Paraparesi spastica (5) – Natale con Ursmara

Riassunto delle puntate precedenti. Dato che Ursmara deve curarsi, decide di rintracciare Braulio e lasciargli la figlia Galdina. Braulio è un poliziotto della sezione investigativa; da ragazzo aveva lasciato Ursmara appena saputo che era incinta. Galdina è nata con una malattia congenita chiamata paraparesi spastica, ma è molto intelligente e alla stazione di Polizia aiuta papà a risolvere i casi più complessi. Uccio, il cane di un donna investita da un pirata stradale, è ora parte della famiglia.

Ciao Ursmara, buon Natale, spero la tua malattia stia andando meglio...
In che senso...?
Intendevo... che il tuo seno stia andando meglio...
Di nuovo... in che senso?
Cioè, vorrei che tu avessi un seno... ehm... bello... ehm... come dire... sod... cioè... sano!
Grazie... me ne hanno tolto uno...
Per caso, come a Sansone, è venuta via anche la simpatia?
Senti, non ho voglia di scherzare. Sto facendo la chemioterapia, sto perdendo i capelli, sono senza il seno destro...
Hai ragione, scusami. Cercavo solo di rompere il ghiaccio.
Cambiamo argomento. Come sta Galdina?
Bene! Adesso arriva, è in bagno. Grazie a lei abbiamo arrestato una banda di cinque uomini, colpevoli di tentativi di estorsione nei confronti di alcune aziende vinicole del livornese. Le aziende avevano ricevuto le estorsioni in forma di email criptate. È stato il gruppo informatico a individuare da dove provenivano le connessioni anche se erano protette da VPN, ma è stata Galdina a suggerire di controllare tutte le ricerche fatte sul web relativamente ad aziende agricole. Con questo trucchetto siamo risaliti al colpevole!
Ci credo, stava sempre al computer quand’era a casa! Come va a scuola?
Ehm...
Braulio...
Cosa posso dire? Di pomeriggio è sempre qua alla stazione di polizia! Preferisce interessarsi ai casi che fare i compiti!
Preferisce lei interessarsi ai casi o sei tu che glieli metti sotto il naso?
È lo stesso, ha un fiuto innato, capisce subito quando c’è qualcosa che non va... tutti le vogliono bene!
Braulio, anche se Galdina da grande volesse fare la poliziotta, o l’investigatrice, dovrebbe comunque studiare, non credi?
Cercherò di farle fare i compiti. Ma perché non glielo dici tu stessa? Eccola.
Ciao mamma! Buon Natale!
Ciao piccola, buon Natale! Sai che se vuoi diventare poliziotta e risolvere i casi con papà, devi studiare, vero?
Certo, mamma!
Allora perché non fai i compiti?
Mamma, devo dirti una cosa... papà non è molto sveglio, sai? Fa parte del nucleo investigativo, ma se non lo aiuto non capisce niente! Per non parlare della totale ignoranza in fatto di computer!
Va bene, puoi aiutarlo, l’importante è che non resti indietro coi compiti.
Dì ciao a Uccio.
Ciao, Uccio. Buon Natale.
Bau, bau!

Giovanni, incarnazione del fiume Giordano

La seconda lettura intende la catarsi in senso allopatico, come purificazione subita dalle passioni stesse, in quanto “bellamente” rappresentate e viste da lontano come passioni degli altri, attraverso lo sguardo freddo di uno spettatore che diventa occhio puro e disincarnato. (U. Eco, “La Poetica e noi”, in Sulla letteratura, 2002)


Da dove partire per scrivere quando non si ha niente da scrivere? Dallo scrivere che non si ha niente da scrivere.

Il tentativo di trovare qualcosa da scrivere dev’essere una specie di attesa (ispirazione) o una specie di ricerca?

C’era quell’insegnante di scrittura, un certo White, studiato nelle università americane, che in un libricino diceva che la scrittura è simile alla caccia. “Bisogna sparare a molti bersagli di cartapesta prima di cogliere un uccello in carne e ossa”.

È una mia parafrasi. Significa che lo scrittore non scrive solo quando ha l’ispirazione, scrive sempre. Quando l’ispirazione arriva, ci sarà quel fuoco, quel trascinamento, quella forza che porta avanti, quel fluire di idee, quello sciorinare parole come fiume.

A proposito di fiume. Un argomento che mi interessa. Il battesimo di San Giovanni Battista. Non è un caso che si dica, nella Scrittura, che Giovanni battezzava presso il fiume Giordano. Giovanni è il fiume Giordano. Il suo battesimo è un fiume di parole attraverso il quale si deve passare. Mai provato a leggere i Proverbi della Bibbia? O la Sapienza? O il Siracide? Sono serie di ammonimenti, liste di comportamenti... In molti di essi ci si ritrova, in molti no. Quelli in cui ci si ritrova, per così dire, toccano. Ad esempio, un comportamento condannato come negativo. Se trovo che lo commetto, subito mi tocca. Naturalmente bisogna riconoscere autorità alla Parola di Dio. Da dove ricavava Giovanni la sua autorità? Dalla sua vita austera e ascetica. 

Prendiamo, ad esempio, per non far riferimento sempre alla Bibbia, qualcuno che parla di azioni riprovevoli. Cosa deve fare per avere autorità e far sentire in colpa al nominare una data azione? Deve non commetterla lui per primo. “Mangiate troppo”. Ma se è un panzone, l’accusa non avrà forza e nessuno vi darà peso. Se, invece, a dire: “Mangiate troppo” è Pannella dopo sei mesi di sciopero della fame, o Ghandi, allora il monito risuonerà nelle anime. “Non avrà mica ragione? Se lo fa lui, perché non posso farlo anch’io?”.

Ecco il cosiddetto: “battesimo di penitenza per la remissione dei peccati” di Giovanni (cf. Mc 1, 4). Ascoltare uno così, uno cioè che ha autorità, uno che per primo non fa le cose che condanna, è come fare la doccia. Le sue parole avranno forza. Le sue parole toccheranno.

Ho sperimentato spesso l’effetto purificatore dell’ascolto di una persona del genere. In più Giovanni era un fiume, aveva una capacità di parlare pari a migliaia di parole al secondo. Dico per dire, è un’iperbole. Si immagini uno che parla, parla, parla. E in più ha autorità. E in più conosce a memoria la Scrittura, quindi le leggi, i comportamenti, che propone e promulga; e che nel parlare ha fatto suo il modo di parlare della Scrittura, ad esempio le Lamentazioni, o le imprecazioni profetiche, o il linguaggio apocalittico. Ecco uno capace di scuotere le coscienze della gente. Ecco chi andavano a trovare, al fiume Giordano, gli israeliti.

Prendiamo il Vangelo di oggi. Dice: “Avete fatto tutto ciò che dovevate fare. Siete servi inutili”. Per dire: “Siete utili solo se fate qualcosa in più. Ma se fate semplicemente il vostro dovere, state semplicemente applicando la giustizia. Se non fate neanche il vostro dovere, quello è il problema grosso. Se fate il vostro dovere, siete servi inutili. Se fate qualcosa in più, oltre ad aver fatto il vostro dovere, state praticando la carità, siete cioè servi utili” (cf. Lc 17, 10).
All’ascoltare questo Vangelo, dico: “Il mio dovere è il mio lavoro, più tenere pulita la casa, più farmi da mangiare. Il lavoro lo svolgo ma non con gran voglia, la casa necessita di una passata ai pavimenti da settimane, che non riesco a trovare la voglia di fare, prepararmi da mangiare… be’, compro spesso roba pronta, formaggi, salumi, ecc.”. Ecco come una parola che ha autorità risuona nella vita. Fa pensare: “Ma io queste cose le faccio? Sono un servo inutile o utile?”. C’è da dire che qualche opera di carità l’ho fatta. E a causa di ciò giro su un’auto di vent’anni. Gesù dice che un gesto di carità sincero cancella molti peccati. Questo per dire che a volte uso l’utilità (fare la carità) per coprire la mia neanche-inutilità (il fatto che non arrivo nemmeno a compiere bene il mio dovere, che pecco).

Le parole sono acque. Le parole sono cibo, quindi sono anche bevanda. La bevanda non è forse un alimento? Se è alimento, è una forma di cibo. “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4).

Ascoltare uno come Giovanni Battista è come fare la doccia. Mi è capitato, dopo discorsi del genere, di sentirmi più leggero, purificato. Tutte le parole che toccano, in qualche modo rimuovono il peccato commesso. Mai provato a parlare con un amico, o con uno psicologo, di un problema che si ha, magari di un vizio che non si riesce a superare, e di sentirsi, alla fine, più leggeri? Secondo me ogni volta che si porta una problematica alla luce mediante la parola si fa il primo passo per rimuoverla.

Il problema che resta a questo punto è come distinguere questa remissione dei peccati da quella operata da Gesù.
In un caso abbiamo un uomo che, per quanto santo, è pur sempre uomo e non può perdonare i peccati.

L’unico che può perdonare i peccati è Dio. Perché? “Contro di te, contro te solo ho peccato” (Sal 51, 6). Se faccio male a un uomo faccio male a tutti gli uomini. Se faccio male a tutti gli uomini faccio male a tutte le creature. Se faccio male a tutte le creature faccio male al creato. Se faccio male al creato faccio male a qualcosa che ha fatto Dio. Se faccio male a qualcosa che ha fatto Dio faccio male a Dio. Non si può far male a Dio, però è certo che se parcheggio sul posto degli handicappati non faccio male solo all’handicappato che lì non potrà parcheggiare, né alla categoria degli handicappati presa nell’insieme, ma alla società intera, perché violo una legge. Violando una legge faccio male allo stato. Siccome il principio della legge viene da Dio, se violo la legge sto facendo qualcosa contro Dio. Il peccato, non importa contro chi lo commettiamo, è sempre contro Dio. Ecco perché Dio è anche l’unico che ha il diritto di perdonare.

Resta qualcosa di problematico. Dio è l’unico che ha il diritto di perdonare, o è l’unico che ha il potere di perdonare? Non mi riferisco al problema del Sacramento della Confessione affidato ai sacerdoti, i sacerdoti sono estensione di Gesù, agiscono: “In persona Christi”, sono Gesù quando danno l’assoluzione; mi riferisco al fatto che se un uomo commette un peccato contro un altro uomo e quest’ultimo lo perdona, secondo me, mi viene da dire, il peccato è perdonato e chi l’ha commesso non merita più il castigo. Ma questa è un’idea di cui parla Socrate in un dialogo, non ricordo quale. Forse alla fine di Fedone, dove c’è uno dei più importanti miti escatologici mai messi su carta, una rappresentazione dell’aldilà mediante immagini in cui, se non ricordo male, si dice che coloro che giacciono nelle parti più basse, a causa di un delitto commesso contro qualcuno, non possono risalire se quel qualcuno non li perdona.

Il Vangelo è chiaro su questo punto. Solo Dio può perdonare i peccati. Perché, perché, perché? Cosa faceva, allora, Giovanni Battista? Cosa credeva di fare?

Sono in aporia. Aiuto. 

Lo scontro fisico

Qualche giorno fa ho fatto un errore con un collega bestemmiatore e ne ho pagate le conseguenze.
Chi è il più grande bestemmiatore? Il diavolo. Il diavolo è colui che odia più di tutti Dio, lo insulta e dice le più grandi falsità su di lui. Il bestemmiatore si fa portavoce del diavolo; dice, cioè, le stesse cose del diavolo; facendosi portavoce del diavolo, si fa suo servo.
Il diavolo, “principe di questo mondo” (cf. Gv 12, 31; 16, 11), promette e dà ai suoi servi grandi doni.

Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai» (Mt 4, 8-9)

Nel mio ambiente di lavoro c’è forte competizione, è sempre stato così.
La cosa più rattristevole è che la competizione non la vedi solo nell’effettivo svolgimento del lavoro. A causa del sistema degli aiuti, cioè del fatto che se non riesci a chiudere la rotta ricevi aiuti dai colleghi che l’hanno chiusa, le prestazioni quotidiane sono presto conosciute.
È importante anche l’orario di rientro. I cancelli aprono alle 18,30: sei uno di quelli che sono fuori mezz’ora in anticipo e aspetti in coda prima che aprano, o rientri dopo le 18,30, magari non una sola volta ma sempre?
Le voci girano. Se sono già rientrato, ho già fatto il debrief (restituzione pacchi non consegnati) e ho già parcheggiato, guardo in faccia, attraverso il parabrezza, tutti quelli che arrivano, anche se per pochi minuti, dopo di me. È un modo per dire: “Sono arrivato prima io”.
La cosa decisiva è la timbratura serale. Chi timbra per primo? Chi, per primo, è pronto a partire con la macchina per andare a casa? Sei uno di quelli che tengono il responsabile furgoni che ritira le chiavi ad aspettarti fino alle 19,00, 19,30, o alle 18,35 hai già timbrato e mentre te ne vai con la macchina guardi negli occhi, attraverso il parabrezza, i colleghi che rientrano col furgone?
Pur di far vedere che si è arrivati prima, si fa a gara persino nella coda per il debrief o nella coda per timbrare.

Il collega bestemmiatore, V., è uno, per dire il tipo, che una mattina mi ha spostato la mano mentre stavo per timbrare, primo arrivato, per timbrare prima di me.
È uno che, la sera incriminata, siccome ero davanti a lui al rientro, con la scusa implicita che vuole timbrare prima di tutti per andare a casa, mi camminava dietro e metteva pressione mentre andavo piano perché stavo parlando con una collega. Ci mancava solo che mi facesse i fari, da dietro, peccato che eravamo a piedi.
Sta di fatto che, sentendo la pressione che metteva alle spalle, ho dovuto scansarmi per farlo passare. Non importa che quella sera era rientrato dopo di me, lui deve timbrare prima.

Volendo, coi colleghi non c’è neanche necessità di parlare.
Quando arrivo sul posto di lavoro consegnano le chiavi e bisogna sbrigare una serie di attività per la cosiddetta presa in carico del furgone. Controllare i danni, segnare tutto su un apposito foglio, compilare il giornale di bordo, data, nome, cognome, numero di rotta, targa, chilometri alla partenza, firme qua e là... Quattro foto al furgone, davanti, dietro, lato destro, lato sinistro.
In un quarto d’ora si è pronti a partire, cioè, quando si è chiamati col megafono, si esce dal parcheggio e si entra nella zona di carico. In dieci minuti si caricano dai 150 ai 200 pacchi, già preparati in borse numerate, e 40 minuti dopo aver timbrato si sta già uscendo verso la prima consegna.
Per parlare davvero coi colleghi bisogna fermarsi la sera o organizzare la classica pizzata.

Sono anni che sopporto colleghi convinti di essere più bravi che mettono pressione nel magazzino e nel parcheggio se per caso si trovano dietro.
Non si tratta solo di competizione. Secondo me c’è malattia mentale. Forse tutto si spiega tenendo presente che uno è un bestemmiatore
Etichettano un collega con l’etichetta scarso e da quel momento non accettano rietichetizzazioni. Sono loro i più bravi. Non sopportano di vedere rientrare uno scarso prima di loro. Per cui, anche se lo scarso è rientrato prima, fanno di tutto per passargli davanti al debrief o nel parcheggio sorpassandolo (sic!) o alla macchinetta della timbratura.

La sera incriminata, quando ho lasciato passare V. che metteva pressione alle spalle, al momento di timbrare è lì che si lamenta col responsabile furgoni del fatto che deve scrocchiarsi la schiena o che gli si scrocchia la schiena o qualcosa del genere: “Sai cosa dovresti farti scrocchiare, tu?”, mi esce mentre timbro.
“Ma vaaaffanculo!”, dice puntadomi contro la mano, probabilmente sentendosi attaccato davanti a tutti. Poi prende il mio braccio molle, dato che non oppongo resistenza, e lo mostra a tutti: “To’, guarda qui!”, come per dire: “Non sarebbe in grado di fare male a nessuno”. In effetti non ho mai fatto a botte né partecipato a risse. Non facendo ginnastica né pesi, sono piuttosto debole.

Ecco la reazione, ecco le cattiverie di cui è capace un bestemmiatore. Mi sono sentito ferito e umiliato. Ha toccato a perfezione i punti deboli. Naturalmente ho sbagliato a iniziare.
Oltre a essere un bestemmiatore è ultraquarantenne single, ex-tossicodipendente, ha sempre fatto l’operaio e ora fa il corriere. È un uomo che non può sopportare che gli si metta i piedi in testa. Non può sopportare un’umiliazione, ha spesso attacchi d’ira. Non ha niente, non può permettersi che gli si tolga anche il niente che ha, ossia la rabbia e la certezza che in uno scontro fisico avrebbe la meglio. 

Intervista doppia

EDMONDO: Mia madre, Augustine Mbewe, è dello Zambia, suo padre è giornalista, in casa c’era un pianoforte, a 16 anni vagheggiava le sale da concerto, si impegnava nello studio sperando di essere accettata in una università occidentale, a 18 anni perse la madre per tumore, a 20, a causa del colpo di stato, le incarcerarono padre e fratello, non le restò che mettersi in viaggio. Attraversare l’Africa fu facile. Passando per la Siria riuscì, usando tutti i soldi che aveva, a imbarcarsi per l’Italia. Durante il viaggio fu violentata. Approdò in Italia. Fuggendo dal centro di raccolta, riuscì a raggiungere il nord dove trovò lavoro come addetta alle pulizie nella provincia di Treviso.

ANSANO: Dopo quasi 15 anni, quando ormai era un’istituzione nell’azienda, la mandarono a fare pulizie industriali presso la Casali Marmi Srl di Casaloldo sul Brenta. Era una pulizia straordinaria, bisognava rimuovere la polvere di marmo dai macchinari, dalle pareti, dai soffitti. Rassegnata, come al solito, al proprio destino, Augustine si mise a lavorare di buona lena assieme a cinque colleghi e in un giorno finirono tutto. Elvio Casali, figlio del fondatore, fu soddisfatto del lavoro, rimase colpito da come lavorava di lena quella donna di colore che aveva sotto di sé cinque persone. Era un po’ in carne, un po’ culona... ma fu colpito proprio dall’etica lavorativa. Per gli uomini della bassa come mio padre la professionalità è tutto.

EDMONDO: Alle 20,00 Elvio decretò che poteva andar bene. Chiese alla squadra se gradisse un aperitivo. Accettarono tutti, tranne Augustine che doveva guidare. Ordinò una Coca Cola e non rifiutò focaccine e tartine portate con gli aperitivi. “Complimenti! Fate un ottimo lavoro. Sono soddisfatto di voi! Facciamo questo tipo di pulizie ogni due anni, non è proprio necessario, siamo abituati a vivere nella polvere. Serve più che altro per i macchinari... Però vi assicuro che la prossima volta chiamo voi!”. “Grazie, troppo gentile!”, disse Augustine in un italiano perfetto. “Lo diremo al nostro capo”.
“Vi assumerei a fare i marmisti nella mia azienda, se potessi, ma credo non accettereste”. “E perché dovresti assumerci?”, chiese incuriosita Augustine. Elvio si fece rosso... “Mah, così... lavorate sodo...!”.

ANSANO: Augustine e il gruppo rincasarono, quella sera, alle 22,00. Capitava, ogni tanto, a chi faceva le pulizie straordinarie. C’era il giorno in cui si lavorava dalle 8,00 alle 14,00 e il giorno in cui si lavorava dalle 6,00 alle 20,00. Lo stipendio era forfettario, non variava in base alle ore, però coloro che facevano le pulizie straordinarie dovevano essere pronti a tutto, ogni giorno. A volte, ad esempio, bastava una mezza giornata a una squadra di sei persone per pulire un centro scommesse; altre, per una piscina, occorrevano due giorni. Augustine si trovava bene a far la straordinaria, non aveva altro nella vita a parte il lavoro, e l’avanzamento di carriera le aveva permesso di mettere da parte abbastanza soldi per poter un giorno aiutare, come sperava, i suoi in Africa.


EDMONDO: La mamma con la sua utilitaria la domenica andava a fare la spesa al Bennet del centro commerciale Campo Grande fuori Treviso, dove faceva la spesa per l’intera settimana. Una domenica, verso le 10,30, al Bennet mia madre riconobbe mio padre, Elvio. Lo guardò un po’, mentre girava nel reparto casalinghi con una ragazza che avrebbe potuto essere sua figlia, per un attimo se ne disinteressò. Era solo un ex-committente, cosa importava? O forse avrebbe fatto meglio a scambiarci due chiaccherere, che so, per assicurare committenze future...? “Buongiorno, signor Casali!”. Elvio fece un salto. “Augustiiine! Non posso crederci, è lei? Allora è vero che abita a Treviso!”. “Abito in provincia, ma vengo sempre qui a fare la spesa, la domenica”. “Vai a immaginare...! Le presento mia figlia. Ilaria. Augustine”. “Piacere”.

ANSANO: “Sua figlia? Pensavo fosse la sua fidanzata!”. “Così giovane, ma no! Sono rimasto vedovo tre anni fa, la madre di Ilaria ha avuto un brutto male...”. “Oh, mi dispiace, doveva amare molto sua moglie!”. “È stata la donna della mia vita. Senta, Augustine... le andrebbe di pranzare con noi? Pensavamo di passare la giornata a Treviso...”. “Ma, veramente dovrei portare a casa la spesa, devo ancora finire di sistemare”. “Si prenda un giorno di riposo, lo so che lavora duro”. “Va bene, a una condizione”. “Dica pure...”. “Che la smettiamo di darci del lei”. “Ottima idea!”. Questa fu, più o meno, la conversazione che mio padre e mia madre ebbero al Bennet, secondo quando riportato da mia sorella Ilaria.

EDMONDO: Mio padre ebbe l’ardire di invitare a cena fuori Augustine ancora una volta. Questa volta a tu per tu. Poi un’altra volta. Poi un’altra ancora. Poi la invitò a casa, quando mia sorella era in gita scolastica. Mia madre rimase presto incinta, allora Elvio le fece la proposta. Pioveva, quel giorno, Elvio si inginocchiò davanti al camino. Fecero l’ecografia, gemelli. Ci chiamarono Edmondo e Ansano.

ANSANO: Non abbiamo mai avuto alcun dubbio. Sin da piccoli mio padre ci portava al capannone, dove ci mostrava i segreti di taglio e incisione del marmo. Abbiamo fatto entrambi il liceo artistico, ma appena finito siamo entrati in azienda con mio padre. Amiamo nostro padre, ha sempre fatto di tutto per includerci. Quando torniamo a casa con la nostra pelle scura coperta di polvere bianca la mamma si mette a ridere. “Siete neri o bianchi? O be’, cosa importa!”.

L’anima indivisa

Nei testi dei padri del deserto si trova il concetto di anima indivisa come traguardo da raggiungere.

Soffriamo e patiamo solo grazie alla nostra umanità. È stato così anche per Gesù. Ha preso la carne, l’umanità, per poter partecipare della sofferenza.

Da San Paolo sappiamo che l’uomo è composto di spirito, anima e corpo (1Ts 5, 23). Anche per Gesù era così, va solo tenuto conto che in Gesù lo spirito è lo Spirito Santo.

Ora, lo Spirito Santo è Dio. Chi è Dio? È colui che conosce tutto. Dio è onnisciente. Dio sa perfettamente come è fatto il mondo. L’ha creato lui...

Secondo me, però, si può conoscere il mondo in due modi; uno è come dovrebbe essere, ossia il mondo ideale; l’altro è come di fatto realmente è, ossia il mondo concreto. C’è differenza tra queste due dimensioni.

Ammettiamo che una persona sia stata creata da Dio con determinati talenti, abbia cioè un compito, una missione nella vita, una vocazione, una chiamata.
Può capitare, e di fatto capita nelle società reali, incarnate, nella cosiddetta economia della materia, che una persona non riesca a perseguire la propria vocazione. Esiste una Gerusalemme celeste, dove tutto è perfetto e funziona secondo la Volontà di Dio; e una società terrena, materiale, dove, a causa del peccato originale e del libero arbitrio dell’uomo, può capitare di incontrare, ad esempio, un laureato in Lettere che lavora come casellante autostradale.

Ci sono, quindi, una dimensione celeste, ideale, e una dimensione terrena, imperfetta.

Credo che tutte le volte che incontriamo una situazione concreta diversa da come crediamo sia il dover essere di quella situazione, è allora che incontriamo il cosiddetto skandalon, in greco pietra d’inciampo. La pietra d’inciampo è una pietra di divisione, una linea di demarcazione che crea due mondi, due universi all’interno dell’anima. Divide, cioè, l’anima in due.

Anche il peccato personale fa da pietra d’inciampo: penso di dovermi comportare in un dato modo, sono convinto ci si debba comportare in un dato modo, ma poi mi comporto in un altro; ecco che si generano due mondi nell’anima, e l’anima da indivisa diventa divisa.

Ma Dio è uno, e l’universo che ha creato è uno. Come è possibile, dunque, che esistano due realtà? È un pensiero di questo tipo, inconscio, che genera la sofferenza dell’anima.
Un’anima indivisa è in pace; un’anima divisa soffre.

Secondo me questa è l’essenza o origine della sofferenza.

Gesù conosce perfettamente l’universo. Sa cos’è ciascuna cosa, in se stessa e rispetto alle altre. Questo è Spirito Santo, è Dio. Quando Gesù si incarna, come tutti gli uomini, attraverso i sensi viene a conoscenza, nella sua anima umana, di fatti concreti che si discostano da ciò che il mondo dovrebbe essere. Anche la sua anima, quindi, si separa dallo Spirito, e anche Gesù prova sofferenza.
Ad esempio, quando vede il tempio trasformato in mercato, o quando viene a sapere della morte del suo amico Lazzaro, o quando vede la folla che non ha da mangiare, tutti esempi di emozioni provate da Gesù.
L’emozione, il moto dell’anima, può avvenire solo quando l’anima è divisa. Quando è indivisa, è una, immobile, immutabile.

Concludo con una testimonianza personale sulla preghiera.
Prego così. La preghiera è il mio psicanalista. Mi metto davanti a Dio e scandaglio l’anima. Quali sono le pietre d’inciampo, le divisioni, le sofferenze che trovo? Una persona ammalata; un mio peccato; una situazione scorretta nella società, tipo la mafia; o nel mondo, tipo la guerra. Su tutte queste pietre d’inciampo, che sono altrettante divisioni nell’anima, invoco l’intervento di Dio. Se è un mio peccato, chiedo di rimuoverlo attraverso il perdono; se è una malattia, chiedo la guarigione; se è una situazione sociale, o mondiale, chiedo a Dio di modificarla con la sua onnipotenza. Perché nulla è impossibile a Dio (Lc 1, 37), e Dio può anche fare miracoli.

È come mettere fuori tanti vasetti vuoti, sperando che la pioggia li riempia, facendo tornare l’anima, da divisa e sofferente, a indivisa e pacificata.

Tentativo di abuso di potere

Come tutte le mattine, Osvaldo e il collega indossavano le pettorine giallo fosforescente. Si aggiravano in coppia, sciame minimo, per le auto, controllandone uno una, l’altro l’altra. In viale Marconi, sotto un palazzo di uffici, ne trovarono una col tagliandino scaduto. Era anche stropicciato, segno che all’automobilista l’avevano passato i posteggiatori di colore, abusivi ma tollerati. Come di norma, Osvaldo fece la foto col telefono per tutelarsi, nel caso in cui l’automobilista avesse voluto contestare, infine estrasse il blocchetto. Faceva l’accertatore della sosta da cinque anni, ormai ne aveva subite di tutti i colori. Era stato assunto proprio per la promessa capacità di non reagire alle provocazioni. La penna non aveva ancora sfiorato il blocchetto, che sentì il grido di una donna: “Aspetta! Aspetta!”. Alzò gli occhi e si voltò. “Sono qui!”, Anita arrivava a mano tesa. Era vestita marrone, un cardigan scuro a coprire il vestito che finiva appena sopra il ginocchio, larghi occhiali da vista e il doppio dei chili consentiti sui fianchi, capelli a forma di meringa, mossi e rossicci, o meglio, del colore dell’interno di una Sacher. “Per favore, non farmi la multa!”. Era proprietaria di una Mercedes 160 grigio chiaro, l’aveva comprata usata da non molto, a meno di 8.000 euro, e stava ancora finendo di pagarla. “Vado via subito!”. Osvaldo abbassò la penna e gli venne automatico dare del tu: “Hai il tagliandino scaduto. È finito mezz’ora fa”. “Lo so, lo so. Ero qui, dal commercialista! C’è voluto un sacco di tempo!”. “La prossima volta fai una cosa: se vedi che stai facendo tardi, vieni giù e rinnovalo, ci vuole un attimo”. “Lo so, hai ragione! Ma proprio non ce l’ho fatta! Devo tornare al lavoro, non posso perdere tempo!”. “Va bene, dai. Questa volta niente multa”. Anita infilò la mano nella borsa e dopo aver ravanato estrasse le chiavi. Stava per infilarle, ormai libera, quando sentì ancora la voce di Osvaldo alle spalle: “Che lavoro fai?”. Si stava buttando, 46 anni single, una storia di 10 anni alle spalle, finita perché lei non aveva voluto sposarsi. “Ho un’azienda di pulizie. Sono la titolare...”. “Ma dai? Complimenti!”. Con la testa attorcigliata all’indietro, Anita tirò la leva della portiera: “Grazie, ho lavorato sodo, sono in società con un’amica...”. “Ah, pensavo con tuo marito”. “Non sono sposata”. “Un vero peccato...!”. “Guarda, sono davvero di fretta, devo andare al lavoro, sono già le 11,30...”. “Lo so, mezz’ora dopo rispetto all’orario di scadenza del tagliandino!”. “Hai ragione! Scusa, scusa! Prometto che non lo faccio più!”. Osvaldo si disse: “Cos’ho da perdere? Mi raso i capelli a zero perché sono pelato!”. “Ehi, senti... mi chiamo Osvaldo. Posso avere l’onore di sapere il tuo nome?”. Anita aprì e richiuse la portiera, aveva finalmente capito di non essere per nulla libera. “Anita, piacere”. Allungò la mano, la stretta non fu spiacevole per nessuno dei due. “Cosa diresti se ti invitassi a cena fuori, magari, uhm, stasera?”. Il collega, incuriosito dal protrarsi della conversazione, avvicinandosi udì la frase. Mise la mano davanti alla bocca, sbuffò con la bocca e soffiò col naso tenendo il riso; stette accanto a Osvaldo. A causa sua, a Osvaldo si bloccarono le parole; se ne rese conto: “Scusa, puoi lasciarci un attimo? Controlla quelle macchine là”. Il collega sorrise a 32 denti: “Okay, ci vediamo dopo” e si allontanò. “Guarda, sei simpatico, e te ne devo una per non avermi fatto la multa... però stasera non posso, domani devo svegliarmi alle sei per andare a lavorare, se vuoi facciamo un’altra volta!”. “Ottimo! Quando preferisci?”. “Lasciami il tuo numero di telefono, così ti chiamo e ci mettiamo d’accordo!”. “Ah... uhm, okay...”. Mentre nella testa di Osvaldo si diffondeva veloce, come da uno spiffero, la puzza di fregatura, Anita aveva estratto più in fretta che nel vecchio West. “Dì pure”, disse a telefono spianato. “Tre-due-otto-quattro-sei-nove-quattro-sette-nove-due”, mugugnò Osvaldo, gli ultimi numeri quasi bisbigliati. “Va bene, Ti chiamo! Devo proprio andare! Ciao!”. “Okay, eh eh, ciao...”. Anita accese e partì. Mentre si allontanava, guardò nello specchietto retrovisore Osvaldo sempre più piccolo. “Crede di avermi fregato, ma ho la foto con la targa, eh eh!”. Il collega tornò: “Ti ha dato il numero?”. “No, le ho dato il mio”. La pietrificazione prese possesso della faccia del collega. “Vabbè, andiamo va’...”. Il sole batteva forte.

La Staffora

Anni fa mio padre e io andavamo a pescare sul torrente Staffora, un affluente del Po che nasce sul Passo del Giovà. Scendevamo nei pressi di Retorbido, dove la Staffora è abbastanza larga da essere un fiumiciattolo più che un torrente. Dalla statale che da Voghera va a Varzi prendevamo una stradina che scende accanto a una fabbrica di argilla espansa. L’argilla espansa sono le palline marroni leggere che si mettono nei vasi di piante. Non so come si produce. In tutta quella zona, l’Oltrepò Pavese, la terra è argillosa. C’erano coni altissimi di argilla espansa, da cui si prendeva per insaccare e vendere. Scendevamo al fiume con canne da pesca non più lunghe di tre metri. Cercavamo i cosiddetti fondoni, dove l’acqua è profonda e non scorre. In quei punti si vede a malapena il fondo e ci sono pesci nascosti, magari sotto le piante della riva. L’ideale è mettersi sulla riva opposta e lanciare fino all’altra parte. Pescavamo qualche cavedano, che mio padre faceva in carpione, ossia sott’aceto, ma soprattutto alborelle, pesciolini che, quando se ne prendono tanti, si possono fare fritti e mangiare interi come le sardine di mare.

Spesso andavamo anche solo per fare un giro coi cani. Stare con mio padre e i cani mi piaceva tantissimo. I cani liberi giravano e annusavano tutto, esaltati e concentrati. Giocavamo al lancio del bastone o del sasso, non si preoccupavano di finire in acqua, anche d’inverno. Spesso l’obiettivo delle gite era raccogliere pietroni, di cui la spiaggia era piena, da usare per pavimentare il cosiddetto Viale del tramonto, come lo aveva battezzato mio padre, ossia la discesa che dalla casa porta all’ingresso della cantina. Caricavamo le pietre nel bagagliaio, non ce ne stavano tante. Non ricordo ancora quanti viaggi abbiamo fatto negli anni. Il Viale del tramonto esiste ancora oggi. Sceglievamo pietre che fossero piatte da un lato. Le mettevamo nella terra, le picchiavamo piano con una mazzetta di gomma o di legno, poi terrazzavamo con una piccola trave di traverso, in modo che il Viale del tramonto consta di cinque o sei gradoni pavimentati a pietroni di fiume, che col tempo si sono assestati sempre più.

A volte, essendo più veloce, coi cani andavo più avanti di mio padre e arrivavo sul retro di uno sfasciacarrozze che probabilmente aveva l’ingresso sulla statale, ma non ho mai capito dove. Era un luogo silenzioso che mi metteva sempre soggezione. C’erano baracche, mi dicevo: “Qui c’è qualcuno”. Poi c’erano campi dove i cani si mettevano a correre dietro alle lepri. Mio padre arrivava e, lui che era stato cacciatore, si metteva a ridere: “Non si è mai visto un cane raggiungere una lepre correndo”. Prendeva in giro i nostri cani viziati e in età.

Un paio di volte ci siamo portati il pranzo al sacco e da un amico ci siamo fatti lasciare con la macchina in un punto a valle e abbiamo risalito il fiume per tutto il giorno, fermandoci a pescare dove trovavamo i fondoni, per poi incontrarci con l’amico in un altro punto prestabilito a monte. Giornate estive di sole accecante, mio padre, io, i cani e gli aironi. Prendevamo ceste intere di alborelle, che mio padre faceva fritte. Che soddisfazione e che bontà.

Oggi non pesco più, è una cosa che facevo solo con mio padre. Una volta, dopo che è morto, sono tornato alla Staffora, scendendo accanto alla fabbrica di argilla espansa. Stesse identiche sensazioni di una volta. Sono entrato coi piedi nudi nell’acqua.

“In bocca al lupo!” – “Crepi!”

Tutti sanno che le avversità rendono migliori. Al momento, quando ci si è in mezzo, fanno male e sembra distruggano, ma quando se ne viene fuori si riconosce che hanno fatto crescere.

È per questo che si augura di finire nelle avversità (il lupo è incarnazione del male). A patto, però, di uscirne; perciò si dice: “Crepi il lupo”.

Un bagno di avversità è una purificazione, rende illuminati, saggi, umili. Certo, la vecchiaia porta con sé malanni, ma quanta saggezza si guadagna in cambio!

Quando nel Padre Nostro si dice: “Non abbandonarci alla tentazione” è come dire: “Crepi il lupo!”. Non si chiede di non finire in tentazione, la tentazione è appunto il male che purifica.

Il Padre Nostro è stato corretto da Papa Francesco per renderlo uguale a ciò che dice Gesù nel Vangelo: “Non abbandonarci alla tentazione”. Prima si diceva: “Non ci indurre in tentazione”. Ciò che voleva correggere Papa Francesco era sopratutto l’idea che Dio possa indurre in tentazione. Non è mai Dio che induce in tentazione, è il diavolo che induce in tentazione; Dio non commette il male, semmai permette – è la corretta dicitura teologica – che si sia indotti in tentazione dal diavolo.

Per questo non sopporto quelli che vogliono cambiare i detti millenari. “Bisogna dire viva il lupo! Perché il lupo è quello che bla bla bla”...! 

Non c’è posto per entrambi in questa città

La mattina del 4 ottobre ho capito perché detesto lavorare in città. Ero a casa in malattia per due giorni, devo aver preso freddo e mi è venuta la dissenteria. Siccome bisogna essere reperibili dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, ho deciso di alzarmi presto e di andare a confessarmi. Per me il giorno di San Francesco, in genere, è giorno di grazia, come le feste mariane. Ho fatto parte, come frate, di una comunità dedicata a San Massimiliano Kolbe, quindi una comunità francescana con una colorazione mariana, essendo Kolbe un francescano mariologo. Come mi dissero una volta, quando fai la consacrazione a Maria poi magari dimentichi di averla fatta, ma lei non dimentica. Probabilmente nei quattro anni e mezzo in cui sono stato frate qualcosa di buono ho fatto. Regolarmente, quando c’è una festa mariana, la giornata va particolarmente bene, il lavoro fila liscio, non ho problemi, ho poche consegne, consegno in campagna, torno a pacchi zero, c’è un bel sole, ecc. Anche dal giorno di San Francesco mi aspetto del buono, infatti è venuta la dissenteria e quel giorno ero a casa. Ho colto l’occasione per andare a confessarmi.

Quando vado al lavoro esco di casa alle 8,40 e arrivo sul lavoro per le 9,00. La convocazione è alle 9,20. Alle 9,30 ci mettiamo in coda. Tra le 9,40 e le 9,50 carichiamo, per le 9,55 siamo sulla strada. Il luogo di lavoro è il Centro di Smistamento di Castegnato, appena fuori città. Da quando, nel gennaio 2021, ho comprato casa, abito in una bella zona non lontano dal centro di Brescia. Faccio così: esco di casa, mi tappo naso, occhi e orecchie per evitare di pensare al traffico cittadino e in generale alla città, mi fiondo in tangenziale e in due manciate di minuti sono a Castegnato.

Prima di comprare casa ero in affitto. Per i primi tre anni in cui ho lavorato come corriere ho abitato in un quartiere periferico addirittura frazione di Brescia, il cosiddetto quartiere Fornaci.

Solo abitando fuori città, non facendo parte, quindi, della città, mi era possibile, la mattina, recandomi sul posto di lavoro che allora – prima della costruzione del Centro di Smistamento (2020), era comunque fuori città, zona industriale – mi era possibile andare a lavorare in città. La sera, finito il lavoro, tornavo nella mia personalissima fornace – come i monaci chiamano la cella, perché è il luogo della prova – fuori città. Era un monolocale, quindi aveva le caratterische della cella monacale.

Ho voluto comprare casa quasi in centro non per puzza sotto il naso, ma perché, avendo visto tutta la città per lavoro, ho capito qual è la zona migliore. Cercavo una zona di condomini perché amo l’anonimato. Farei fatica a vivere in una villetta a schiera o in un paese di campagna o in un condominietto di quattro unità, ecc. Sono cresciuto in un condominio a Milano, senza conoscere le facce dei vicini di casa ed è per me condizione normale.

Poco dopo aver comprato casa, hanno iniziato a mandarmi a fare le consegne in campagna. Era perfetto. Il luogo dove vivo non deve essere il luogo dove lavoro. È una malattia psicologica, lo so. Ma ho anche capito, il 4 ottobre, che malattia è.

C’è un motivo per cui vivo a Brescia, senza famiglia, non a Milano, dove ci sono mia madre e mio fratello.

Non c’era abbastanza spazio per me e mio fratello nella stessa città.

Innanzitutto mio fratello non è figlio di mia madre, ma della prima moglie di mio padre. Ha 16 anni più di me. Mia sorella, che ora abita in provincia di Pavia, è figlia della stessa madre e dello stesso padre di mio fratello e ha 15 anni più di me. Quando mio padre divorziò dalla prima moglie, nel 1970, il suo divorzio fu uno dei primi registrati all’anagrafe appena fatta la legge. Allora non era immediato, come oggi, affidare i figli alla madre. Il giudice prese una decisione, affidò mio fratello e mia sorella al padre. Mio padre, per accudire i bambini, prese in casa una giovane bambinaia che veniva dal Friuli – mia madre. Dopo un po’ nacqui io. Quando ero ancora piccolo, i miei genitori litigarono e lei se ne andò di casa prendendo me. Da allora sono cresciuto solo con la mamma, mentre mio fratello e mia sorella, all’epoca adolescenti, sono rimasti con mio padre.

Siamo stati sempre in contatto. Mio fratello e mia sorella sono sempre stati un po’ bulli con me. Loro erano i fighi, gente da oratorio, popolare. Invece io ero il bamboccio che cresceva da solo con la mamma, non faceva sport e aveva solo un amico, il secchione della classe. Mio fratello, tra l’altro, è gran bestemmiatore, cosa che ha iniziato a darmi fastidio quando ho iniziato a credere in Dio e a farmi un’idea del gran male provocato dalla bestemmia.

Quando mio padre, nel 2000, stette male, mio fratello, mia sorella e io litigammo. Ero solo un universitario, ma mi venne messa addosso pressione per aiutare a sostenere le spese per le cure di mio padre, in particolare dopo che fu messo in casa di riposo. Fu così che dopo un po’ abbandonai l’università. Per tre anni, dopo la morte di mio padre, con mio fratello e mia sorella non ci siamo parlati. Da allora i rapporti con loro non sono più gli stessi. Certo, c’è stato un riavvicinamento, generato soprattutto dai dialoghi con confessori e padri spirituali che mi hanno raccomandato di perdonare e far pace.

Però c’è questo. Se mi metti alle otto di mattina, quando tutta la gente è in giro per andare a lavorare, per le strade a Milano, inizio a sudare freddo e a sentirmi a disagio. Milano è il mondo nel quale ho fallito. Ne sono stato scacciato. Non ho mai avuto la minima possibilità, data la mia psicologia travagliata, di farmi una vita a Milano. Il tradimento del primo amore, gli amici che negli anni finivano l’università, si sposavano e si affermavano, mentre restavo indietro... Certo, volevo fare lo scrittore, facevo psicanalisi e studiavo Platone, credendo che dal punto di vista intellettuale l’università non avesse più nulla da darmi, ma all’atto pratico ero pur sempre un fallito.

Partire per andare a fare il frate nelle Marche è stato un modo per dar senso alla mia vita, per avere una seconda possibilità. Voglio che nessuno immagini cosa ha significato fallire anche questa esperienza. È per questo che non ce l’ho fatta a tornare indietro, a Milano, a vivere con mia madre. Ho dovuto spostarmi, anche di poco e andare a Brescia.

Martedì 4 ottobre, mentre camminavo verso la chiesa di Santa Maria delle Grazie, in pieno centro storico e vedevo genitori con bambini e traffico di macchine di chi andava al lavoro, ho iniziato a sudare freddo. Lì è stata l’illuminazione. “Da questo mondo sono stato scacciato”. “In questo mondo non ho mai avuto la minima possibilità”. Mi è tornato in mente il confronto con mio fratello, yuppie giovane di successo che da agente immobiliare, da ragazzo, è divenuto amministratore condiminiale e oggi è amministratore niente meno che del Bosco Verticale. “Non posso lavorare in questo contesto. La mia vita è finita, in questo contesto, anni fa”. Ecco perché, da abitante della città di Brescia, non riesco ad andare a fare le consegne a Brescia, non riesco a lavorare all’interno della città di Brescia. Non è solo questione di combattere col traffico. Il mio anonimato, il mio essere nessuno, il mio essere stato scacciato da questo mondo e da questa società, non esistono più. Esistevano ancora quando andavo a lavorare nel centro storico di Brescia provenendo da un monolacale di periferia, quasi fuori città. Esistono ancora, se vado a lavorare a 40 Km di distanza, a Castel Goffredo, nel mantovano, a Gambara, Isorella, Remedello, Calvisano, dove nessuno mi conosce

Ma se devo svegliarmi la mattina, andare a Castegnato a prendere un furgone per poi ricatapultarmi nel caos del traffico cittadino, nel mondo che mi ha scacciato anni fa, non ce la faccio. È incredibile il senso di rigetto che provo, sono tensioni e ansie a non finire.

Farsi valere o lasciarsi fare le cose

Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza. (Gc 5, 6)


È vero che la Parola di Dio rivela sempre nuovi significati. Bisogna avere pazienza. Basta aspettare. A volte possono volerci anni, ma pian piano viene a te qualcosa di nuovo. Può essere una folgorazione istantanea, come quando qualcuno, in un caso di condivisione, riesce a trasmettere nuove verità ai presenti (“Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio”; 2Pt 1, 20-21); può essere un significato che si forma lentamente in te dopo aver letto e vissuto.
Alla seconda categoria appartiene una cosa che ho capito solo ultimamente. È una cosa fondamentale per essere buoni cristiani. Eppure non lo sapevo. È proprio vero che la mia conversione è stata tardiva – 27 anni – e che sono ancora un novellino.
Sento di aver finalmente capito cosa intende il profeta Ezechiele quando, parlando in nome di Dio, dice: “toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”. Credo di aver finalmente capito cos’è il cuore di carne. Genericamente, mi sembrava sempre di recepire il messaggio del passo. In realtà, mi sa che l’ho capito solo ora.

Il popolo di Israele è spesso accusato da Dio di avere un “cuore duro” (ad es.: Sal 4, 3; Lam 3, 65; Ez 2, 4; Mt 13, 15; Mc 6, 52; Mc 8, 17; Gv 12, 40). Cos’è il cuore duro? Per me il cuore duro è riassumibile in una frase trovata anni fa in Platone. Ora però non saprei recuperarla, vado a memoria. Socrate dice che è meglio subire ingiustizia che commetterla. Subito dopo, però, dice: “Ad ogni modo, bisogna anche evitare a tutti i costi che sia commessa ingiustizia contro di noi”. Potrebbe essere, quasi certamente, in Fedro o in Repubblica. Come ho detto, sto andando a memoria, perciò la frase potrebbe non essere esattamente così.

La convizione che bisogna evitare a tutti i costi di subire ingiustizia mi è rimasta dentro per anni. Trovarla in Platone è stato come trovare il sigillo verbale a qualcosa che già sentivo.
Di fatto, tutte le persone agiscono così, istintivamente. Nessuno vuole subire ingiustizia. Eppure tutti sanno che da quando esistono gli stati, ci sono le forze dell’ordine alle quali è demandato il compito di impedire le ingiustizie e raddrizzarle quando sono commesse. La gente, però, sebbene demandi alle forze dell’ordine, di fatto non fa altro che cercare di farsi giustizia da sola. Pensiamo a quante volte qualcuno ha provato a rubare il posto in coda. “Non posso permetterlo!”. Sono tanti i casi della vita in cui non possiamo permettere che qualcuno commetta un’ingiustizia, anche piccola, verso di noi.

È questo, credo, il cuore duro.

“Perché non subire piuttosto l’ingiustizia? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene?”, dice San Paolo (1Cor 6, 7). L’intera vita di Gesù è incarnazione di questo messaggio. Eppure, per tanti anni, sono stato convinto che Gesù non avesse mai lasciato che qualcuno commettesse ingiustizia verso di lui. La sua condanna a morte non è forse il risultato di regolare processo? Gesù era talmente giusto che nessuno ha mai osato commettere ingiustizia verso di lui, mi dicevo. Ci sono volute le autorità statali, le quali, convinte di aver la giustizia dalla propria parte, sono state le uniche ad avere il diritto di agire contro Gesù.

Certi passi, invece, danno un’idea di quella che deve essere stata la vita pubblica di Gesù. Ad esempio il passo dell’emorroissa:

Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato il mantello?». I discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?». Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5, 25-34).

Ciò che trovo interessante, in questo passo, è la frase: “avvertita la potenza che era uscita da lui”. Gesù, guarendo, perdeva forza. Perdonando, perdeva forza. Esorcizzando, perdeva forza: “il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” (At 10, 38).
Per dare del bene a qualcuno, bisogna avere del bene. Gesù aveva tanto bene. Essendo Dio, era la persona più sana sulla faccia della terra. Ora, la salute si può trasmettere. Ma quando la si dà, la si perde. Chi ha mai provato a fare volontariato ospedaliero senza sentirsi esausto a fine turno?

Credo che l’intera vita di Gesù sia stato un – a volte volontario, a volte involontario, come nel caso dell’emorroissalasciarsi fare cose. Lasciare che si prendesse liberamente la sua forza, la sua salute, la sua condizione di perfezione. Tale condizione non si conservava sempre intatta – vediamo Gesù al pieno della sua magnificenza nell’episodio della Trasfigurazione (Mt 17, 1-8) – ma, ogni volta che Gesù entrava in contatto con qualcuno che era nella condizione opposta alla sua, c’era un passaggio di forza, di salute, di perfezione. La persona da guarire era risanata, perdonata, esorcizzata, insomma passava da una condizione di male a una condizione di bene, ma Gesù, in quanto uomo, non restava intaccato.

Cos’è la croce se non un grande lasciarsi commettere ingiustizia contro? Ecco cosa vuol dire avere un cuore di carne. Smetterla di combattere per i propri diritti, per il proprio posto in coda, per conservare le proprie cose, ecc. Essere disposti a perdere tutto. 

Colleghi di lavoro

Non riesco a creare, coi colleghi di lavoro, relazioni convincenti. Ci sono quelli con cui parlo più e quelli con cui parlo meno.

Tra i colleghi con cui parlo c’è D., un sudamericano che ha studiato un po’ di psicologia e crede di dover psicanalizzare tutti. Un altro che mi chiede sempre favori. Mi ha chiesto soldi un paio di volte. Mi ha chiesto di noleggiargli due volte un’auto con la mia carta di credito, lui non ha carta di credito. Insomma, tutti che fanno la coda per chiedere favori all’ex frate, perché sanno che li fa. Anche perché non sanno in che altro modo relazionarsi con lui.

Bisogna dire che non sono il massimo della socievolezza. Col risentimento che ho verso il lavoro, sono sempre piuttosto imbronciato. Non dovrei esserlo, il cristiano è gioioso e sorridente. La gioia si basa sulla speranza nella risurrezione per un eternità gloriosa. Invece, nel mio caso, dipende da come mi sveglio la mattina. Ce la metto tutta. Mi impegno, anche, perché mi hanno insegnato a essere affabile, ma non sempre colgo nel segno.

Poi voglio bene a S. È milanese come me. Mi pare abbia 53 anni. È un tipo buono con tutti. Quando consegnavamo entrambi nel centro storico, tutti i giorni facevamo pausa assieme. Sono al corrente della situazione di salute di sua mamma, che ha più di 90 anni e sono aggiornato sulla vita di sua figlia, 28. Oggi, noto questo in S. Quando lo vedo, tendo ad andare verso di lui per parlargli, perché mi è simpatico e perché lo considero amico, ma tende a evitarmi, come fossimo nel cortile della scuola durante la ricreazione e non volesse farsi vedere con lo sfigato.

In generale, ho notato, infatti, di essere un po’ evitato, specialmente dai colleghi che hanno più anzianità, quelli che mi conoscono da anni. La mia poca socievolezza è una ragione. Ma c’è anche qualcos’altro. È come se fosse passata l’idea che, in quanto ex frate, sono sfigato. Uno che non sa farsi valere nella vita. Uno che obbedisce a testa bassa, senza farsi sentire dai padroni quando c’è bisogno. Una specie di lecchino mascherato. Dico: “mascherato” perché di fatto sono iscritto alla Cgil.

Mi avvicinano i colleghi nuovi. Di questi ce n’è in abbondanza. Saremo 25 col contratto a tempo indeterminato e i restanti 20-25 col determinato. Questi ultimi girano, nel senso che ce n’è di nuovi ogni tre, quattro mesi. I cosiddetti determinati vengono rinnovati. È difficile che a qualcuno facciano il contratto a tempo indeterminato. Ne fanno uno ogni morte di Papa. Ho visto decine di bravissimi corrieri sparire solo perché era scaduto il contratto, per veder comparire novellini che creano disagi a tutti (perché i primi tempi non sono in grado di finire e bisogna aiutarli).

Insomma i nuovi, che non mi conoscono, parlano volentieri con me. Gli anziani – lavorativamente – mi conoscono e mi trattano da sfigato, da appestato da non avvicinare. S. mi rattrista. Magari se siamo solo lui e io si mette a parlare, ma in gruppo tende a non cagarmi.
C’è da dire che resto praticamente fuori da tutte le conversazioni, essendo i temi calcio, busta paga, macchine, donne, nessuno ha voglia di parlare di Dio, l’unico tema che affronto volentieri, anche perché penso di avere qualcosa da dire in materia, non tanto perché ho studiato ma perché ho riflettuto.

I due con cui non parlo proprio sono M. e T. La prima conversazione con M., quattro anni e mezzo fa, mi chiede soldi. Fino a un anno prima ero frate, quindi ero pieno di volontà di fare carità. Gli presto subito, con un bel sorriso, 70 euro. Me li ridà dopo non molto. Me li ha ridati subito perché voleva instaurare una relazione di fiducia per far sì che diventassi un bancomat. Ha fatto così con un altro collega bonaccione, che per sua fortuna ha appena vinto il concorso, arrivando secondo, per Vigile Urbano in un paese sul lago di Garda e quindi, spero per lui, non avrà più frequentazioni con M.
Dopo pochissimo, infatti, M. chiede ancora soldi. La cosa inizia a puzzarmi.

Nel frattempo sono diventato amico di P. Come sono diventato amico di P.? Il primo mese che lavoravo non avevo ancora trovato sistemazione a Brescia, dormivo a casa di mia madre e facevo Milano-Brescia in treno e arrivando a cancelli ancora chiusi davanti all’azienda, a causa dei fissi orari dei treni, mi mettevo a pregare il rosario. P. arriva secondo e mi trova mentre prego il rosario fuori dai cancelli. Non è stato un caso. Scopro che P. ha vissuto una conversione da poco e prega il rosario. Nessun modo più divino per far nascere una relazione. Oggi P. non lavora più con me. Si è ribellato al sistema Amazon e ha avuto il coraggio di dimettersi. Dopo mesi di incertezze ha trovato lavoro come responsabile della logistica in un’azienda di Peschiera Borromeo. Un ottimo posto. La Madonna l’ha aiutato.
Abita non lontano da me. Ma non ci sentiamo più. Colpa mia. Velocemente ho scoperto, tramite chi ha intessuto relazioni intense con lui, che è uno che chiama alle quattro del mattino con le paturnie e non ho proprio bisogno di cose del genere. Ho quindi scartato un potenziale amico che la Madonna mi aveva dato. Ma forse l’aveva mandato il demonio, facendomelo apprezzare con la scusa del rosario. A volte il demonio, dicono, si traveste da angelo di luce. Bisogna dire che aveva idee disparate sulla Chiesa, era polemico coi sacerdoti e non ascoltava minimamente le cose che dicevo. Preferiva ciò che trovava su Facebook. Voglio dire, sei devoto e diventi amico di un ex frate, perlomeno ascoltalo. Invece dopo un po’ si era fatto l’idea che avevo sbagliato nel perseguire la vocazione, che erano problemi psicologici, ecc. Insomma, penso di aver fatto bene a lasciarlo perdere. Ma nel periodo iniziale, quando, almeno sul lavoro, eravamo amici, essendo P. un tipo scafato, aveva capito subito che tipo era M. P. aveva sulle spalle due denunce per aggressione, era caldo e andava in fretta alle mani. Pregava la Madonna che lo aiutasse a cambiare. Inoltre P. è il tipo che, coi colleghi, parla alle spalle. Aveva presto inquadrato M. Fu lui a dire: “Se presti soldi a M. non ti parlo più!”. Difatti, quando M. è tornato alla carica per chiedere soldi, ho detto no. M. ha fatto un lungo affondo sul fatto che in qualità di ex frate avrei dovuto praticare la carità più degli altri, ha poi detto senza più alcun ritegno che dovevo aiutarlo a mantenere gli hobby costosi, prostitute cinesi e gioco, infine ha tirato in mezzo la figlia, che vive con la madre, ma ha trovato pur sempre il muso duro. Da quel giorno non mi ha più parlato. Poco male, in tre anni M. ha passato 20 giorni al mese in mutua per via del mal di schiena e di un’ernia, non so come fa a non essere ancora stato licenziato.

L’altro collega con cui non parlo è T. Pensare che scherzavamo così tanto, i primi giorni. Consegnavamo entrambi in città. Ci incontravamo e andavamo a prendere il caffè. Poi, un giorno, mentre con D. camminavamo nei pressi del cancello di entrata al parcheggio, e lui non riusciva a passare col furgone, si è messo a suonare il clacson, mi sono spostato e ho fatto segno di passare, lui si è accostato, ha abbassato il finestrino e ha fatto il gesto del colpo di pistola alla nuca, come per dire: “Questo ci vorrebbe, per voi!”. T. è un vecchio napoletano. Il cambiamento repentino mostrava chiaramente che aveva parlato male alle mie o alle nostre spalle. Quando trovi qualcuno che da un giorno all’altro cambia modo di porsi significa che ha sparlato. Da quel giorno non sono più riuscito a rivolgergli la parola.

Una cosa che mi ha rattristato, come mi rattrista S. quando mi evita, è stata la cena coi colleghi. Rendiamoci conto che c’è stata gente, che si è seduta a quel tavolo, che non mi ha rivolto la parola, anzi non mi ha neanche salutato. Ripeto, un po’ è colpa mia. Faccio un esempio. Alla cena sono finito seduto di fronte a R., il più vecchio di noi e persona degnissima. Sono sempre stato convinto che con lui avrei avuto tante cose di cui parlare. Invece anche lui parla solo di calcio, videogiochi – ebbene sì, nonostante l’età –, parla male del lavoro e dei capi, ecc. Inoltre vuole far vedere di essere uno che si è inserito tra i giovani. Quindi, sedendosi a tavola, inizia a tirar battute, risate, urlate e cose del genere. Alla cena non ho potuto avere una conversazione.
Nessuno vuole avere una conversazione con me. Sono il tipo che chiede subito come stanno i famigliari, che si interessa se qualcuno ha problemi di salute e mostra compassione. Sono il tipo che vuole affrontare argomenti seri.
Ma poi riconosco di essere un po’ tardo. Gli altri hanno cervelli scattanti e acuti come motori turbo. Battute, collegamenti, idee, proposte... Quando davvero inizia una conversazione, quella a cui in teoria vorrei partecipare, perché sono il tipo che vuole passare per profondo e intelligente, dato che non sono scattante e acuto, mi sento subito tagliato fuori, perché mi rendo conto che sono tutti più intelligenti di me. R., ad esempio, è strapolemico verso Amazon, ma io, che vorrei esserlo con lui, giusto per avere una conversazione, non riesco a stargli dietro. Si vede subito che lui ha ragionato a fondo su un sacco di problemi, per cui potrebbe fare proposte e allo stesso tempo potrebbe suonargliele, a parole, a qualsiasi capo. Ha un cervello a mille. Ci sono altri della compagnia che, sentendolo, sanno subito come rispondergli e tenergli botta.
Finisce quasi sempre così. Magari sono io quello che lancia un argomento, ma sono altri a svilupparlo. Sanno pensare e velocemente. Mi dico: “Di questa roba, in realtà, non me ne frega niente, per questo non ho niente da dire e non mi va di applicare il cervello”. È triste, finisco presto fuori dalla conversazione. Se provo a dire qualcosa, sono preceduto e interrotto. Ciò che ho da dire non conta. Nessuno ha voglia di parlare di Dio, e dunque... Se per caso qualcuno ha pietà di voler farmi parlare, vedendomi in silenzioso affanno e fa domande su Dio o sulla mia ex vita religiosa, dico due parole e vedo subito che l’argomento non interessa e si vuole subito cambiare.

Procurarsi reperti

In Italia si conosce poco Seinfeld, sitcom che ha avuto enorme successo in USA. Più di dieci anni fa, quando ne venni a conoscenza, guardando qualche video su Youtube, mi sembrò, in effetti, non del tutto sconosciuta. Può essere che su qualche canale, o a qualche orario strano, sia stata trasmessa, quindi facendo zapping da piccolo o da adolescente senza essere, al tempo, fan di sitcom, e quindi non soffermandomici, qualche immagine sia pur rimasta impressa nelle mie cornee. Sta di fatto che non sono a conoscenza di nessuna trasmissione in Italia di questa serie televisiva. Di certo, quando ho visto l’attore che interpreta George Costanza, Jason Alexander, nel ruolo del migliore amico in Shallow Hal (Amore a prima svista) accanto a Jack Black, recitando anche nella scena raccapricciante in cui confessa di avere la coda e la mostra, scena rimasta, per il disgusto, impressa per sempre nel mio cuore, l’ho trovato volto famigliare. Jason Alexander, dopo Seinfeld, a parte il ruolo menzionato, non ha più trovato lavoro.

Ma, d’altronde, così capita a molti attori di sitcom. Due a caso, sfuggiti a questa legge, sono Jennifer Aniston, con una considerevole carriera filmica dopo Friends, e Julia Louis-Dreyfus, interpretante Elaine Blanes in Seinfeld, che ha continuato a lavorare in televisione nel ruolo della Vice-presidente degli Stati Uniti nella sitcom Veep, che il 21 settembre 2022 la rivista Rolling Stones ha messo al 25esimo posto nella lista delle 100 miglior serie televisive di tutti i tempi.

Seinfeld è andata in onda dal 1989 al 1998. È stata ideata da Jerry Seinfeld e Larry David. Jerry Seinfeld era, al tempo, un giovane comico cabarettista (meglio dirlo in inglese: stand-up comedian, ‘comico in piedi’) già abbastanza affermato. Larry David aveva provato il cabaret (la stand-up comedy) senza successo e aveva lavorato brevemente come scrittore per Saturday Night Live, il longevissimo programma di sketch comici nato nel 1975 ed esistente ancora oggi.

La sitcom narra la vita quotidiana di Jerry Seinfeld ed è ambientata nel suo appartamento a New York. I personaggi principali sono i suoi amici: George Costanza, alter ego di Larry David, Elaine Blanes e Cosmo Kramer, ispirato a un vicino di casa che ancora oggi a New York fa tour guidati sui luoghi reali di Seinfeld.

Jerry Seinfeld non ha avuto problemi a recitare e interpretare se stesso. Larry David, invece, temendo forse di non essere bravo come attore, o volendosi dedicare interamente alla scrittura, ha preferito creare il personaggio di George Costanza e farlo interpretare a Jason Alexander. Elaine Blanes è un personaggio totalmente inventato, hanno pensato ci fosse bisogno di una presenza femminile.

Quando Seinfeld ha chiuso, dopo la nona stagione, la puntata finale ha fatto 76,3 milioni di spettatori, quarta in assoluto dopo le puntate finali di M.A.S.H, Cheers e The fugitive.

Nonostante Seinfeld sia arrivata alla nona stagione, Larry David, che per tutto il tempo ha fatto parte del tavolo degli scrittori, ha lasciato all’ottava per creare uno show proprio.

Lo show creato da Larry David dopo che all’ottava stagione ha lasciato Seinfeld per mettersi in proprio si chiama Curb your enthusiasm. In Curb your enthusiasm Larry David finalmente si mette a fare l’attore e interpreta se stesso.

Sono venuto a conoscenza di Curb your enthusiasm prima di Seinfeld, perché al tempo, più o meno negli anni 2006-2010 c’era un blog tenuto da un giovane sardo i cui nome e titolo ora non ricordo, il cui motto era: “Kill the enthusiasm”. Era un blog pessimista e geniale. L’autore era chiaramente conoscitore di serie televisive americane, infatti aveva spudoratamente creato il suo motto copiando e modificando il titolo di Curb your enthusiasm. Tramite il blog vendeva anche magliette create da lui con la scritta: “Kill the enthusiasm”, con un logo composto di gente sorridente col segnale stradale del cerchio con sbarra diagonale sovrapposto.

Jerry Seinfeld era un bravo comico, era bravo a creare battute ed era anche un buon attore, uno che sullo stage era a suo agio. Larry David, si scoprì con Curb your enthusiasm, era il vero genio. La sua particolarità non era tanto la battuta, la cosiddetta punch-line, ma la costruzione di trame. Sappiamo dalla teoria che la sitcom ha una struttura fissa. Ci sono una storia A, una storia B e una storia C. Sono vissute ciascuna da un personaggio. Le tre si intersecano. Larry David ha la capacità di far sì che i punti di intersezione tra le tre trame giungano inaspettati e di sorpresa. Non saprei come altro spiegare la tecnica. Sta di fatto che a un set-up di inizio puntata c’è sempre un pay-off finale, per cui si fanno sbattere le mani una contro l’altra e si dice: “Aaah!”.

Per quanto riguarda la visione del mondo presentata sia da Seinfeld sia da Curb your enthusiasm, direi che è legata agli autori e poco ai personaggi, ma ci sta, dato che gli autori scrivono di se stessi.

Possiedo un paio di stagioni di Seinfeld e tutte le stagioni di Curb your enthusiasm, che, devo dire, per un po’ mi ha felicemente intrattenuto. Ora come ora, la visione del mondo di Larry David mi sta un po’ sulle balle, quindi difficilmente riguardo le puntate, ma devo ammettere che, dopo aver a lungo soppesato e decantato quanto visto, ritengo la tecnica narrativa di cui è capace qualcosa di davvero geniale.

Circa cinque anni fa, quando mi procurai i dvd di Curb your enthusiasm, in un episodio della prima stagione rimasi colpito da un attore. Un ruolo secondario ma determinante nella trama, c’era un segmento di due o tre minuti in cui la scena era tutta sua. Nei titoli di coda lessi che l’attore si chiamava Bob Odenkirk.

Oggi, leggendo qualche testata americana, scopro che tra le serie televisive più amate degli ultimi anni ci sono Breaking bad e Better call Saul. Scopro che Bob Odenkirk è sempre stato scrittore più che attore, di commedia più che di drammi. Infatti, dopo il grande successo di Better call Saul, gli hanno fatto scrivere l'autobiografia, e lui l’ha intitolata: Comedy, comedy, comedy, drama.

Andando a scavare ancora più a fondo scopro che Bob Odenkirk ha lavorato per anni come scrittore di sketch proprio a Saturday Night Live. Prima ancora, agli esordi, aveva creato una serie, sempre di sketch comici, intitolata Mr. Show, col collega e amico David Cross, attore discretamente famoso nel mondo della commedia, il cui ruolo più importante è Tobias Fünke in Arrested development (2003-2019).

Ho acquistato su Amazon il dvd unico di Mr. Show. L’ha mia madre a casa. Le cose che non posso far arrivare ai locker le faccio arrivare in negozio a mia madre, che a 75 anni tiene ancora aperto.
Prima ancora di Mr. Show, Bob Odenkirk ha esordito nello show vincitore di un premio Emmy: The Ben Stiller show. Il dvd con i 13 episodi di questo reperto degli anni ‘90 l’ha trovato mio nipote su Ebay e l’ha fatto arrivare a casa mia. Me l’ha regalato. Che bravo nipote. È appassionato di cinema, il suo idolo è Adam Sandler ma è anche amante di Ben Stiller, Judd Apatow e cricca, ed è laureato in filosofia. È una gioia avere un nipote così. Ma tutti i nipoti sono una gioia.

Solitudine moltitudine

Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46)


Essendo Gesù modello dell’uomo, la Croce di Gesù è modello di ogni croce. Studiando la Croce di Gesù comprendiamo anche le tappe delle nostre croci. Una delle caratteristiche della Croce è sentirsi completamente soli. Ci sono due tipi di solitudine, quella in cui ci si sente isolati rispetto agli esseri umani ma resta il legame con Dio, e quella in cui ci si sente abbandonati anche da Dio. Come si sa dall’ordine degli eventi della Passione di Gesù, sentirsi abbandonati da Dio è il culmine della Croce. Dopo il grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, resta solo il tentativo di un soldato di dissetarlo con una spugna imbevuta d’aceto, poi Gesù muore.
Il culmine della Croce è dunque Gesù abbandonato. Chiara Lubich lo ha ben compreso, e ha fatto di Gesù abbandonato uno dei motti del Movimento dei Focolari.

Personalmente, ho sperimentato che sentirsi soli al culmine della Croce si accompagna con l’essere in mezzo alla gente ed essere sotto lo sguardo della gente. È una solitudine atroce. Ci si sente completamente abbandonati ma allo stesso tempo si è in mezzo a una moltitudine che guarda. La moltitudine, guardando, capisce cosa provi. Si immedesima in te. Nessuno, però, muove un dito. Anzi, la moltitudine gode nel vedere uno in quelle condizioni. Doveva essere la sensazione di tutti coloro che in passato subivano, come punizioni, supplizi. Vedere uno che soffre al nostro posto genera spesso consolazione. È la reazione animale dell’uomo. Mors tua, vita mea. Se l’uomo vuole però elevarsi a qualcosa di superiore, cioè essere pienamente uomo e vivere la dignità che ciò comporta, deve seguire la Parola di Dio: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto” (Rm 12, 15).

Ho vissuto al massimo questa fase della croce, questa solitudine-moltitudine, quando facevo il corriere in centro a Brescia. Dovevo spesso camminare con in spalla una borsa piena di pacchi per le piazze principali della città (piazza Duomo, piazza Vittoria e piazza Loggia), più i corsi pedonali (corso Mameli, corso Zanardelli e corso Palestro). Intorno a me, gente seduta ai tavoli che mi guardava sudare e faticare. Come mi vergognavo. Sentivo i pensieri della gente: “Non è capace. È alle prime armi”. Sentivo gli scherni dei ragazzi: “Corriere Amazon, che valutazione diamo?”. Arrossivo per la vergogna. Non c’era niente di cui vergognarsi, ero pur sempre al lavoro. Però era per me una situazione difficile, un lavoro già di per sé croce, in cui mi sentivo abbandonato da tutti, costretto a farlo e con nessuno disposto ad aiutarmi, cioè a togliermi dalla mia miseria; in più ero osservato con attenzione da moltitudini di persone che erano in grado di leggere perfettamente le mie emozioni. C’era inoltre chi guardava con livore e invidia, i commercianti il cui lavoro è diminuito causa Amazon. Poche volte ho sentito il sostegno della gente. Per lo più ero osservato, schernito e odiato. Tre anni così. Sono stati difficilissimi.

Per sei mesi, ringraziando Dio, ho consegnato in campagna ed è stata tutta un’altra vita. Adesso sono tornato in città, alternando con la campagna. Uffa. 


Cambio di regime

Presso il villaggio di Albocásser, Yuste ed Erquicia erano contro il regime appena salito al potere, perciò temevano in ogni momento una rappresaglia. Yuste, per prima cosa, pensò a Ibanez, la sua cagna, che aveva appena avuto una cucciolata. Disse: “Se vengono a portarci via, devi sapere come sopravvivere!”. Le mostrò i luoghi dove c’erano acqua e cibo e dove poteva nascondersi. “Questo è il lavabo, basta tirare la leva ed esce l’acqua. Questa è la dispensa, qui c’è ogni sorta di carne essicata e in scatola, dovrai usare i tuoi denti per aprire le scatole. Inoltre ci sono pane di orzo e carrube in quantità. In questa botola, sollevando il coperchio e scendendo la scala di legno, potrai portare i tuoi cuccioli per nasconderli”. Ibanez seguiva scondinzolando, ma a ciascuna tappa e a ciascuna spiegazione abbaiava e guaiva, facendo due o tre passi all’indietro; si lamentava perché sarebbe dovuta restare sola in quella casa, non voleva che la famiglia che amava se ne andasse. Il 17 luglio, uomini del regime arrivarono a casa di Yuste ed Erquicia e portarono via loro e i figli Moles, Noguera e Molina. Li misero in un carcere dove Yuste ed Erquicia morirono di fame. I figli fecero ancora in tempo a vedere il cambio di regime e a tornare. Trovarono che la casa era stata occupata da una famiglia fedele al regime. Girando per il bosco a cercare cibo trovarono Ibanez coi suoi cuccioli ormai cresciuti. Da tempo avevano finito quanto c’era in dispensa, e infine erano stati mandati via dai nuovi inquilini. Ibanez aveva imparato a cacciare, e così i suoi quattro cuccioli ormai cresciuti. I cuccioli furono battezzati Benildo, Bustos, Juanmarti e Nadal. Presto i figli di Yuste trovarono lavoro presso le piantagioni, e si trasferirono nei tuguri con gli operai. Ibanez e i suoi cuccioli andavano sempre a trovarli, per far due salti e due scodinzolate.

L’ironia esistenziale in Jacob von Gunten

Il noto senatore italiano Umberto Bossi ha avuto un figlio, Riccardo, dalla prima moglie, Gigliola, e tre, Renzo, Roberto Libertà ed Eridano Sirio dalla seconda, Manuela. Fino a quando hanno vissuto assieme, più o meno fin dopo l’età dell’adolescenza, i tre figli di Bossi hanno dormito nel letto del padre e della madre, nelle posizioni più disparate, alcuni rannicchiati alla base, per questo il letto era di dimensioni superiori alla norma.

Che significato hanno gli applausi prima dei concerti, quando entra l’orchestra? Ricordano le precedenti imprese dei musicisti? Una continuazione degli applausi dell’ultima volta? Tipo: “Quella volta lì, nell’inverno del ’97, sei stato bravissimo. Ricordo!”.

Esiste l’app Kindle, si installa sullo smartphone e lo trasforma in Kindle. Sul telefono ho una biblioteca di una trentina di libri. Faccio fatica a trovare qualcosa da leggere. Non so che malattia ho, ma benché da giovane leggessi parecchio, ora trovo difficile digerire qualsiasi cosa. La narrativa, la cosiddetta fiction, in particolare, crea problemi. Ci vorrebbe un’analisi approfondita. Un problema è sicuramente le nove ore di lavoro. Ho messo da parte Guerra e pace (cartaceo) dopo averne letto un terzo; ero arrivato ad Austerlitz; ha influito l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Con Scientia Crucis di Edith Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce) vado avanti lento, è un compendio, con citazioni di ampi passi, di La salita al monte Carmelo di San Giovanni della Croce. Tanto vale leggere La salita al monte Carmelo. Ho appena riletto, dopo anni, A colpi d’ascia di Thomas Bernhard, secondo me il suo capolavoro, scritto di getto dopo essere tornato a casa dalla cena descritta. Di Bernhard posso leggere qualsiasi cosa (tranne il teatro e Amras) in qualsiasi momento senza stancarmi, è una sorta di salvezza. Nella biblioteca ho anche i lavori di Ariano Geta, di cui ho letto Aikawa High School (Volume 1) e parte di Storie di scrittori. Uno scrittore genuino e fresco. Scarico estratti a destra e a manca. Ho messo da parte Verga, Deledda, Woolf, Calvino (Lezioni americane, che in passato lessi con avidità). Ogni tanto riesco a leggere un racconto di Čhecov, giusto uno, poi chiudo. Čhecov lo reggo e amo. Tra le letture raccomandate ho trovato un certo Robert Walser, primi ‘900, svizzero; ho letto qualcosa su Wikipedia da cui ho ricavato che è stato sfigato in vita, l’anello di congiunzione tra Kleist e Kafka. Ho scaricato l’estratto di Jacob von Gunten. Una scoperta. Lo sto leggendo, un capitoletto alla volta, mi piace, non tanto per il contenuto, c’è poco ormai sotto il sole che mi interessi, ma per il modo di scrivere, sempre ironico.

Trovo il signor Benjamenta decisamente bello. Una magnifica barba bruna... che? Magnifica barba bruna? Sono un idiota. No, nel signor direttore non c’è niente di bello, niente di magnifico, ma si sente che quell’uomo ha dietro di sé lunghe vicissitudini, gravi colpi del destino; ed è questo elemento umano, questo elemento quasi divino a farlo bello. I veri uomini, gli esseri autentici, non sono mai belli. Un uomo che porti una barba veramente bella, o è un cantante d’opera, o un caporeparto ben pagato di qualche grande magazzino. Sono i finti uomini, di regola, a esser belli; possono però anche darsi eccezioni, possono esservi bellezze virili, piene di gagliardia.

Una signora camminava sul marciapiede. Un anziano inciampò e cadde davanti a lei. Non riusciva ad aiutarlo e altri accorsero, così pensò, almeno, di chiamare le forze dell’ordine. Che numero è? Il 112 o il 113? Forse il 118, per casi come questo? 112... 113... 118... computava in mente... Che confusione! Nel tempo che impiegò a pensarci, la polizia era già arrivata, assieme a un’ambulanza.

Quando si allineano le stelle

“Buon Natale! Ciao, Vincenza!”.
“Barto... hai tempo?”.
“Guarda, sto proprio iniziando a mangiare...”.
“Bartolomea... qui è un disastro...”.
“O Dio, cos’è successo? Scusa, papà, ti spiace se mi alzo un attimo? ”.
“Veramente stiamo iniziando a mangiare, dai, il pane va mangiato caldo!”.
Bartolomea copre lo speaker. “Vedo solo cosa c’è, un secondo!”.
Si alza, va verso la porta che dà sulla cucina, si ferma con le spalle al padre.
“Eccomi! Allora, Vincenza, dimmi tutto!”.
“Sei sicura che puoi parlare? Se no, ci sentiamo dopo”.
“Ma certo! Dimmi! C’è solo mio padre, che ha preparato un sacco di roba e ci tiene, lo sai com’è...”.
“...c’è un’altra... Tito...”.
“Come, c’è un altra? Un’altra donna?”.
“È arrivato un messaggio Whatsapp con gli auguri di Natale. Ha fatto finta di niente. Gli ho chiesto di chi è e ha detto: ‘Un collega, non lo conosci’... ed è andato di là”.
“Ma chi, Tito? Non ci posso credere! Sei sicura?”.
“Adesso mi stanno chiamando... vado, è pronto. Scusa, scusa, se ti ho disturbata. Torna pure da tuo padre. È che... è proprio un disastro. Poverino, ti starà aspettando, lì da solo! Qua sta andando tutto a rotoli, Barto...”.
“Non preoccuparti, dopo parliamo, ok? Chiamami appena puoi. Buon Natale”.
“...”.
Bartolomea si siede. “La Vince...”. 
“Qualche problema?”. 
“Lasciamo perdere, poi ti spiego...”. 
“Mangia il salmone, il pane va mangiato caldo”. 
“Mmmh, buono!”. 
“Buono pane-burro-e-salmone, eh? Tua madre lo faceva sempre, a Natale”.
“È buonissimo...”. 
“Cos’ha la Vince?”. 
“Non s'è capito niente, per me è fissata... Il problema è che da quando è nel nuovo ospedale, da sola, non si trova bene. C’è una collega più brava che la tormenta, non si capisce..”. 
“Perché, la Vince non è brava?”. 
“Ma sì, è brava, fa il suo lavoro, però... evidentemente, in un ambiente nuovo, senza amici, la competizione è alta...”. 
“Certo, non può esserci dappertutto il clima del Policlinico, nei piccoli ospedali...”. 
“Non doveva andare dietro al suo Tito. Cambiare città non è una barzelletta... eravamo una squadra...”. 
“Eh, l’amore è così, acceca!”. 
“Ottime queste acciughe, dove le hai prese?”. 
“Da Negrisoli, ho voluto provarle, di solito le prendo al mercato, queste costano il triplo...”. 
“Sono fantastiche!”. 
“Menomale, dai... Che effetto ti ha fatto quando la Vince è andata via?”. 
“Papà, non so, cosa vuoi che ti dica?”. 
“Le hai insegnato tutto”.
“Cosa vuoi che le abbia insegnato? Non le ho insegnato niente!”.
“Eravate inseparabili... e sappiamo che la bambina prodigio sei tu!”. 
“Dici così, solo perché sei mio padre”. 
“Non fare la finta modesta. I premi di scherma in quella stanza, le borse di studio parlano chiaro, per non parlare delle vite che hai salvato!”.
“Papà, è grazie a te se sono a questo punto”. 
“Sono pronti i gamberoni”.
“È che... me la sarei aspettata più forte”.
“Tua madre li faceva sempre”.
“Da quando è arrivata in ospedale ha fatto passi da gigante... Papà, quanti ne hai fatti?”.
“Un chilo”. 
“Ma sono troppi! Ce la facciamo a mangiarli?”. 
“Io non ne mangio, lo sai che non posso”.
“Devo mangiarli tutti io? Sei fuori!”.
“Non puoi lasciarli lì, stasera non sono più buoni”.
“Papà, non ce la faccio!”. 
“Inizia a mangiarli, che vanno mangiati caldi”.
“Mi scotto le dita!”. 
“Aspetta un attimo... poi c'è il vitel tonné”. 
“No, io non ce la faccio. Il vitel tonné lo mangio stasera”.
“Ma se stasera andiamo dai nonni!”. 
“Ah, già... La Vince è lì con tutta la famiglia. Sono un bel po’, loro”. 
“Dille di venire con noi, stasera. Così potete parlare”. 
“Non so, anche lei avrà parenti da cui andare”. 
“Il vitel tonné lo portiamo dai nonni, al massimo lo lasciamo a loro”. 
“Non capisco perché la Vincenza non riesca a sfondare. Buoni questi gamberoni. Quand’era qui, era la migliore neurologa dell’ospedale. Le sue diagnosi sono state fondamentali in tutti i miei interventi, per non parlare delle cure... Non ho salvato vite da sola, papà. È stato anche merito della Vincenza”.
“Sì, ma... buoni, eh? Le hai insegnato tutto tu... la vita in ospedale... quando era arrivata era poco più di una matricola...”. 
“Non penso di avere tutto questo peso”. 
“Ascolta tuo padre, che ti vuole bene e ha sempre sostenuto la sua bambina in tutti questi anni. Sei il miglior neurochirurgo che c’è oggi in Italia, e questo non è frutto solo del duro lavoro...”.
“Duro lavoro che hai fatto anche tu, papà, col sostegno, la pazienza...”. 
“Lascia perdere, il tuo è talento, genio, come vuoi chiamarlo...”.
“Papà...”. 
“Lasciami finire. La Vincenza non è come te, Bartolomea, non ha le tue doti, il tuo dono. Quando era al Policlinico si è attaccata a te e non ho niente da dire sul vostro rapporto... bellissimo... e oltre ad aver imparato tutto del mestiere, ha anche avuto la tua protezione, la protezione della tua anzianità... Le hai dato tutto... Vuoi che dica cosa penso? Lasciare tutto questo, per seguire un Tito qualsiasi a Perugia, è una mossa da cervello di gallina. Si credeva arrivata, e invece in un piccolo ospedale la stanno mettendo sotto i piedi. Un po’ di gorgonzola? Tua madre lo adorava!”.
“No, grazie, sono piena”. 
“Va be’, lo strudel lo mangi, l’ho fatto apposta. Se no, c’è il gelato”.
“Davvero, non ce la faccio più”. 
“Ma neanche due noci, ci sono i datteri, il torrone... la frutta? Neanche la frutta?”.
“Sto esplodendo! Voglio chiamare la Vincenza”. 
“Aspetta un po’, sarà a tavola”. 
“Ma sì... Spero solo che regga... Sembrava così tragica... Se davvero Tito l’ha tradita è la fine!”.
“Partitina?”.
“Dai!”.
“Bartolomea, figlia mia, ti voglio bene, è Natale, lasciatelo dire... sono orgoglioso di te... lo sarebbe anche tua madre!”.
“Papà... grazie, anch’io ti voglio bene, sei sempre stato il miglior papà che si possa avere. Dove sono arrivata è soprattutto merito tuo. Mi hai fatto da papà e da mamma!”. 
“Non mi far commuovere...”. 

“Ciao”. 
“Ciao...”. 
“Allora? Come sta la miglior neurologa di Perugia?”.
“La peggiore, vorrai dire...”.
“Dai, non buttarti giù! Devi solo ingranare...”. 
“Non riesco... qui è diverso dal Policlinico, un altro pianeta. E quella pazza ce l’ha con me, vuole annientarmi, è troppo competitiva...”. 
“Posso immaginare... ma voglio che ti renda conto che anche qui le cose non sono le stesse senza di te... eravamo una squadra... non so... le stelle si sono allineate...”. 
“La verità è che continui a macinare successi, mentre io sono regredita... è difficile spiegare... mi sto rendendo conto che senza te sono nulla... come se dovessi ricominciare da capo... mi hai insegnato tutto... vivevo alla tua ombra...”. 
“Non dire così... hai le tue capacità, la tua vocazione... devi sempre ripartire da lì...”. 
“Facile parlare, per la miglior neurochirurga d’Italia!”. 
“Vincenza... sai meglio di me che certi giudizi lasciano il tempo che trovano!”.
“Con Tito non va, Barto... sembra non più interessato a me... è fra le nuvole...". 
“Cos’è quella cosa che hai detto prima, del messaggio...?”. 
“Ma niente... alla fine l’ha mostrato, era un collega... appena arrivato... straniero... non so perché ci ha messo tanto...!”.
“Non sarai paranoica? I nostri discorsi sulla gelosia...?”.
“Non sono gelosa, è che... si è allontanato. Secondo me non mi rispetta più!”.
“O Dio... Vincenza, guarda che queste sono paranoie! Voglio che tu sappia una cosa, ascolta... Il Policlinico sarà un ambiente a sé, privilegiato, se vuoi, ma ciò che è successo nel periodo in cui sei arrivata tu non si è più ripetuto... eravamo davvero una squadra... Angelario primario, il pool di infermieri, il contorno... affiatatissimo! È stato un gruppo messo assieme dalle stelle... ha tirato fuori il meglio da ciascuno”.
“Sì, ma... io... tu...”. 
“Ascolta, Vince, fammi finire. Ciò che voglio farti capire è che oggi non è più così, il gruppo è disperso, tu non ci sei più... non è più come prima”. 
“Sì, ma è pur sempre il Policlinico, dove si fanno grandi cose...”. 
“Lascia perdere, Angelario è in Svizzera, il primario è Giuliazzi, ho tutti contro, non sai in che condizioni lavoro...”. 
“Tanto il successo non è mutato...!”.
“Ringrazio il cielo per questo!”. 
“Bartolomea, non credere sia invidia. Ti voglio troppo bene. Mi hai dato tutto. Sono quello che sono grazie a te. Gioisco con te e con l’intero mondo clinico per i tuoi miracoli. Il problema è che sto affondando! Non ho il tuo carattere e nemmeno i tuoi doni, sono una professionista di medio rango. Mi rendo conto ora che quando ho iniziato non sapevo neanche cosa facevo... sei stata il mio mentore. Da sola non ce la faccio a difendermi da quell'invasata della Mastroianni...! È troppo brava, e mi odia! Il resto del reparto mi ignora. È come se il mio curriculum valesse nulla! Tutto ciò che ho fatto al Policlinico è carta straccia!”.
“Non devi lasciarti abbattere! Fa’ il tuo dovere, e vedrai che tutto andrà a posto. Non dobbiamo sempre essere i migliori. Basta mandare avanti la baracca...”.
“Lo dici, ma non lo pensi, non fare la condiscendente con me, so che per te il lavoro è la vita, non c’è giorno in cui non dai il meglio...”.
“Perché non fai anche tu così? Da’ il meglio e non scoraggiarti per i salti indietro”.
“Hai ragione, hai ragione, so che hai ragione!”. 
“Vedrai che tutto andrà bene, continua a guardare avanti e non fermarti. A proposito... cosa fai stasera?”. 
“Cosa vuoi che faccia? Resto in famiglia, da noi usa così. Tra poco c’è la tombola”.
“Sono contenta tu sia sempre legata alla famiglia...”. 
“La mia famiglia è tutto. Lo sai. Anzi, ho fatto un errore ad allontanarmi da mia madre. Domani si va dagli zii di Tito, in serata si parte per Perugia”. 
“Mio padre ha suggerito di invitarti con noi dai nonni, stasera, ma l’ho detto che non ce la fai”. 
“Che tenero! Ringrazialo! Purtroppo non riesco, abbiamo tutto programmato”. 
“Vincenza... lo sai che ti stimo più di chiunque altro. Sei la mia migliore amica. Dopo mio padre, sei la persona più importante che ho. Non ti voglio bene, di più!”.
“Grazie, Bartolomea, le tue parole sono corroboranti. Anch’io ti voglio bene come alla mia anima. Le ragazze come me si attaccano a un uomo come Tito, sai che dev’essere così, non posso essere come te, sogno il principe azzurro, mi rendo conto di aver fatto un errore a lasciare ciò che avevamo, per Perugia... Bartolomea...”.
“Non occorre tu dica altro, ho capito tutto. Vincenza, nella vita occorre fare scelte. Non affliggerti. Continua a lavorare come sai. Se con Tito le cose non funzionano, non sarà un dramma. Ci sono milioni di Titi al mondo”.
“Hai ragione, hai ragione, so che hai ragione”.
“Buon Natale, Vince, goditi i tuoi e a presto”.
“Buon Natale, Barto!”.

***

“Ciao Vince!”.
“Ciao! Hai letto?”. 
“Cosa?”. 
“Non hai letto le notizie?”. 
“Non ancora...”.
“C'è un articolo sul Messaggero. Assalto a due gay a Roma”. 
“Assalto a due gay?”. 
“Sì!”. 
“A Roma?”. 
“Sì!”. 
“Da parte di chi?”. 
“Militanti di Forza Nuova. Li hanno arrestati; o meglio, due li hanno arrestati. Erano in gruppo”. 
“Non so niente...”. 
“Indovina chi è uno dei due?”. 
“Uno degli arrestati...?”. 
“No! Uno dei gay!”. 
“O Dio... chi?”.
“Non indovini?”. 
“Non so... qualcuno che conosco?”.
“Sì!”. 
“O Dio, chi?”. 
“Dai!”. 
“Non ne ho idea!”. 
“Lo dico?”. 
“Dillo!”.
“Tito!”.
“Tito?”. 
“Sì!”. 
“Eh?”.
“Tito!”. 
“Ho capito!”.
“Tito era a Roma con Horn!”. 
“Chi è Horn?”. 
“Un collega. Gay!”. 
“Ah! Forse ho capito!”. 
“Hai capito adesso?”.
“Credo di sì...”. 
“Sono andati a Roma per il congresso GA-GI. Li hanno trovati mentre si baciavano a Trastevere”.
“Quelli di Forza Nuova...”. 
“Sì, gliel’hanno date, 15 giorni di prognosi”. 
“Nooo!”. 
“Sì!”. 
“Non ci credo!”.
“Eppure...!”.
“Il tuo fidanzato non solo è gay, ma va a finire sul giornale...!”. 
“Tu pensa!”. 
“C’è poco da stare allegri!”. 
“Io lo sapevo!”. 
“Che era gay?”. 
“Certo!”. 
“Da quando?”.
“Da Natale! Ti ricordi?”. 
“Sì, ricordo!”. 
“Era lui. Era Horn!”. 
“Il famoso messaggio!”.
“Quello!”. 
“Pazzesco!”. 
“Me lo sentivo!”. 
“Eri convinta non ti rispettasse più come dottore!”. 
“Infatti!”. 
“Invece è solo dell’altra parrocchia!”. 
“Mi dispiace per lui. Davvero. Finire sui giornali...”.
“Quanto ha influito sulla tua autostima...”. 
“Già ero nei casini, ci mancava solo il fidanzato gay. Capisci perché era distratto?”. 
“Già...”.

***

“Ciao Vincenza, buon Natale!”.
“Buon Natale anche a te. Sai cosa? Corrado dice che vuole conoscerti”.
“Ma certo, volentieri! Anche a me farebbe piacere finalmente conoscerlo, questo Corrado”.
“Sai, Barto, mi sa che ci siamo!”.
“Sarei davvero felice per te, Vince. Ti considero una sorella, la tua felicità per me è importantissima”.
“Mi sto dando davvero da fare. Mi fermo in ospedale anche dopo l’orario di lavoro, se necessario. La Mastroianni è rimasta colpita. È vero che è lei l’indiscussa regina dell’ospedale, ma almeno i rapporti sembrano meno glaciali”.
“Menomale...”.
“Sto iniziando a ottenere un po’ di rispetto... Le mie diagnosi sono risultate infallibili al 90%. Mi sono davvero rimboccata le maniche”.
“Dormi, almeno?”.
“Quattro, cinque ore. Sono distrutta. Non so come faccio a reggermi in piedi”.
“Sta’ attenta, la mancanza di concentrazione può compromettere il lavoro”.
“Lo so, Barto, lo so. Al momento va bene così. È l’unica occasione che ho. È la mia vocazione, non l’ho dimenticato. Se è la mia vocazione, devo dare tutto. Non posso pensare di lavorare all’acqua di rose e che tutto mi venga dato in grazia. Devo metterci del mio. Quando ero al Policlinico, vivevo alla tua ombra. Qui ho davvero dovuto tirare fuori tutto ciò di cui sono capace”.
“Sono orgogliosa di te, Vince. Ma temo per la tua salute, non starai dando troppo? Non rovinarti”.
“Da che pulpito! So che non pensi ciò che dici. Ti preoccupi per me e mi consideri ancora una bambina. Ma sei la prima a dare tutto sul lavoro”.
“Dormo sette ore, Vince. Non mi esaurisco”.
“È perché non hai bisogno di esaurirti, ti riesce tutto facile”.
“Be’...”.
“Non volevo dire facile. So quanto ti spendi per il lavoro. Ciò che volevo dire è più facile. Sappiamo entrambe che hai doni che pochi hanno”.
“Grazie, Vincenza”.
“Niente ringraziamenti, è realismo. Sei un prodigio, mentre altri, anche solo per ottenere una parte di ciò che ottieni tu, devono sudare sette camicie”.
“Non so che dire... Voglio solo il tuo bene. Corrado è davvero quello giusto?”.
“Credo di sì, Barto, l’ho trovato! Insieme stiamo benissimo. In più, è di sostegno. In reparto è sempre presente e, anche se è solo caposala e non un dottore, ha autorevolezza. Lo rispettano. Poi, mi ama e crede in me! Non come Tito... mister Assicurazioni Generali aveva proprio la testa da un’altra parte...”.
“Sono così felice per te. Capisco che il compagno della vita per te è una componente decisiva. Con l’uomo giusto accanto, puoi fare miracoli”.
“È così! Davvero ormai sono rispettata e ascoltata. I risultati sono buoni. Come ho detto, ho lasciato una buona impressione sulla Mastroianni quando in occasione di un intervento di Craniofaringiomia, nel quale il mio apporto è stato fondamentale. Mi sta costando essere al livello della situazione, però questa è la mia vocazione, finalmente do risultati. Non è come quand’ero al Policlinico, però... Sono indipendente”.
“L’ho detto, le stelle si sono allineate...”.
“Hai ragione, hai ragione, so che hai ragione. Barto, ringrazio il cielo per aver trovato un’amica come te”.
“Anch’io Vince. All’inizio mi è sembrato di farti da mamma”.
“Ti è riuscito benissimo! Dev’essere perché la mamma non l’hai avuta, allora sei stata per me una speciale figura materna”.
“Da quando sei andata a Perugia non ho più potuto farti da mamma. Hai dovuto cavartela da sola. Finalmente...”.
“Finalmente!”.

I tedeschi rovina giornata

Filocamo telefonò alle 8,20, l’ora in cui sarebbe dovuto essere a casa di Alipio, e disse: “Sono un po’ in ritardo. Sto partendo adesso”. “Va bene, ti aspettiamo!”, rispose Polvorino, figlio di Alipio.
Filocamo, Polvorino e Solorzano, i figli maggiori di Alipio, quel giorno andavano al lago di Garda, Toscolano Maderno, Lido degli Ulivi.
Si chiama Lido degli Ulivi perché alle sue spalle c’è un appezzamento con una piantagione di ulivi. La piantagione separa la spiaggia dalle prime case o, sarebbe il caso di dire, dai primi residence. Toscolano Maderno: residence, hotel, case da villeggiatura, un benzinaio e un paio di supermercati.

Alle 8,30 Filocamo era a casa di Alipio. Pronti per partire.

Pranzi al sacco. Filocamo, a parte l’acqua che portava da casa, se l’era procurato alla forneria. Un pezzo di focaccia, un pezzo di pizza e una tortina di sfoglia ripiena al formaggio.
I fratelli fecero fermare Filocamo a Vallio Terme (metà strada) e si procurarono il pranzo in una salumeria di paese, economica. Comprarono una bottiglia d’acqua, due bottiglie di birra da 66cl, otto filoncini, salame, coppa.

Alle 10,00 prendevano possesso di una panchina alle spalle della spiaggia. La spiaggia è una striscia di sassi spalleggiata da un prato, panchine, strada, ulivi. Tra una panchina e l’altra, platano.
La panchina fu coperta da asciugamani e zaini. Solorzano aveva portato una sedia di plastica pieghevole a schienale alto. La sistemò a sinistra della panchina, il posto del boss.

Solorzano è stato camionista tutta la vita. Nel 2016, ubriaco con un amico al lago, non va a fare apprezzamenti a una ragazza su un pullman? Un testimone falsamente afferma di aver visto contatto fisico. Solorzano si becca molestie sessuali, due anni di prigione a Pavia e due ai domiciliari, scontati per la fine del 2021. Attualmente disoccupato.

Bagno, lettura di Gabriele Amorth, Racconti di un esorcista all’ombra di un ulivo, altro bagno, pranzo, gita al bar per gelato e caffè, pisolino all’ombra di un ulivo, finisce il pisolino e...

Filocamo torna alla panchina. Polvorino e Solorzano, un anno di differenza, stanno facendo il bagno. Due famiglie di tedeschi con due figli per famiglia, approfittando delle assenze hanno steso i loro pesanti teli, quasi coperte, sotto il platano e davanti alla panchina. L’erba, sotto i platani e presso le panchine, non c’è, c’è terra con sassolini, qualche radice platanica che fuoriesce, un telo da mare è troppo sottile, i tedeschi sono attrezzati, il lago è loro, sono loro i principali destinatari delle strutture turistiche del lago di Garda, i tedeschi... fanno ciò che vogliono.
Mentre Filocamo si accosta alla panchina, sonno ancora negli occhi, è costretto a vedere un gruppetto di bambini – intoccabili in quanto bambini – depositare braccioli e costumini bagnati sul suo lato della panchina. Ma anche se volesse sedersi non potrebbe nemmeno allungare le gambe, tanto i tedeschi si sono avvicinati coi teli spessi, perfetti per il tipo di terreno.

Filocamo resta in piedi dietro alla panchina. Come a dire: “Non mi vedete? Sono qui. Sono arrivato. Questo è il mio posto. Levate la vostra roba dalla panchina – non m’interessa sia di bambini”.

Polvorino è il figlio maggiore di Alipio. Qualche anno fa gli è stata riconosciuta un’invalidità psichiatrica dell’80% e ora percepisce una piccola pensione. Lavora come vigile urbano fuori dalle scuole per far attraversare i bambini. Da settembre andrà a lavare i pavimenti nei supermercati. Polvorino è il padre di Alipietto. Alipietto da aprile 2022 è stato tolto alla madre e dato a una comunità di suore in attesa che si trovi una famiglia affidataria.

Filocamo sperava che i tedeschi si accorgessero di lui e dicessero: “Oh, sorry!”, e togliessero in fretta le cose dei bambini. Invece un tedesco era spiaggiato tipo balena in mezzo al grezzo telo, l'altro, in piedi, guardava il lago e mangiava anguria, una donna era seduta nella posizione di Christina’s world, l’altra si occupava dei bambini. Nessuna attenzione, Filocamo totalmente ignorato.

Filocamo iniziò a ragionare che era colpa della sua pancia se non lo rispettavano. Come si permettevano? Avrebbe forse dovuto dire: “Can you move your stuff from the bench? I came here waaay before you. This is my place. You are not supposed to put your stuff there!”. Ma non diceva niente. Accantonate le frasi che poteva dire, restavano i gesti inconsulti. Si immaginava calciare la testa del tedesco spiaggiato come un pallone da calcio, in realtà si sarebbe fatto male al piede, era coi sandali. O gridare: “Fucking German assholes! Take off your fucking stuff from my bench!”.
Alla fine passò sul davanti, spostò le cose appoggiate fino all’orlo e si sedette, braccia allargate, pancia rivolta al cielo. I tedeschi guardarono con sguardo periferale ciò che avveniva. Non dissero nulla, sapevano che Filocamo era nella ragione, i briganti!

I fratelli tornarono. “Non fai il bagno?”. Che gusto c’è, seriamente, a fare il bagno nel lago? Puoi stare al massimo cinque metri da riva se no ci rimetti la pelle! “No, vado a fare un giro”. Non digeriva lo stare a contatto coi tedeschi rovina giornata. Fece un giro il più lungo possibile, stette via 45 minuti. Girò per il paese deserto. Erano tutti alle spiagge. Si comprò una bottiglia d’acqua e un gelato al chiosco, cosa che non avrebbe potuto fare di fronte ai fratelli poveri. Il gelato l’avevano già preso. L’acqua l’avevano portata da casa – ma ormai era calda. Tornò, fece un bagno veloce per accontentarli, provò a leggere ancora qualche riga di Racconti di un esorcista, ma dopo l’ultimo bagno dei fratelli decisero di andare.

Alle 17,00 partirono. A metà strada, in montagna, si fermarono per prendere acqua fresca da una fonte che si raggiunge via sentiero. La fonte era secca. “Il comune l’avrà fatta chiudere per la siccità!”. Arrivarono a casa per le 18,00, Filocamo entrò in casa, bevve un bicchiere di tè offerto, e partì.
Andò al locker Amazon a ritirare il Supradyn, un coprimaterasso matrimoniale per il divano-letto, To the lighouse di Virginia Woolf, il Rituale degli esorcismi, l’antenna nuova per l’auto – non era quello il problema, l’autoradio continua a non funzionare – e per le 19,00 fu a casa.