suo ragionamento proprio a te, che sopporti così a cuor leggero di abbandonare sia noi, sia quei buoni governanti, che sono, come tu dici, gli dèi!».
E Socrate rispose: «Dite cose giuste! Credo, infatti, che voi vogliate dire che io, di fronte a queste obiezioni, mi debbo difendere come se fossi in tribunale».
«Proprio così», disse Simmia.
«Ebbene – disse Socrate –, cercherò di difendermi davanti a voi in modo più persuasivo che non davanti ai giudici. Se, io Simmia e Cebete, non credessi veramente di andare, innanzi tutto, presso altri dèi sapienti e buoni, e, poi anche presso uomini morti, migliori di quelli di qui, avrei torto a non rattristarmi della morte. Ma sappiate bene che io spero di andare presso uomini buoni, anche se questo non mi sentirei di sostenerlo con sicurezza. In ogni modo, che io debba andare presso dèi, padroni sommamente buoni: ebbbene, sappiate che, se mai cʼè qualcosa che fermamente io mi sentirei di sostenere, è proprio questo. È proprio per questo che io non mi rattristo come gli altri, ma ho ferma speranza che per i morti ci sia qualcosa, e che questo, come si dice già dai tempi antichi, sia qualcosa di molto migliore per i buoni che non per i cattivi».
La via cristiana è la via per chiunque, in particolare per i piccoli. I piccoli dicono: come faccio a conquistarmi il Paradiso, io che non sono in grado di compiere grandi opere? Non importa compiere grandi opere di bene. Lʼimportante è privarsi di tutto ciò che si ha.

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