Balda

A Civitanova Marche c’è un santuario che si chiama Santa Maria Apparente. Civitanova è sul mare, Santa Maria Apparente è campagna, entroterra. Un tempo era paese a sé, oggi è periferia di Civitanova. È un quartiere, però, che prende nome dal santuario e si identifica con la parrocchia. Le altre parrocchie di Civitanova sono San Marone, San Pietro, Cristo Re, San Carlo Borromeo, San Giuseppe Operaio e Santa Maria Ausiliatrice. Sembrano tante, ma Civitanova conta 42.000 abitanti. Sono tutte vicine al mare tranne Santa Maria Apparente. Santa Maria Apparente è talmente addentro la campagna che non sembra nemmeno di essere in un posto di mare. Eppure anche a Santa Maria Apparente c’è qualche B&B, per i turisti che scelgono Civitanova. Una mia nemica, per così dire, fu una parrocchiana attiva in parrocchia che da circa un anno aveva investito in un albergo-ristorante appena rimodernato situato poco oltre il santuario. Anche il santuario era stato ristrutturato di recente, era stato inoltre creato un appartamento moderno alle sue spalle, sopra la sacrestia. L’intenzione era posizionare qualcuno a vivere nel santuario che facesse da guida turistica. Dietro la sacrestia era stato creato un negozio che conteneva ogni sorta di oggetto religioso con l’effige della statua della Madonna che si trova nel santuario, rappresentante Vico Salimbene, il giovane che l’ha vista apparire il 5 giugno 1411, inginocchiato accanto a lei. Rosari, coroncine, immagini, soprammobili, poster, boccette d’acqua a forma di Madonna... Accanto al santuario c’è un pozzo, a cui è collegata una fontana. Il luogo da cui scaturisce l’acqua, secondo la leggenda, è stato indicato a Vico Salimbene da Maria durante l’apparizione. L’acqua è considerata miracolosa. Sono amico di una donna, Libosa, che dopo sette anni di epatite è guarita miracolosamente, tanto che il medico non è riuscito a spiegarlo, grazie a due mesi di cure con l’acqua di Santa Maria Apparente. Libosa va a riempire bottiglie e taniche ogni sabato. La beve, ci cucina e ci si lava. Quando ero a Santa Maria Apparente ero novizio, obbedivo in tutto al mio superiore. Il mio superiore, nonché maestro dei novizi, era stato fatto vice-parroco e sarebbe stato ordinato sacerdote un paio d’anni dopo, a 30 anni. A 31 è diventato parroco della parrocchia di Santa Lucia a Fermo. Per dire il talento che ha. Ha cinque anni meno di me, eppure era mio maestro quando ero novizio. Andava d’accordo con la mia nemica, la parrocchiana che voleva, piamente, riaccendere l’interesse turistico per il santuario, la cui acqua considerava realmente miracolosa, come tutti, d’altronde, in parrocchia, e la cui presenza di Maria considerava certa, come tutti, d’altronde, in parrocchia, compreso me. La parrocchiana aveva però qualche interesse economico, l’albergo-ristorante nei pressi del santuario che da poco aveva rilevato assieme al marito e ad alcuni soci e che contava sarebbe stato alloggio per pellegrini accorsi a frotte su pullman. Per questo ci teneva che noi frati, messi lì, secondo lei, apposta, fossimo sempre presenti per accogliere, imparassimo a memoria la storia dell’apparizione e facessimo pubblicità. Noi però avevamo altre priorità, tra cui il seminario. Nessuno mi ha mai dato l’obbedienza di imparare a memoria la storia del santuario e di restare a fare accoglienza a chi capitava. La mia nemica però non se l’è presa coi superiori, ma unicamente con me. Ero l’unico considerato nullafacente, inutile fardello. Colpa mia se i superiori hanno deciso di stabilire il noviziato a Santa Maria Apparente? Il parroco abitava in canonica, accanto alla chiesa parrocchiale, finita di costruire nel 2010 a un chilometro dal santuario. Il santuario era troppo piccolo e troppo lontano dal centro del quartiere. La chiesa nuova è moderna, capace, così dicono, di accogliere fino a 1000 persone. Nella mia vita da frate, in tutte le parrocchie in cui sono stato, non sono mai stato popolare. Avevo magari il gruppo di affezionati, che credevano in me, nella purezza della mia vocazione, mi chiedevano consigli spirituali, mi sostenevano e pregavano per me. Ma per lo più non sono mai stato ben visto. Sono sempre stato messo in ombra dai miei confratelli, talentuosi, indefessi lavoratori e più puri come storia di vita. Dopotutto ero un convertito, uno che aveva un passato, mentre loro erano tutti vergini che avevano avuto la vocazione da giovani, puri che avevano conservato la purezza fin nella vita religiosa. Non potevo competere con loro. Una persona che mi voleva bene era Balda, la vicina di casa. Da un lato c’era una donna abnegata che per più di dieci anni ha curato il marito operato al cervello e ridotto quasi a vegetale. Dall’altro Balda, una vecchia che per tutta la vita ha coltivato la terra. “Sono sempre stata cencia”, mi diceva spesso. Era piccola ma fortissima. Alle cinque del mattino la vedevo, dalla finestra della mia camera sopra la sacrestia del santuario, uscire nel suo terreno a lavorare. Vangava, bruciava, coltivava. Quando il marito era vivo, facevano gli ortolani. Coltivavano il vasto pezzo di terra alle spalle della casa, poi il marito partiva con l’Apecar e andava al mercato di Fermo coi prodotti. Balda non ha mai smesso di coltivare. Ogni settimana ci faceva trovare, appeso alla maniglia della porta dell’appartamento, a cui si accede tramite una scala posteriore, un sacchetto con ogni ben della terra, insalata, pomodori, zucchine, cavoli, cavolfiori, peperoni, melanzane, quando era stagione fave, poi frutta... Insomma ci voleva bene. Diceva che eravamo degli angeli che di colpo erano arrivati al santuario. Balda aveva perso una figlia a causa di un male incurabile. Diceva che era: “la meglio figlia di Santa Maria Apparente”. Era bella, intelligente, artistica. Lavorava ceramiche e faceva vestiti. Balda mi invitava ad andare nell’orto a vedere come si coltivava. In mezzo alla campagna mi confessava che dopo la morte della figlia aveva pensato spesso di suicidarsi, lo diceva con una sorta di spavento, come se facesse sacrilegio. Però serviva a farmi capire quanto aveva sofferto, quanto la perdita della figlia aveva sconvolto la sua idea di vita e quanto era caduta in depressione. Veniva a messa la domenica sera, sempre vestita di nero, di nero andava anche quando doveva recarsi in città. Ma usciva raramente, il suo posto era la campagna, vestita di abiti trasandati, colorati, indossati perfettamente, usati centomila volte. La domenica mattina c’erano le messe nella chiesa parrocchiale, la sera al santuario. Era parecchio frequentata anche la messa al santuario. A volte ho cantato come un angelo, dirigendo i canti dal microfono. Vedevo le facce stupite della gente. Al santuario facevamo anche matrimoni. Il santuario era gettonato. Accorrevano da tutta Civitanova e da fuori. In qualità di manovale della comunità ero quello che doveva preparare la chiesa. Pulivo chiesa e sagrato (aghi di pino), poi arrivavano i fioristi, poi accoglievo il sacerdote, poi mi mettevo a girare tra gli ospiti, salutando qua e là, pregando mentalmente per la venuta dello Spirito Santo. L’obbiettivo era che il sacerdote parlasse davvero la Parola di Dio. Poteva succedere solo se era posseduto dallo Spirito Santo. “Ogni sapienza viene dal Signore / ed è sempre con lui” (Sir 1, 1). Pregavo così ad ogni messa. Lo faccio ancora. “Signore, ti prego, parlaci attraverso questo predicatore. Fa’ che durante l’omelia possiamo ascoltare non solo una parola umana, ma la tua Parola”. È sempre stata mia opinione che Dio, quando parla attraverso un sacerdote durante l’omelia, lo fa miratamente. Magari non tutta l’omelia è perfusa di Spirito Santo, e magari non per tutti, ma a Dio basta una parola per colpire la persona. A ciascuno la sua. È la parola che ti fa mettere a piangere, che ti fa capire che stai sbagliando in un dato comportamento, che ti converte, che aumenta la tua fede. Dio è preciso. Volevo vedere l’intera assemblea in lacrime durante il matrimonio. Volevo vedere gli intervenuti a messa solo per il matrimonio, e che per il resto non andavano mai, essere toccati da qualcosa. Spesso capitava che l’intera assemblea si sciogliesse in lacrime e anch’io piangevo. Ho sempre pianto, come quando guardo su Youtube i video con i wedding proposal flash mob, dove un gruppo di ballerini inizia a ballare in mezzo a una piazza in cui la fidanzata è stata invitata senza sapere niente, poi si mette a ballare anche il fidanzato, sulle note di Marry you dei Bruno Mars, e alla fine lui le dà l’anello. Alla fine del matrimonio arrivava Balda con la scopa, e insieme ci mettevamo a rammucchiare, come diceva lei, riso e coriandoli. Li mettevamo in un secchio, lei poi usava il riso per le sue galline. Il parroco cercava di vietare i coriandoli, ma ormai negli ultimi matrimoni tutti li usavano. Il fatto è che poi, a causa del vento, andavano sparsi dappertutto, toccava inseguirli per tutto il sagrato, fino alle spalle del santuario. Il parroco era anziano e in ogni caso non si sarebbe mai messo a spazzare coriandoli, c’era sempre qualche pia donna della parrocchia per queste cose. Per quanto riguarda il santuario, in aiuto a Balda c’eravamo noi giovani frati. Libosa e il suo gruppo di preghiera andavano al santuario ogni sabato alle 15,00 per pregare un rosario più coroncina allo Spirito Santo. Libosa diceva che erano state le loro preghiere a far arrivare i frati. Chiedevano a me di fare le meditazioni sui misteri del rosario. Mi preparavo tutta la mattina, scrivendo e mandando a memoria paragrafetti di tre minuti. Ero affezionato al gruppo di Libosa, e loro a me. Sento altre persone della parrocchia tutt’oggi, ma loro no. Forse perché il mio abbandono è stato troppo doloroso per entrambe le parti. Sono sempre stato convinto, basandomi sul primo verso del libro del Siracide, che la sapienza divina sia come il cono di luce sul palco. È sempre lì, fisso, immobile. Tutto ciò che spetta a noi è entrare in esso – ed è anche la parte più difficile, perché si ottiene solo con la santità della vita – poi, una volta lì, non facciamo altro che riflettere la luce con il nostro stesso corpo. Tutto il lavoro è entrare nel cono, poi, una volta lì, non resta da fare altro.




Tutto il mondo è paese

Mentre mi godo il regalo di Gesù di due giorni di malattia per un forte raffreddore, maldigola, tosse, malditesta, febbre anche a più di 38°C, che mi hanno fatto saltare gli ultimi due giorni di picco, dopo che stavo quasi per impazzire a fare la città (zona Ospedale) in 9 ore al giorno senza pause, ricordo una via di Botticino, non ricordo il nome, forse via Cavour, o via Marconi. Ha una ciclabile, e in più, al di là della ciclabile, uno spartitraffico laterale che la separa da un altro spazio carreggiabile che serve ad accedere a un gruppo di condomini. I condomini sono isolati, lontani dalla strada e immersi nel verde, tanto che appunto hanno una carreggiata indipendente, affiancata all’arteria normale, per recarvicisi. Parte della carreggiata indipendente serve anche da parcheggio auto, ma non tutta, perché appunto serve usare quella parte di carreggiata, separata con uno spartitraffico dall’arteria principale, per recarsi ai condomini.

I paesi hanno i nomi delle vie tutti uguali, via Palestro, via Salvo d’Acquisto, via Roma, via Martiri della libertà, ecc. In genere sai che quando trovi questi nomi sei al centro del paese, perché sono vie nominate tanto tempo fa. Le zone nuove sono nominate via 11 settembre 2001, via Giovanni Paolo II, via Sandra Mondaini, via Raimondo Vianello, via Giacinto Facchetti, via Caduti del lavoro, via Donatori di sangue… O le zone industriali, via Industriale, via Artigianale, via Gianni Agnelli (sic). Come corriere so che quando trovo questi nomi, trovo anche una bella zona residenziale, con strade larghe, parcheggi, moderne villette a schiera, ecc. In queste zone è facile consegnare. Non c’è traffico e arrivi col furgone esattamente davanti alla porta del cliente. Le zone centrali dei paesi, invece, via Zanardelli, via Aldo Moro, via Mazzini, via delle Rimembranze, ecc. sono più scomode perché monocorsia, con divieti di sosta estesi, ciottolati, vicoletti da cui bisogna uscire in retro. Per non parlare delle famigerate via Castello e via Chiesa, ovunque scomodissime. Tocca di solito lasciare il furgone lontano e farsi la strada a piedi, portando uno o più pacchi.

Mi cambiano continuamente zona. Praticamente ho fatto tutta la provincia di Brescia (lato est), dalla città alla campagna (la Bassa), al lago di Garda alle montagne (lago d’Idro, Ponte Caffaro, Val Trompia, Val Sabbia e paesini limitrofi). Non c’è rotta che non riesca a chiudere. Quando c’è da fare la città, la danno a me, un po’ perché la conosco, un po’ perché sanno che la porto a termine senza aiuti.
Il fatto che uno sia capace di fare qualsiasi zona, senza bisogno di impararne a memoria una e fare sempre quella è un buon segno, visto positivamente. Di fatto, sei quello sfruttato più malamente, perché ci sono quelli che usano sempre lo stesso furgone e fanno sempre la stessa zona. Costoro fanno la cosiddetta bella vita, mentre gli altri sono trattati da puttane della strada, costretti ad adattarsi a qualsiasi zona anche se non l’hanno mai vista prima, a trovare indirizzi al buio e nella nebbia, ecc.

Un conto è camminare, un conto è camminare portando un peso. Anche Gesù è salito sul Golgotha portando la Croce. È mia convinzione, dopo anni di esperienze e riflessioni, che sia sbagliato diffondere un’idea di Dio come di qualcuno che vuole la nostra felicità su questa terra.

In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. (Mc 10, 29-30)

Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti. (Lc 14, 13-14)

Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. (Mt 6, 1)

Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. (Lc 12, 33)

Se abbiamo già la felicità su questa terra, abbiamo già ricevuto la ricompensa. Uno può anche chiederla, e può anche riceverla – a Dio nulla è impossibile – ma più riceviamo nell’aldiquà, meno riceveremo nell’aldilà.
La vita del vero cristiano è tribolazione, obbrobrio, scandalo e stoltezza, cioè croce. Se Dio vuole farti un vero regalo, ti dà la croce. Come ha fatto col suo figlio unigenito, l’amato, colui nel quale si è compiaciuto.
Lo dice uno che si lamenta quando è sulla croce, perché è un debole, e che si dimena come un pesce fuori dall’acqua, o come un uomo in acqua che annega: rallegriamoci nelle sofferenze, perché la sofferenza è la strada per il Paradiso.
L’unico esempio che mi viene in mente è questo. Padre Elia Maria Bruson, con-fondatore dei Fratelli Francescani Missionari del Cuore di Gesù e di Maria Immacolata (la comunità di cui ho fatto parte), era un frate francescano conventuale, morto nel 2002 per un tumore alle ossa. Ha rifiutato la morfina. I testimoni dicono che negli ultimi minuti, poco prima di spirare, dopo aver attraversato dure sofferenze, aveva sul volto un sorriso e negli occhi una luce di gioia che si potrebbe chiamare solo beatitudine.

Vivere di carità

Siccome non ho qualità, non suscito ammirazione. Si ammira ciò che è ammirabile, si ama ciò che è amabile.

Non ho queste cose. Intendo le amabili. Almeno, ne ho poche. Al momento non me ne viene in mente neanche una.
Siccome non ho nessuna cosa amabile, sono costretto a vivere di compassione.

La compassione è una forma di carità. La compassione a molti dà fastidio, come, appunto, la carità.

Ricevere carità significa che si è in basso. Nella fattispecie, se ricevo carità da qualcuno significa che quel qualcuno è più in alto.
L’esempio più banale… se ricevo un euro di elemosina significa che il qualcuno che lo dà è in partenza più in alto di me, avendo l’euro, mentre io sono più in basso, non avendolo.

Quante volte mi è capitato di ricevere negazioni anche solo mentre provavo a dire una parola buona a qualcuno che aveva subito un fatto brutto. Ad esempio un collega rientrato dal lavoro che aveva fatto un danno al furgone, o un incidente. Ho un collega che ha addirittura fatto un grosso incidente, restando ferito ed essendo stato portato in ospedale con l’elisoccorso, ed è rimasto a casa più di un mese, che da quando è tornato a momenti non parla con nessuno per non dover ricevere atti di compassione. Se si parla con lui, non si sfiora nemmeno l’argomento.

La carità non viene accolta. Eppure quanto è bello ricevere carità. La carità è il modo di agire principale di Dio. Carità significa dare. Ammettere carità significa ammettere di ricevere significa ammettere di non avere.

Ho imparato a vivere di carità. Se si è peccatori, poveri, deboli, vivere di carità significa anche vivere di misericordia.
Una persona può darci fastidio per i suoi difetti. Con essa, per superare il fastidio per i suoi difetti, possiamo usare misericordia.

Nel famoso episodio del lebbroso San Francesco dice che all’inizio aveva ripugnanza ad avvicinarsi al lebbroso. Poi però “usò misericordia” e imparò ad avvicinarsi.

Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo. (Testamento, 110)

Non è colpa del lebbroso essere lebbroso, però spesso viviamo i difetti degli altri come qualcosa che ci dà fastidio, come l’avessero fatto apposta. È per questo che usare misericordia può essere un trucco per superare il fastidio. Perdonare un difetto, anche se non è una colpa.

Il mio confratello fa sempre il rumore di schiarirsi la gola mentre tira su col naso mentre preghiamo insieme… uso misericordia, lo perdono. Perdonare significa subire, tenersi il torto subito. Poi però ci si sente liberi, vengono eliminati rancore e risentimento. Ecco perché il giogo di Gesù è soave (Mt 11, 30). Farsi fare le cose, anche se sembra che gli altri ne approfittino. Lasciarsi fare le cose e lasciar correre… vera libertà. Si è in pace con gli altri e con se stessi. Si è liberi da sentimenti cattivi, odio e giudizio.

Oggi, solennità dell’Immacolata Concezione, è il compleanno di Alipietto, finisce 10 anni. Gli ho comprato La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl. Mi aveva chiesto una lavatrice in miniatura, ma pensavo di non essere in grado di trovarla. (Proprio ora, mentre scrivo, sono andato su internet e ho scoperto che su Amazon ne vendono una di 18 cm di altezza, prezzo 44 euro, l’ho comprata, gliela darò a Santa Lucia o Natale).

Non so se Alipio, nonno di Alipietto, sarà felice che gli darò la lavatrice in miniatura. Già ritiene sbagliato che Alipietto abbia la fissazione per le lavatrici.
Inoltre potrebbe considerarlo uno spreco di soldi. Alipio, da giovane, voleva entrare nella vita religiosa. Ha fatto esperienze alla Certosa di Farneta (LU), coi comboniani ed è persino stato in Francia, coi Piccoli Fratelli di Gesù fondati da Charles de Foucauld. Dopo un po’ che stava via subentrava in lui una sorta di tristezza, così gli è stato consigliato di tornare a casa e farsi una famiglia. Così ha fatto. Ha avuto sei figli. Il primo è il padre di Alipietto. Alipio ha lavorato tutta la vita come insegnante di Italiano alle medie. Quando è andato in pensione si è messo a fare le pulizie di tre condomini con un paio di pakistani. Oggi, che ha 78 anni, va in bicicletta come un missile.
Ammiro Alipio come poche altre persone e penso sia un santo.

Dopo le esperienze nella vita religiosa e dopo essere tornato a casa, aveva un gran desiderio di vivere una vita di carità. Voleva aiutare gli stranieri che arrivavano in Italia. Ha parlato di questo desiderio a un vescovo e ha ricevuto la benedizione: “Fa’ come ti ispira il cuore”.

Da qui nasce il dilemma di come vive Alipio, specialmente nei riguardi della propria famiglia. Ha fatto talmente tante opere di carità – e continua a farle, coi soldi della pensione – che tiene la famiglia in uno stato di indigenza. In casa con sé ha ancora tre figli. Due sono invalidi civili (psichiatrici) e godono di una piccola pensione di invalidità. Il terzo faceva il camionista ma non lavora da quattro anni.

Al di là dei figli invalidi… verso i quali diciamo la responsabilità è ridotta, ma verso la moglie? Il suo caso mi fa venire in mente quello di Lev Nikolaevič Tolstoj. Ricordo di aver letto il diario della moglie Sofja. Tolstoj da vecchio voleva donare, non ricordo a chi, forse allo stato, i diritti d’autore ricavati dalle sue opere. La moglie Sofja voleva opporsi, perché già erano poveri, e in più c’erano i figli da mantenere dopo la morte dello scrittore. Era contraria a queste forme di carità esagerata.

La moglie di Alipio una volta mi ha preso da parte e mi ha chiesto di parlare con Alipio per convincerlo a smettere di dare soldi a stranieri, in particolare a un rom che secondo lei approfitta.
La moglie di Alipio è anziana e non cammina, è mezza cieca per via delle cataratte, ha bisogno di cure ma deve sempre aspettare mesi perché non hanno abbastanza soldi per fare le visite a pagamento.

La vita di Alipio per me è un dilemma. Capisco la volontà di vivere di carità, nel senso di farla. Capisco la volontà di santificarsi dando. Però credo anche che, se ti sei fatto una famiglia, abbia responsabilità anche verso essa. Anzi, hai responsabilità innanzitutto verso la famiglia, già ciò che fai per loro è una forma di carità, perché è un dare senza contraccambio. Poi, se vuoi, se avanza qualcosa, puoi dare anche ad altri. Ma tenere la famiglia in stato di indigenza per dare ad altri, non lo trovo giusto, ed è un dilemma. La vita di Alipio per me è un dilemma, come lo è quella di Tolstoj.
E sì che ammiro Alipio come poche altre persone e penso sia un santo.

Art. 42 ovvero la cena coi colleghi

Nei confronti di Amazon, tra le conquiste del sindacato dei Trasportatori (fondamentalmente è stata la Cgil) nella primavera del 2017 c’è stata l’introduzione del cosiddetto art. 42. Non so di che legge fa parte, so solo che lo chiamano art. 42.
Amazon sta cercando di crearsi una propria logistica per staccarsi dai tradizionali corrieri trovati nei vari Paesi dove è arrivata – in Italia Bartolini, GLS, DHL, SDA e Poste Italiane – e lo fa appaltando a piccoli corrieri sconosciuti, addirittura appena nati apposta per lavorare con il gigante di Seattle. Le ditte sono infinite. I nomi nessuno li conosce. Presso il centro di smistamento di Castegnato (BS), dove lavoro io, ad esempio, ci sono 5 corrieri: Arcobaleno, Global Post, M2, Professional Solution, Sidetra (la mia).
Quando si ordina un pacco su Amazon, nei dettagli della spedizione si può vedere il corriere che consegnerà il pacco. Amazon si serve ancora di Bartolini e compagnia, per cui si può vedere la dicitura: “BRT”, “DHL”, ecc. Nel caso in cui si acquisti con Prime, e il peso del pacco non superi i 15 Kg, lo consegniamo noi. Sotto la dicitura: “Amazon Logistics” rientrano appunto tutte le piccole ditte che ho detto, nate apposta per consegnare Amazon e che consegnano di solito solo Amazon.
Non ho lavorato sempre con Sidetra. Quando ho iniziato (novembre 2017) lavoravo per Rpost, azienda ormai fallita e chiusa. Amazon ha scoperto che facevano magheggi a livello amministrativo e che non pagavano tutte le ore, così ha tolto l’appalto. Amazon su queste cose è molto americana e seria. Non tollera illeciti, italianate, diciamo. Nel giugno 2020 sono passato a Gotaway. Proprio qui c’entra l’art. 42.

Se Amazon toglie l’appalto a una ditta deve per forza inserire tutti i lavoratori in un’altra ditta. Altrimenti potrebbe usare lo strumento del togliere l’appalto per licenziare senza giusta causa. 

Gotaway dopo un po’ ha scoperto che il gioco non valeva la candela, cioè che lavorare con Amazon non fa guadagnare abbastanza. Nel luglio 2021 ha rinunciato all’appalto. Al suo posto è subentrata Sidetra, una ditta veronese che ha iniziato a distribuire giornali e che ora ha anche tre appalti con centri di smistamento Amazon, Castegnato (BS), Burago di Molgora (MB) e Origgio (VA).
Grazie all’art. 42 tutti gli autisti che hanno lavorato con Rpost e Gotaway, il 12 luglio 2021 sono stati assorbiti in Sidetra e hanno continuato a lavorare esattamente come prima facendo persino le stesse zone, dalla città di Brescia al Lago di Garda. È cambiato solo il datore di lavoro, la ditta appaltata, che di fatto è una specie di mediatore tra il lavoratore e Amazon.

L’obbiettivo è che un giorno abbia luogo la cosiddetta internalizzazione e siamo assunti direttamente dal gigante di Seattle. Amazon Logistics sarà l'unico e vero corriere di Amazon. Non vedo l’ora di essere a servizio diretto del simbolo del consumismo...

Il sindacato, nel nostro caso, è entrato in campo anche per ottenere che Rpost (la prima ditta con cui ho lavorato) risarcisse i lavoratori gabbati. Avvocati si sono messi al lavoro. Abbiamo scoperto che Rpost ci doveva circa 3.000 euro a testa. A una quindicina di noi. Dopo lunghe contrattazioni siamo giunti a ottenere, dei 3.000 euro iniziali, 1.500 euro. C’è da piangere per i 1.500 che ci spettavano e non ci hanno dato (e chissà dove sono finiti), ma c’è da ridere per i 1.500 euro puliti che ci sono arrivati via bonifico, dal nulla. 

Abbiamo deciso di festeggiare. Sabato 20 novembre siamo andati fuori a cena.
Anche se sono un fobico sociale, a una cena coi colleghi cerco di non mancare. Penso faccia parte dell’essere un buon collega il fatto di mantenere buone relazioni, anche solo a livello superficiale, con tutti. In quattro anni di lavoro non ho trovato, sul lavoro, amici da dire: “Vediamoci fuori dal lavoro”. Però sono in buoni rapporti con tutti (mi chiamano: “il bonaccione”, o “il gigante buono” ma con fare un po’ dispregiativo, come a dire: “Uno che non ha i coglioni”; ma tutti sanno che sono stato frate), con due o tre in particolare, e quando, due o tre volte l’anno, si fa la cena coi colleghi, cerco di non mancare. In questo caso non potevo assolutamente mancare.
Ho mentito. Con un collega, un certo D., un paio di volte siamo andati a bere una birra dopo il lavoro. È ecuadoriano e ha studiato un po’ di psicologia prima di trasferirsi in Italia a fare mille lavori da operaio. Ma tutti i suoi fratelli e sorelle sono qui, e i genitori non ci sono più. Lo interesso perché dal punto di vista psicologico sono un caso. Vuole che sia felice. Questa settimana gli ho fatto anche il favore di usare la mia carta di credito per prenotargli un’auto a noleggio, perché lui non ha la carta di credito e deve portare a Malpensa la sua compagna ma non si fida della propria auto, un po’ vecchiotta.
Un altro collega, F., palermitano, siccome spesso lo porto a casa, varie volte mi ha invitato a cena. È sposato e ha due figli. In casa hanno una sola auto, che serve per lo più alla moglie. Pur essendo casalinga, deve occuparsi di figli, spesa, visite mediche e commissioni varie. Quindi F. chiede spesso a me se gli do un passaggio. Prima lo facevo più volentieri, perché abitavamo abbastanza vicini. Adesso che ho cambiato casa, la cosa mi costa 20 minuti in più di viaggio. Ma in nome della carità e dell’amicizia lo faccio volentieri. Anche perché F., essendo palermitano, si lega le cose al dito e dà molta importanza all’onore e, per il semplice fatto che gli do passaggi nel momento del bisogno, mi mette su un piedistallo e ormai si è affezionato a me. Pur essendo uno dei destinatari dei 1.500 euro, non è venuto alla cena coi colleghi, non voleva lasciare sola la famiglia. Sul suo profilo Whatsapp, sotto la foto dei figli, c’è la scritta: “La mia famiglia è tutta la mia vita”. Ha la terza media ma è un uomo (o ragazzo, ha 38 anni) di sanissimi e fermissimi principi, persona davvero integerrima, come poche ne ho conosciute.

Siamo andati al ristorante brasiliano. Carne in quantità. Ho cercato di fare la mia parte. Ho sorriso a tutti. Mi sono seduto a tavola. Ho riso alle battute. Mi sono trovato di fronte R., uno dei più anziani di noi (ha tutti i capelli bianchi) e persona che rispetto immensamente. Avevamo due argomenti di conversazione e li abbiamo esauriti tempo che è arrivata la roba da bere. A sinistra avevo il bestemmiatore milanista sindacalista A., uno dei due RSA della nostra ditta, colui che fondamentalmente si interfaccia col sindacato e che ha contribuito a ottenerci i 1.500 euro. Lui la cena non l’ha pagata. A destra avevo M., giovane ragazzo rumeno, bravissimo driver, silenzioso; con lui ho scambiato due parole contate sulle dita. Per fortuna c’era chi sa fare baldoria e che aveva voglia di divertirsi. La mia silenziosità non è stata troppo d’impaccio. E io che avevo persino paura di rovinare la festa. Ma non ho tali poteri. Ho ordinato un mojito come aperitivo, e con la carne ho bevuto vino rosso, che ci portavano fresco in caraffe. La paura di essere fermati dalla polizia e di avere la patente ritirata, che per un corriere significa non poter più lavorare, non ha frenato nessuno. Per quanto ne so, non è poi successo nulla. Sono tutti tornati a casa sani e salvi e ubriachi.
In questo ristorante fanno il giro carne. Finché lasci il cartellino di cartone girato con la parte verde verso l’alto, si fermano da te con spiedi, tagliano un pezzo di carne e lo mettono nel piatto, o tu lo afferri con una pinza in dotazione mentre loro tagliano. Quando giri il cartellino dalla parte rossa significa che ne hai abbastanza e non si fermano più.
Non sono riuscito a parlare molto. Ho soprattutto ascoltato. Le battute mi fanno ridere. Però non so fare battute. Non so perché, proprio non mi vengono. Sarà che sto talmente tanto da solo che non sono abituato alla comunicazione con la gente e le mie battute magari nella mia testa sono divertenti ma quando le dico suonano scemissime, come quelle di un bambino, prive di arguzia. 
Mi ha fatto dispiacere che alcuni colleghi, arrivati in ritardo e che si sono messi dall’altra parte della tavolata, nemmeno mi hanno salutato. In particolare una colleghessa 46enne tutta in tiro. No, a dire la verità lei almeno mi ha salutato. Però poi non mi ha rivolto più la parola. E dire che quando facevamo le stesse zone ci sentivamo tutti i giorni. A quanto pare ho gradito solo io. Un altro, che mi sta molto simpatico e verso il quale cerco di rivolgere sempre qualche battuta delle mie quando ci incontriamo la mattina prima di partire e la sera al rientro, non mi ha cagato neanche di striscio.
Bisogna dire che questo collega, giovane, si chiama come me, F., ma il suo vero nome sarebbe G., un nome femminile. Di fatto è una donna, ma ha scelto di diventare uomo. Da quello che mi hanno raccontato, so che starebbe raccogliendo i soldi per fare l’operazione. Non so in cosa possa consistere un’operazione di questo genere, cioè per cambiare sesso da donna a uomo, ma è ciò che ho sentito. La sera della cena coi colleghi F. è venuto con la moglie, una giovane ragazza della stessa età. Sul lavoro di solito F. scherza con me, quella sera non mi ha neanche cagato. Credo che la ragione sia proprio che era con la moglie. Siccome sa che sono un ex frate, sa anche che se ci addentrassimo in questioni di principio saremmo in disaccordo. Quando si presentò a me la prima volta, quattro anni fa, mi disse solo: “Mi chiamo F., sono della Val Trompia, mi sono trasferito a Brescia con mia moglie per trovare lavoro”. Sono altri che mi hanno parlato della sua identità sessuale. Quindi io e lui (lei) in questioni di principio non ci siamo mai addentrati. Comunque è strasimpatico e mi è dispiaciuto che non mi abbia salutato.

C’era il Piano Bar. Facevano canzoni italiane in portoghese. Che tristezza. Lo dico sapendo di essere un giudicatore e di non dovermela prendere con la gente che vuole divertirsi. Alle 10,00 la gente ha iniziato ad alzarsi dai tavoli e a ballare in uno spazio ristretto di fronte alla pianola. I miei colleghi dicevano: “Andiamo anche noi! Andiamo a ballare!”. Alle 11,00 me ne sono andato (ma se n’era appena andato anche un altro collega che abita a Lumezzane e che non si stava divertendo troppo, pur essendo un tipo dalla loquacità acuta). Ho saputo poi che si sono messi a ballare, anche sui tavoli. Ma quello che ha ballato sul tavolo aveva pippato. Di fatto questo qui, di nome F., è un grande. Ha convertito una lesbica e adesso sono una coppia.

Ho camminato fino alla macchina. Non mi ha fermato nessuno. Sono andato a casa e mi sono messo a dormire. La mattina dopo mi sono svegliato appesantito, triste, consapevole di aver fatto il mio dovere e sempre di più di non essere una persona da tavolata, da divertimento, da rispetto.


Società disgraziata

Che io sia una persona dalle qualità ridotte è risaputo. Almeno, io lo so bene, mi scontro quotidianamente coi miei limiti.
Forse la cosa che mi fa più soffrire di me stesso è la mancanza di amore verso gli altri. Non sono una persona che ama le persone in modo naturale. In me l’amore verso gli altri non è una cosa spontanea.
C’è voluto Cristo. Me l’hanno dovuto insegnare quelli che sono di Cristo.
Il fatto è che ci sono due amori, amore umano e amore divino.
È questo, secondo me, il fulcro della spiritualità del Sacro Cuore di Gesù. Gesù amava sia in modo divino sia in modo umano.
L’amore divino è ovvio. È facile da capire per tutti. Dio è perfetto. In lui non manca nulla, non c’è nessun errore, nessun difetto. Dio è il bene. In lui non c’è nulla di male. La sua perfezione equivale al suo essere il bene. Essere il bene non significa starsene lì e godere di se stesso. Dio ha voluto fare il creato. È un atto di volontà divina la nostra creazione. Come si può non essere felici con tale consapevolezza? Dio ha voluto me. Il sommo bene, la cui intelligenza supera tutte le intelligenze, la cui capacità di fare il bene supera quella di chiunque altro, la cui abilità di scelta e di attuazione della propria volontà è perfetta, ha scelto di fare me. Impazzisco di gioia.
L’amore divino è inoltre infinito. La sua perfezione contiene tutte le perfezioni, e fra queste c’è anche l’infinitezza. L’amore divino è un flusso continuo, senza fine, senza macchia, senza esitazioni, senza cedimenti.
Il fatto è che Gesù, per una dote di natura o per come è stato educato, amava anche di amore umano. Il Sacro Cuore di Gesù è un cuore umano che ama gli uomini di amore umano. Cioè, lui in mezzo alle persone ci stava bene proprio, ci sguazzava. A lui piacevano le persone. E non solo perché era Dio. Ma anche come uomo.

Io ad esempio ho dovuto imparare ad amare il prossimo invocando l’amore divino, in modo che, passando attraverso di me, usi me per amare il prossimo. È stato rendendomi povero, inutile, privo di qualità e di virtù che mi sono fatto destinatario privilegiato dell’amore di Dio, e una volta ricevuto questo amore, questa gioia nel cuore, ho potuto imparare a trasmetterla agli altri. Ma la gioia, quando la si ha, si trasmette da sola. Basta vedere una persona gioiosa per subirne l’effetto e diventare un po’ più gioiosi a nostra volta.
Mi è capitato una volta di vedere un gruppetto di zingare che giravano per Milano a chiedere l’elemosina, salendo sui tram a sbafo, comprandosi un filoncino di pane e una busta di affettati al supermercato e poi mangiandoseli a mezzogiorno, prive di tutto, sporche, non belle, ma gioiose e allegre nel conversare nella loro lingua. Mi è sempre rimasto impresso. La gioia di chi non ha nulla. Quella gioia è Dio. Avere quella gioia nel cuore quando non si ha null’altro significa avere Dio nel cuore. Perché lo Spirito Santo è “pace e gioia” (Rm 14, 17; Gl 5, 22).
Quando ero frate avevo imparato ad attingere alla gioia divina mediante la preghiera per poi trasmetterla ad altri. Ricordo sveglie mattutine alle cinque, sgattaiolare nel bosco del convento con ancora il buio, senza il permesso di nessuno (e qui certamente sbagliavo), pregare per più di un’ora un rosario intercalato da preghiera spontanea, risalire dal bosco col cuore pieno di gioia e la luce negli occhi. A volte notavo l’invidia di alcuni confratelli più anziani che non ce la facevano a svegliarsi presto come me e fare, prima della sveglia ufficiale, una preghiera così prolungata. Allora pensavo: “A quello la gioia non la voglio donare, non sarò affabile con lui”. Vendicativo, anche appena immerso nella grazia di Cristo. Questo riuscivo a essere.
Ma d’altronde anch’io ero invidioso delle zingare, io che, giovane e baldo milanese pieno di belle speranze, mi aggiravo per la città depresso e pavido.
La gioia divina mi hanno insegnato ad attingerla, ma poi hanno dovuto anche insegnarmi a trasmetterla. Perché io tendevo a tenermela tutta per me.
Dal punto di vista umano sono proprio una merda. Sarà perché sono cresciuto come un figlio unico da solo con la madre. Sarà per questo che sono così egoista e solitario. Sono abituato ad avere tutto per me e a non condividere con nessuno.
Oggi sorrido di più, sono più affabile, cerco di non giudicare, mi presto all’ascolto.
Ma la cosa che faccio di più è pregare per l’altro. È il metodo che per me risulta il più efficace per passare la palla della grazia divina, quando la si ha, all’altro. Se uno è pieno di gioia divina (di Dio stesso) perché ha pregato e si è abbeverato alla fonte o perché qualcuno ha pregato per lui (il risultato è lo stesso), se prega intensamente, con fede e sinceramente per un’altra persona sente proprio l’effetto della gioia dentro di sé che diminuisce. È chiaro, bisogna avere una grande sensibilità per i moti dell’anima. Ma una cosa bella della gioia divina è che, se si entra in contatto con qualcuno, questa si trasmette automaticamente da uno all’altro. Chi è invidioso e ti guarda o tratta male quando sei in quello stato, come facevo io con le zingare o come facevano i miei confratelli appena svegli con me quando io ero appena stato a pregare per più di un’ora, non fa altro che rubare, in certo qual modo, quella grazia. Chi fa un torto ruba grazia. Chi giudica cerca di prendersi qualcosa per sé togliendolo all’altro. Che tristezza, quando vediamo un essere pieno di grazia divina e non riusciamo a rallegrarcene ma piuttosto siamo invidiosi. La grazia divina non è qualcosa di cui essere invidiosi. È qualcosa di gratuito, non viene data in base al merito. Viene semplicemente elargita, come un dono. Godiamo quando vediamo una persona santa, destinata al Paradiso, rallegriamoci per lei, e non auguriamo a nessuno l’inferno.

L’amore umano, contrariamente a quello divino, non è infinito ma finito. Uno può anche avere una dote naturale e amare spontaneamente gli esseri umani, o anche gli animali e perfino il creato, ma questo amore, con la stanchezza, diminuisce e viene a mancare. Siamo come una cisterna che si svuota. Quante volte mi è capitato, a sera, di non riuscire più a mettermi ad ascoltare o a sorridere. L’amore umano si era esaurito. In me si esaurisce tanto facilmente che è stato un vero dono della Provvidenza imparare a svuotarmi per potermi riempire della grazia di Dio. Me l’hanno insegnato i cristiani, quelli veri. Un po’ di amore umano ce l’ho anch’io, ma si esaurisce facilmente. Quando si esaurisce l’amore umano, ecco che entra in gioco la Provvidenza, il cui meccanismo vuole che entri in gioco all’ultimo. Finché hai ancora qualcosa di umano, finché hai cibo in dispensa, o qualche soldo da parte, la Provvidenza non viene da te ma privilegia chi non ha nulla. Dopo, specialmente se l’hai chiesto, viene anche da te. Ma siccome sulla terra, diversamente dal cielo, vige l’economia della materia, ci sono questioni logistiche da risolvere. Se ho due pacchi da consegnare in due luoghi diversi, devo scegliere in quale andare per primo, e nella dimensione del tempo ci saranno per forza un prima e un dopo.

Nelle ultime settimane mi sono trovato spesso a giudicare. Il giudizio, purtroppo, rende infelici. Se si giudica tutto, a un certo punto ci si guarda attorno e ci si trova circondati da persone cattive, cose difettate, animali feroci, insomma un mondo infernale. È brutto giudicare tutto e tutti, ed è brutto soprattutto per colui che giudica. Giudico i macchinoni, giudico come la gente guida per strada, giudico le cassiere lente, giudico chi non sorride, giudico chi compra su Amazon, giudico chi lavora per Amazon, giudico ferocemente chi bestemmia, giudico la mia macchina vecchia e scassata, giudico chi la giudica e implicitamente mi tratta come un autista di serie B, giudico chi giudica i corrieri, giudico chi giudica chi guida un furgone a noleggio, assumendo implicitamente che non sia bravo a guidare, giudico chi mi passa davanti col carrello al supermercato, giudico chi non mi ascolta, giudico chi parla solo di macchine o di calcio, giudico gli stranieri, insomma… Non se ne può più. Il mio amore umano è scarso, quasi nullo.

Quando sono abbastanza vigile, quando mi succede di giudicare qualcosa o qualcuno nei modi che ho detto e anche in altri, dico a me stesso: “Prega per lui (o per lei)”, “Prega per quella situazione che non ti piace. Chiedi al Signore di metterci una pezza”. Se lui riterrà cosa buona e giusta cambiarla, la cambierà. Se no, sarò io che dovrò imparare a cambiare me stesso e a non giudicare. Per stare tranquillo, per stare buono, per stare in pace e per non far male, giudicando, agli altri. Perché un giudizio è una pietra scagliata (cf. Gv 8, 1-11).
La preghiera, in questi casi, non è sentita, non sgorga dal cuore, è solo una formulazione a parole. Però è mia profonda convinzione che ciò che formuliamo a parole, come la goccia che scava la roccia, se ripetuto con insistenza ha il potere di trasformare il cuore. Deo gratias.

Del mio lavoro

Eccomi qua. A scrivere. Non che sappia cosa scrivere. Sono completamente piatto. Non ho nulla in mente. Non ho alcun argomento da trattare.

La verità è che sono sfinito. Vorrei dormire un mese. Ieri ho letteralmente dormito tutto il giorno. Che uno pensa: “Dopo avere dormito tre ore di fila, il pomeriggio, farai fatica a riaddormentarti, la sera”. Invece no. Ho mangiato qualcosa, sono andato a letto e mi sono riaddormentato subito. E ho dormito tutta la notte, 11 ore di fila.

Mi sa che soffro di depressione. Dicono che la stanchezza cronica è segno di depressione clinica.

Per la prima volta, dopo settimane, ho due giorni liberi attaccati. Per la prima volta, dopo settimane, ho deciso di usarli per riposarmi completamente. Ho declinato un invito gradito (amici da cui vado spesso a pranzo, la domenica).

L’unico motivo per cui uscirò di casa oggi sarà per andare a messa. Al ritorno farò due spese. Poi basta, di nuovo a poltrire.

Non ho argomenti perché il mio lavoro impedisce di pensare. Come ebbi a dire molte volte, è un lavoro che assorbe completamente. Quando ho fatto il giardiniere, prima di fare questo, lavoravo sei ore al giorno e il tempo non passava mai. L’ho fatto per otto mesi che sono sembrati otto anni.

Facendo il consegnatore per Amazon, quattro anni sono volati in un niente. Da un lato c’è la strada, a cui devi stare costantemente attento. Tra l’altro, non puoi permetterti di andare troppo piano, perché le consegne sono tante e la pressione mette fretta. Dall’altro c’è da pensare alla singola consegna. La maggior parte delle volte hai il furgone parcheggiato in divieto di sosta, o in doppia fila, quindi metà cervello è lì. Poi c’è il cliente, il condominio, devi trovare il citofono, il cliente ci sarà? C’è, ma risponde mezz’ora dopo perché è al telefono o in bagno o fa i turni e sta dormendo. C’è, ma è una signora anziana pensionata a cui i nipoti o figli fanno arrivare la roba a casa; i suoi movimenti sono rallentati, ti dice: “Scendo!”, e allora ciaaao! Interminabili secondi passati a fissare il numerello dell’ascensore, “2”, “3”, “4”, “5”, “4”, “3”, “2”, “1”, “0”, (aaah!), “Buongiorno, la signora Barigazzi? Ecco a lei!”.

E lei (o lui) che si lamenta: “I miei figli comprano sempre!". “Ancora mia moglie, ma quanto compra?”. E io, con un piede già fuori dalla porta: “Eh, sa, ormai Amazon è una moda ecc.”.

A parte gli scherzi… quante stronzate si comprano su Amazon, quante cagate consegno. Pacchettini che pesano 10 grammi. Gadget, auricolari bluetooth da 12 euro a go-go, cover per smartphone...

Libri, scorte di pannolini, scorte di cartaigienica, scorte di Asciugoni Regina, microonde, aspirapolveri, televisori, monitor, carta da ufficio, pesi per palestra, stendibiacheria, aaaaaaaaah! Bastaaaaaaaaa!

Non ne posso più, pacchi su pacchi su pacchi su pacchi! Pacchi che non finiscono mai!

Cala il sole, il traffico aumenta e tu hai ancora roba da consegnare. Arrivi sotto casa, il cliente non è ancora tornato dal lavoro! Ma allora che c**** ordini! Fatti arrivare la roba a un Punto di ritiro, no?

La pressione che ti mettono addosso fa letteralmente uscire di testa. C’è un bollettino settimanale mandato via Whatsapp coi migliori 10 driver della station...! Chi è stato più veloce, chi ha consegnato più pacchi... americanate! Robe che servono solo a farti uscire di testa. Ieri ho incontrato un ex collega per strada, ha detto: “Mi avevano fatto il contratto a tempo indeterminato ma ho voluto lasciare io, non ce la facevo più, stavo uscendo di testa!”. Un lavoratore bravissimo! Uno dei migliori! Ma un altro che non ce la faceva a non farsi trascinare dal meccanismo della competizione. Quelli che restano sono quelli che se ne fregano. Vanno piano, riportano indietro i pacchi, si fanno venire ad aiutare… da loro sto cercando di imparare. Anche se l’ansia gioca sempre brutti scherzi… specialmente con tutto il caffè che bevo.

Per tutto l’inverno faccio il centro storico della città, traffico, assenza di parcheggi, le corse per trovare uffici e negozi aperti… insomma, un delirio. Arriva l’estate, ci tolgono le zone cittadine per darle ad altri. Mi danno Peschiera del Garda. In pieno luglio. Luglio, agosto e settembre a Peschiera del Garda. Invece di riposarmi, finalmente, nella città estivamente deserta, sbattutto così, sul lago, dove si fa prima-seconda a causa dei lungolaghi intasati di turisti. E vabbè. Ringrazio comunque il cielo. Dico: “Passata la stagione turistica, sul lago sarà comunque una pacchia!”.

Invece no! Ci hanno ridato tre rotte cittadine! E una a chi la danno, dato che è sempre stato abituato a fare la città? A me, no? Tra l’altro coi carichi di lavoro aumentati! Non è possibile fare la città in questo periodo con più di un certo numero di consegne. È matematicamente impossibile. Corro, sudo, impazzisco e allo stesso tempo non ce la faccio, rischio si sforare gli orari, di non chiudere la rotta!

Mandatemi fuori, mandatemi sul lago, mandatemi in campagna!

Sono un fobico sociale! Non l’avete ancora capito?

Sempre in mezzo alla gente, al casino, alle turbe!

Ho bisogno di tranquillità, pace, strade libere, affabile e rilassata gente di campagna!

(Tra l’altro è proprio agli inizi di ottobre, quando lavoravo nella campagna antistante Peschiera del Garda, che ho avuto un incidente e due sinistri, per la troppa rilassatezza accendevo la radio e, diminuita la tensione, calava l’attenzione...).

Dai Fioretti di San Francesco

Non posso dire di non sentirmi disperato. Pianto e stridore di denti. Ecco cosa mi tocca per aver abbandonato la vita religiosa. San Francesco è chiaro. Coloro che lasciano cadranno in un baratro tanto più profondo quanto più sublime era la vocazione a cui erano chiamati.
Non c’è più nessuno che prega per me. Da solo non ce la faccio a pregare. Non ce la faccio più a sopportare sinistri sul lavoro. E pagare, pagare… E i colleghi che non ti rispettano più, ma ti ritengono uno scaccione
Non so più cosa fare, non so più a che santo votarmi. Soprattutto perché è proprio nelle feste dei santi maggiori che accadono queste cose. Non so più come uscire la mattina. Cosa combinerò oggi? Quanti incidenti, quanti danni al furgone? E ieri, al riportare il CID, mentre il bestemmiatore C. diceva: “Un’altra?”, erano presenti i miei nemici T. e U. Dovrei essere carità, dovrei essere in grado di perdonare, e invece ho nemici, e odio. Non amo facilmente, ma odio
Quando tutto va così perfettamente male non sai più cosa credere, non sai più cosa pensare. Dio mi ha abbandonato? Dio mi odia? Dio non odia, non può odiare perché Dio è amore. Ma allora perché permette mi capitino queste cose, sapendo l’effetto che fa sulla mia mente?
Già lotto normalmente per non essere pigro, per andare a messa, per non cadere in tentazione, per leggere, per scrivere, per coltivare le relazioni.

Cosa fare quando ci si sente abbandonati da Dio?
Come muoversi?
Quali passi fare?
Conviene restare immobili. Non intraprendere nulla.
Ogni cosa che si fa è un possibile passo falso. Un pretesto, per Dio, per farti accadere qualcosa.
Certo, non è Dio che provoca i mali. Non ne sarebbe neanche capace, non è la sua natura. Dio è unicamente fonte di bene.
Però Dio permette che capitino i mali. Lascia cioè libero di agire il diavolo, colui che opera il male.

E la prima sera giunsono ad uno luogo di frati e ivi albergarono; la seconda sera, tra per lo mal tempo e perché erano istanchi, non poteano giugnere a uno luogo di frati né a villa nessuna, e sopraggiugnendo la notte col mal tempo, si ricoverarono ad albergo in una chiesa abbandonata e disabitata, e ivi si puosono a riposare. E dormendo li compagni, santo Francesco si gettò in orazione; ed eccoti, in su la prima vigilia della notte, venire una grande moltitudine di demòni ferocissimi con romore e stroppiccìo grandissimo, e cominciarono fortemente a dargli battaglia e noia; onde l’uno lo pigliava di qua e l’altro di là: l’uno lo tirava in giù e l’altro in su; l’uno il minacciava d’una cosa e l’altro gliene rimproverava un’altra; e così in diversi modi si ingegnavano di sturbarlo dalla orazione; ma non poteano, perché Iddio sì era con lui. Onde quando santo Francesco ebbe assai sostenute queste battaglie de’ demòni, egli cominciò a gridare ad alte voci: “O spiriti dannati, voi non potete niente se non quanto la mano di Dio vi permette: e però dalla parte dello onnipotente Iddio io vi dico che voi facciate nel corpo mio ciò che vi è permesso da Dio, con ciò sia cosa che io lo sostegna volentieri, perch’io non ho maggiore nemico che il corpo mio; e però se voi per me fate vendetta del mio nemico, voi sì mi fate troppo grande servigio” (dai Fioretti di San Francesco).

Aver paura a uscire di casa. Cosa mi capiterà oggi? Cosa combinerò?
Se le medesime cose sono accadute quando si era pregato, quando si era implorato che non accadessero.
Eppure, sono accadute davvero. Come si fa, in questi casi, a non sentirsi abbandonati da Dio? Come si fa a non sentire Dio contro?
Giorni in cui si fa memoria di santi speciali, in cui si aspettano grazie speciali. Invece accadono sinistri.
Grazie, Signore. Grazie per tutto ciò che mi dai. Grazie per ciò che permetti che mi accada.
Non sono degno nemmeno di un tuo sguardo verso di me. Una tua punizione, una tua correzione nei miei confronti è già segno che ti occupi di me. Molti, incalliti e impenitenti, non hanno nemmeno la grazia di questa attenzione. Ma da te vengono lasciati al loro destino, alle loro voglie…

Felicità

Dio della mia vita,
potenza al di sopra di tutte le potenze,
capo dei capi,
amore infinito,
tu sei il bene, e siccome
al di fuori di te e di ciò che è in te nulla è,
nulla di ciò che è al di fuori di te è bene.
Tu sei il bene, e bene è tutto ciò che hai fatto
e fai. Anche gli apparenti mali
sono beni mascherati, perché
tutto concorre al bene
nell’universo che hai dispiegato.
E qual è il bene, la speranza
a cui chiami noi uomini?
Non certo di avere nella vita
ciò che la nostra carne
desidera, ma di avere
ciò che porterà a te.
Il bene, per sua natura,
non sta da solo, non è
delimitato da una linea chiusa,
è una linea, certo, che delimita
ciò che è il bene da ciò che non è il bene.
Ma è come un boccale,
o meglio un gran lavabo
in cui si cerca di raccogliere
l’acqua di sorgente. La fonte
è inesauribile, perciò
a un certo punto l’acqua trabocca
così come il boccale
che si continua a riempire,
solo che mentre nel boccale
il contenuto viene immesso da fuori, 
nella sorgente
l’acqua viene da dentro,
da sotto, e la fonte non si ferma mai.
Il bene non sta fermo,
non sta chiuso in se stesso,
trabocca, esce da se stesso
e si comunica. È natura
stessa del bene donarsi.
Dio della mia vita,
la speranza, certa,
è venire da te,
a unirsi con te,
in una vita eterna ed
eternamente felice.
Tu sei bene eterno,
ti comunichi
e ti spandi, costantemente
su tutto il creato.
Ti prego, guarda verso di me,
donami te stesso,
donami il bene,
stammi accanto sempre!

I tre assiomi della teologia in Platone

...quali sarebbero le tracce circa la teologia?
Più o meno queste, dissi: il dio va sempre senza dubbio descritto quale egli in effetti è, che lo si rappresenti in versi epici o lirici o nella tragedia.
Così bisogna fare.
Non è dunque buono il dio nella sua stessa realtà e non è così che bisogna dire?
Che altro?
Ma nulla di ciò che è buono è nocivo, non è così?
Non mi pare.
Ma allora ciò che non è nocivo nuoce?
In nessun modo.
E ciò che non nuoce fa del male?
Neanche questo.
E ciò che non fa nulla di male potrebbe esser responsabile di qualche male?
E come potrebbe?
Ma inoltre: il buono è utile?
Sì.
È dunque responsabile di prosperità?
Sì.
Dunque ciò che è buono non è responsabile di tutte le cose, è responsabile di quelle positive, non responsabile invece di quelle cattive.
Assolutamente, certo, disse.
E dunque nemmeno il dio, dissi, poiché è buono, può essere responsabile di tutte le cose, come dicono i più, ma per gli uomini sarà responsabile di poche cose, non responsabile di molte. I beni per noi infatti sono molto minori dei mali, e i beni a nessun altro vanno fatti risalire, ma per i mali va cercata qualche altra causa, non certo il dio.
Mi sembra, disse, che tu stia dicendo cose verissime.
Non si può dunque accettare, dissi io, né da Omero né da altro poeta questo errore intorno agli dèi, quando insensatamente sbagliando dice che

Due vasi sono piantati sulla soglia di Zeus
pieni l’uno di doni buoni, l’altro di cattivi. 

E colui al quale Zeus concede una mescolanza degli uni e degli altri

incontra a volte un male, e altre volte un bene,

chi al contrario riceve dal secondo vaso mali non mescolati

mala fame lo insegue per la terra divina.

E neppure accetteremo si dica che

per noi Zeus è dispensatore di beni e di mali.

Quanto alla violazione dei giuramenti e della tregua commessa da Pandaro, se qualcuno affermasse che ciò accadde ad opera di Atena e di Zeus, non lo approveremo, e neppure se si attribuissero la contesa e il giudizio delle dee a Themis e a Zeus; e ancora non si deve lasciare che i giovani ascoltino, come dice Eschilo, che

un dio semina la colpa nei mortali,
quando vuol distruggere dalle fondamenta una casa.

Ma se qualcuno compone Le sofferenze di Niobe, in cui si trovano questi giambi, o quelle dei Pelopidi o dei Troiani o qualcos’altro di simile, o non bisogna permettere che egli dica che esse sono opera di un dio, oppure, se lo sono, deve trovare qualche ragione del tipo di quella che ora stiamo cercando – e dire cioè che il dio ha compiuto opere e giuste e buone, e che quelli hanno tratto vantaggio dalla punizione. Ma non bisogna lasciare che il poeta dica che costoro erano infelici perché pagavano per le loro colpe e che era il dio a renderli tali. Se invece i poeti dicessero che i cattivi avevano bisogno di esser puniti perché erano infelici, e che costringendoli a pagare gli dèi li beneficavano, questo si può accettare. Ma dire che un dio, che è buono, possa esser responsabile di mali per chiunque – bisogna lottare in ogni modo perché nessuno lo dica nella propria città, se questa dev’esser retta da buone leggi, e perché nessuno, giovane o vecchio, possa ascoltare un tale racconto, che sia narrato in versi o in prosa, poiché questi discorsi se fossero pronunciati non sarebbero pii, né utili a noi né concordanti con se stessi.
Voto questa legge insieme a te, disse, e la approvo.
Questa dunque, dissi io, può esser una delle leggi e delle tracce relative agli dèi, nel cui ambito dovranno restare quelli che pronunciano discorsi e compongono poesie; il dio non è responsabile di tutte le cose, ma solo di quelle buone.
Ed è più che sufficiente, disse.
E che cosa dici di questa seconda? Pensi forse che il dio sia un mago capace subdolamente di manifestarsi ora in una, ora in un’altra forma, talvolta comparendo lui stesso con la propria forma mutata in una pluralità di aspetti, talvolta invece ingannandoci e producendo tali opinioni di lui – o che invece sia semplice e ben lungi dal trasgredire la sua forma propria?
Non so che rispondere, disse, almeno così sul momento.
Ma su questo? Non è necessario, se qualcosa esce dalla propria forma, che muti o da sola o per opera di altro?
È necessario.
Ma ciò che si trova in una condizione perfetta non è forse assolutamente non passibile di venir alterato e mosso da altro? Per quanto riguarda, ad esempio, gli effetti sul corpo di cibi, bevande e sforzi, e su ogni pianta del calore solare, dei venti e di simili agenti, non è vero che quanto più sono sani e forti tanto meno vengono alterati?
Come no?
E l’anima, quanto più è coraggiosa e intelligente, non sarà tanto meno turbata e alterata da qualche agente esterno?
Sì.
E dunque certamente, per quanto riguarda tutti gli oggetti composti (suppellettili, edifici, vestiti), allo stesso modo quelli ben fabbricati e in buone condizioni sono pochissimo suscettibili di venire alterati dal tempo e dagli altri agenti.
È così.
Tutto ciò dunque che ha una buona costituzione, grazie alla natura o alla tecnica o ad entrambe, subisce le minori trasformazioni ad opera di altro.
Pare.
Ma certo il dio e quanto gli pertiene è in una condizione del tutto perfetta.
Come no?
Tanto meno, quindi, il dio potrebbe ricevere forme molteplici dall’esterno.
Tanto meno, certo.
Ma potrebbe forse mutarsi o alterarsi da se stesso?
È chiaro, disse, che dev’essere così, se è vero che muta.
Muta dunque verso qualcosa che è migliore e più bello di se stesso, oppure verso qualcosa di peggiore e più brutto?
Necessariamente, disse, verso il peggio, se è vero che muta; perché non diremo certo che il dio sia manchevole di bellezza o di virtù.
Parli benissimo, dissi. E stando così le cose, ti sembra, Adimanto, che qualcuno – dio o uomo – possa volersi rendere deliberatamente peggiore in un qualsiasi modo?
Impossibile, disse.
È dunque anche impossibile, dissi, che un dio voglia trasformarsi; invece, com’è verosimile, ciascuno degli dèi, essendo dotato della massima bellezza e perfezione possibili, permane sempre nella semplicità della sua forma.
A me pare, disse, che sia del tutto necessario.
Nessuno dei poeti, allora, dissi io, ottimo amico, venga a dirci che

spesso gli dèi, simili a ospiti d’altra contrada
sotto tutte le forme girano per le città.

E nessuno racconti menzogne su Proteo e Thetis, e non si introduca nelle tragedie o in altri poemi Era trasformata nelle vesti di una sacerdotessa che mendica

per i figli elargitori di vita di Inaco argivo fiume,

e insomma non ci si inganni con simili storie.
E dal canto loro le madri, convinte da costoro, non atterriscano i bambini raccontando in modo sbagliato favole di certi dèi che si aggirano di notte nei panni di ogni svariata sorta di stranieri – così da non bestemmiare gli dèi da un lato, e dall’altro da non rendere più paurosi i figli.
No, infatti, disse.
Ma forse, dissi io, gli dèi in se stessi non possono mutare, ma potrebbero farci credere che essi si manifestano in svariati aspetti usando inganni e magie?
Può darsi, disse.
Ma dunque, dissi, potrebbe un dio volerci ingannare, con parole o con fatti, presentandoci una propria fantasmatica parvenza?
Non so, disse.
Non sai, dissi, che la vera menzogna, se così posso esprimermi, è odiata da tutti, dèi e uomini?
Come dici?, chiese.
In questo senso, dissi, che nessuno acconsente volontariamente alla falsità nella parte più importante di se stesso e circa le cose più importanti, ma teme più di ogni altra cosa che essa vi si installi.
Ancora non capisco, disse.
Perché, dissi, tu pensi che stia dicendo qualcosa di solenne. Dico solo che ingannarsi nell’anima circa le cose che sono, esser stati ingannati ed essere ignoranti, ricevervi e conservarvi il falso – chiunque non lo accetterebbe, e ciò che tutti odiano è soprattutto il falso in quel luogo.
E molto, disse.
Ma in termini rigorosi, quella vera menzogna di cui ora parlavo è l’ignoranza nell’anima di chi è stato ingannato. Perché la menzogna espressa nelle parole è un’imitazione dello stato dell’anima, un’immagine che si produce in seguito, non una menzogna pura. O non è così?
Certamente.
La vera menzogna è dunque odiata non solo dagli dèi, ma anche dagli uomini.
Mi pare.
Ma quanto a quella espressa in parole? Quando e a chi può esser utile, così da non esser degna di odio? Non lo è forse nei riguardi dei nemici? E anche per qualcuno di quelli che chiamiamo amici, quando ponga mano a una cattiva impresa per via della pazzia o di qualche sorta di demenza, non diventa allora utile, come una specie di farmaco, per distoglierli da essa? E quando nella narrazione dei racconti di cui parlavamo poco fa, poiché non sappiamo il vero circa gli eventi antichi, cerchiamo di approssimare il più possibile la menzogna alla verità, non la rendiamo in questo modo utile?
È proprio così, disse.
Ma per quale di questi motivi la menzogna può esser utile al dio? Forse è perché non conosce gli antichi eventi che mentirebbe cercando di approssimarvisi?
Sarebbe davvero ridicolo, disse.
Non c’è dunque nel dio un poeta falsario.
Non mi pare.
Mentirebbe allora per paura dei nemici?
Ce ne corre.
O per la demenza e la pazzia degli amici?
Ma, disse, non c’è demente o pazzo che sia amico agli dèi.
Non c’è dunque un motivo per il quale un dio potrebbe mentire?
Assolutamente no, disse.
Il dio è dunque del tutto semplice e veritiero sia nelle opere sia nelle parole, e non muta se stesso né inganna gli altri, con immagini fantastiche o con discorsi o con l’invio di segni, nella veglia o nel sogno.
Così, disse, pare anche a me, ora che ti sento parlare.
Concordi, dunque, dissi, che questa sia la seconda traccia nel cui ambito si deve parlare e poetare intorno agli dèi, dicendo che essi non sono maghi per la capacità di trasformarsi, né ci disorientano mentendo con le parole o con le azioni?
Concordo.
Loderemo allora molte altre cose di Omero, ma questa proprio no: l’invio del sogno ingannatore ad Agamennone. E neppure questa di Eschilo, quando Thetis dice che Apollo, cantando alle sue nozze, “predisse buoni figli per lei”,

dalla lunga vita ignara di malattie;
e in tutto dicendo care agli dèi le mie sorti
intonò il peana confortando il mio cuore.
E io la bocca divina di Febo mi aspettavo
fosse libera da menzogna, colma di arte profetica.
Ma lui, proprio lui che inneggiava, lui che partecipava al banchetto
lui che questo diceva, lui è l’assassino
di mio figlio.

Quando qualcuno dica simili cose sugli dèi, ci indigneremo e non gli concederemo un coro, né permetteremo che i maestri se ne servano per l’educazione dei giovani, se i nostri difensori devono crescere rispettosi degli dèi e, per quanto è concesso all’uomo, divini essi stessi.
Concordo totalmente con queste tracce, disse, e me ne varrei come di leggi.

(Repubblica 379a – 383c)


Questa parte di Repubblica è un dialogo tra Socrate e Adimanto. In altri punti, altri fanno da interlocutore a Socrate, dal libro II in poi solo i fratelli Adimanto e Glaucone.

Adimanto e Glaucone erano fratelli di Platone per parte di padre, ed erano eroi. Nella battaglia di Mègara contro Sparta del 424 a. C. si erano distinti nel difendere la città e si erano guadagnati quella che chiameremmo la medaglia al valore. Qualcuno li chiamerebbe benefattori. 
Nella parte di dialogo che ho riportato Socrate, Adimanto e Glaucone, dopo essersi chiesti se sia meglio vivere ingiustamente o giustamente (libro I), ragionano sui requisiti di una buona città. Si improvvisano fondatori, a parole, di un’ipotetica città nella quale, dopo aver delineato in breve le varie competenze, passano a esaminare la sezione dei soldati (i cosiddetti guardiani o sentinelle, dal greco “phylakes”). In particolare, esaminando ciò che è necessario alla educazione dei guardiani, si soffermano su quali elementi devono essere presenti nei racconti che i guardiani devono ascoltare sin da piccoli per formarsi un’idea di bene e male.
I poeti hanno un importante ruolo civico. Non possono scrivere ciò che vogliono, devono rispettare linee guida che permettano a un guardiano che ascolta o legge di riuscire un buon difensore della patria.
Nel passo che ho riportato si fa una critica di sentenze di Omero e di altri poeti circa la rappresentazione della divinità. Si dice che nelle opere poetiche è necessario rispettare la verità circa la divinità, e si propongono tre assiomi di teologia.
I tre assiomi sono: uno, la divinità è buona; due, la divinità non cambia forma; tre, la divinità non inganna.

La mia intenzione era solo presentare questo passo, però ho deciso di soffermarmi su un paio di questioni. La prima è la questione dei segni e dei segni nei sogni.

Vorrei fare un discorso che parte da Santa Teresina, nomignolo di Santa Teresa di Lisieux (nome religioso Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo), sancita dottore della Chiesa nel 1997.
Santa Teresina, che era stata fedele, pura e casta sin da bambina, in sogno vedeva cose semplici, come boschi, alberi o prati.
Io invece, che ho avuto un passato pieno di esperienze e soprattutto di peccati, faccio sogni oscuri, contorti, illogici e senza apparente significato.

Secondo la Sacra Scrittura Dio comunica in sogno. Prendiamo ad esempio il sogno di San Giuseppe, quando gli viene detto di partire per l’Egitto con Maria e Gesù perché Erode vuole uccidere il bambino. Se stiamo alla Sacra Scrittura, ricaviamo che se vuole comunicare qualcosa in sogno, Dio lo fa. Ciò che non fa è essere enigmatico o criptico, ma, come si trova anche in Platone, se comunica in sogno lo fa in modo chiaro e semplice. Non è necessaria un’interpretazione di tipo freudiano, che vada a scavare e scavare, col sistema dell'associazione di idee, per recuperare il significato.

Ho parlato di Santa Teresina, oltre che di San Giuseppe, che era un uomo di lavoro, preghiera e studioso e rispettoso della Parola di Dio, la Torah del suo tempo, perché penso che la prerogativa dei sogni semplici, in cui Dio comunica apertamente e con chiarezza, sia delle anime semplici, devote, pure, in altre parole immacolate. Penso cioè che più si è santi, più Dio comunica in modo chiaro e inequivocabile, senza bisogno di usare segni che significhino qualcos’altro. Dice insomma le cose come stanno.
Quindi la questione non è tanto se Dio comunichi o non comunichi, piuttosto, come si ricava anche da Platone, se Dio comunichi in modo chiaro o a segni, usando cioè un linguaggio velato, dicendo una cosa per un’altra. Se vuole comunicare in sogno, in sostanza, parla chiaro. E soprattutto non usa i sogni per ingannare (vedi il sogno di Agamennone all’inizio dell’Iliade), perché da principio Dio non inganna.

Per quanto riguarda invece se Dio usi segni, ossia qualcosa che significa qualcos’altro, nella veglia, la Sacra Scrittura è talmente piena di cose che significano altre cose – prendiamo ad esempio le parabole, o l’intero libro dell’Apocalisse – che evito di pronunciarmi. Per il momento raccolgo in modo dubitativo la frase socratica secondo cui: “Il dio è dunque del tutto semplice e veritiero sia nelle opere sia nelle parole, e non muta se stesso né inganna gli altri, con immagini fantastiche o con discorsi o con l’invio di segni, nella veglia o nel sogno”.

Un altro punto critico del passo platonico è il punto in cui Adimanto dice: “Non c’è demente o pazzo che sia amico agli dèi”.
Questa frase in un primo momento mi ha messo in crisi.
Ho sempre considerato chi ha patologie mentali come un malato vero e proprio. E i malati fanno parte dei deboli, dei piccoli, di coloro cioè che Dio ama e che rende privilegiati destinatari della sua grazia.
Cosa vuol dire, dunque, Adimanto, quando dice che: “Non c’è demente o pazzo che sia amico agli dèi”?

Secondo me la questione si risolve se si tiene presente come sono considerate pazzia e demenza in Platone. Secondo come ne parlano Socrate e Adimanto, e facendo riferimento anche a come si parla di pazzia in altre parti in Platone, direi che va tenuta presente l’accezione di colpevolezza.
Pazzia e demenza, cioè, non sono considerate patologie più o meno curabili, da cui un essere umano può essere afflitto senza sua responsabilità, cioè senza che egli abbia colpa. Piuttosto, in Platone sono viste come condizioni a cui l’uomo può arrivare a causa di un comportamento erroneo portato avanti durante la vita.

Ad esempio, è sempre stata mia opinione che i bestemmiatori a lungo andare diventano ciechi, per quanto riguarda la capacità di afferrare la verità, perché dicendo il falso sulla cosa più importante dell’universo (Dio), ossia il falso più grande che c’è, fanno in modo che pian piano il falso si radichi in loro fino a prendere dimora stabile.
È più o meno in questo modo, credo, che Platone intende non tanto il nascere pazzi o dementi, quanto il diventare pazzi o dementi in seguito a comportamenti errati, a una vita di ingiustizie, a peccati gravi reiterati.
Si pensi anche al protagonista di Delitto e castigo, non si comporta forse come pazzo, nei pensieri e nelle azioni, dopo aver compiuto l’omicidio? La sua testa diventa il teatro del rimorso, di voci continue e opposte tra loro che lo sconvolgono, rendendolo simile a un pazzo. Non è forse così? Dostoevskij rappresenta bene la psicologia di chi è tormentato dal rimorso per i peccati.

Nella letteratura cristiana antica (i padri del deserto, per intenderci) si parla di anima indivisa come traguardo da raggiungere. Un uomo con un anima indivisa è un uomo realizzato e caro a Dio. Cosa significa un’anima indivisa? Significa un’anima che non ha voci contrastanti, ma in cui tutto ciò che vi si trova è in perfetto accordo e funziona all’unisono.
Un esempio di un anima divisa è la mia, quando voglio mangiare una fetta di salame, la volontà carnale dice di mangiarla, la volontà spirituale dice di non mangiarla. Ecco un modo semplice per fare un esempio di anima divisa.
Un’anima indivisa invece è perfettamente in pace con se stessa. Non ha contrasti al suo interno. Ha raggiunto l’Uno. È molto vicina a Dio, che è uno. Anzi, si può dire che un’anima indivisa è un’anima unita a Dio.

Tutto questo per dire che secondo me i pazzi e i dementi nominati da Socrate e Adimanto sono tali per propria colpa, in seguito cioè a peccati gravi, e come conseguenza di una vita dissoluta.
Coloro che invece nascono pazzi a causa di patologie neurologiche o psichiche che li colpiscono come vere e proprie malattie senza che abbiano colpa, sono dei qualsiasi malati che fanno parte dei deboli e dei piccoli, amati da Dio.

Il messaggio, però, che Dio è per i piccoli, bisogna ammetterlo, non si trova in Platone, ma è un messaggio specificamente cristiano.
In Platone è implicito. Se Dio è colui che ha, che possiede bellezza, potenza, verità, santità, grazia, giustizia, virtù e tutte le perfezioni che uno può elencare, la sua funzione non può che essere quella di donare i suoi beni a chi non ha, a chi è privo cioè di qualsiasi perfezione.
È solo nell’Antico Testamento, tuttavia, e poi con la venuta del Cristo, che questo messaggio è chiaro: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6, 20).

Stringere la mano fino a far male

Prima non si accettavano gli omosessuali. Adesso si invitano i bambini a scegliersi il sesso. 

Questa esagerazione dal lato opposto sa di isteria. 

Non bastava accettare gay e lesbiche? Non perseguitarli più, lasciarli essere? 

Come quando ti presentano una persona che non ti piace ed esageri in affabilità e cordialità, tanto che si sente che sono forzati. Stringi la mano fino a far male.

Sa anche di senso di colpa, come verso le persone di colore, alle quali si concede troppo, più della semplice uguaglianza, per compensare i torti del passato tipo la schiavitù, o i torti del presente tipo lo sfruttamento delle risorse naturali africane da parte di nazioni ricche.

Le tre sofferenze

Se uno legge la filosofia antica, il cui culmine sono Platone e Aristotele, tutto ciò che ne ricava, al massimo, è che l’uomo è composto di corpo e anima.

Poi uno va a leggere la Sacra Scrittura, che è Parola di Dio, e trova San Paolo che al capitolo cinque della prima lettera ai Tessalonicesi fa questo augurio ai destinatari: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo”.

Quindi non ci sono solo corpo e anima, c’è anche lo spirito...

Ora, San Paolo conosceva alla lettera la cultura del tempo, era perfettamente preparato in tutto ciò che possiamo definire filosofia antica.

Da dove ha tirato fuori San Paolo questa cosa dello spirito?
Secondo me è un insegnamento di Gesù, arrivato, attraverso i discepoli, a San Paolo. Gesù ha parlato di Agios Pneumatos, Spirito Santo, che è lo Spirito di Dio. Ma di Spirito di Dio si parlava già nell’Antico Testamento.
Da dove ha tirato fuori San Paolo che c’è uno spirito anche nell’uomo? Altra ipotesi: era una teoria giudaica.

Mi sono sempre immaginato lo spirito come una parte dell’anima, non come una cosa al di fuori di essa. Come il tuorlo di un uovo, o il buco di una ciambella. È qualcosa che ha natura diversa dall’anima, e di certo ne è superiore, ma superiore non vuol dire per forza più in alto, può voler dire più in centro...

Ad ogni modo, ciò di cui volevo parlare facendo questa premessa non è tanto il come gli insegnamenti del Signore o la cultura giudaica siano arrivati all’aggiunta dello spirito oltre al corpo e all’anima quale terzo costituente dell’uomo. Da quando ho scoperto che in San Paolo c’è tale suddivisione, dato che è Parola di Dio, l’ho presa per assodata, vera, scontata. Più di ciò non so dire.

Da allora, anche dopo aver letto il libro Notte oscura di San Giovanni della Croce, ho elaborato una teoria della sofferenza che si basa appunto sulla suddivisione dell’uomo che si trova in San Paolo. Avendo l’uomo tre parti, spirito, anima e corpo, ha anche tre tipi di sofferenza, a seconda che la sofferenza sia dello spirito, dell’anima o del corpo.

Era sufficiente la filosofia greca, in particolare Platone, per dire che l’anima è più importante del corpo. L’anima comanda sul corpo, perciò è superiore.
Se l’anima è più importante del corpo, la sofferenza dell’anima è più importante della sofferenza del corpo, è quindi maggiore. Figuriamoci, dunque, la sofferenza dello spirito, che, secondo la gerarchia in cui lo troviamo collocato nella lettera di San Paolo, è superiore sia all’anima sia al corpo.

Ci sono quindi tre sofferenze, la sofferenza del corpo, la sofferenza fisica, che è la minore. La sofferenza dell’anima, la sofferenza morale, che è la mediana. Infine la sofferenza dello spirito, la più grande.

Lo spirito, per quanto posso dire io, è la parte dellʼuomo attraverso cui entra in contatto con Dio.

Gesù, che sulla Croce ha vissuto la più grande sofferenza che è mai stata, la sintesi di tutte le sofferenze, la sofferenza perfetta, ha vissuto tutte e tre le sofferenze. È facile vedere come la sofferenza dello spirito sia il culmine della Croce. Dopo essa c’è la morte.

Sofferenza fisica. Conosciamo tutti le sofferenze fisiche che Gesù ha sofferto il giorno della Passione. Si parte da schiaffi e percosse, per passare da flagelli e corona di spine, fino alla salita al calvario con la Croce sulle spalle legato a due criminali, all’essere inchiodato alla Croce e sollevato su essa. Basta vedere The passion of the Christ di Mel Gibson per farsi un’idea.

Le altre due sofferenze, morale e spirituale, sono un po’ più sottili da afferrare.

Sofferenza dell’anima. Sono convinto di essere nel giusto. Sono convinto di essere in missione per conto di Dio. So di non aver peccato, so di non aver mai fatto nulla di male. So di aver sempre fatto la volontà del Padre.
Ciò che ne ricavo è rifiuto da parte degli uomini. L’annuncio che faccio, dichiarando di essere il Figlio di Dio, insieme a tutti gli altri insegnamenti che do, alle guarigioni e ai miracoli che opero, sono la parte più importante della mia vita, del mio essere. Sono le cose più preziose per me. Non sono solo parole di insegnamento che poi non vivo. No, conformo la mia vita totalmente alle parole che dico.
Ciò che sono, che dico e che faccio diventa oggetto di rifiuto. Ma come, se faccio cose buone dovrei ricevere apprezzamento... Se vengo nel nome del Signore dovrei ricevere giusto riconoscimento... Eppure non vengo riconosciuto.
Vengo rifiutato, non vengo creduto, c’è chi crede che magari lo faccia per soldi, o per il potere. C’è chi addirittura mi prende in giro. “Salva te stesso”, “Salve, re dei giudei!”. Sono sbeffeggiato, preso in giro nelle cose che rappresentano nel mio intimo ciò che nella mia esistenza è più importante. Quale dolore devo provare per questo rifiuto! È come quando faccio sentire la mia canzone preferita alla mia ragazza e lei dice: “Tesoro, non ti arrabbiare, ma fa schifo! Ahahahah!”. O quando i miei compagni di classe mi prendono in giro perché gioco a Magic: The Gathering, che per me è il non plus ultra
Questo chiamo dolore morale.

C’è una sofferenza ancora più grande.
Sofferenza dello spirito. Prima ero convinto di essere unito a Dio. Di fare tutto per conto di lui. Ero convinto di essere nel giusto, e che gli altri sbagliassero nel prendersela con me. Dicevo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Non avevo nessun dubbio di aver fatto tutto bene nella vita, di aver seguito sempre la volontà del Padre e di non essermi mai discostato dalla giustizia, dai buoni costumi, dalle opere buone.
Di colpo tutto questo viene meno. “E se avessi sbagliato?”. “E se tutto ciò che credevo di far giusto in realtà era sbagliato?”. “Padre, perché tutti mi danno contro? Non è che hanno ragione loro?”. “Perché sono qui, condannato a morte, legato a criminali che non hanno fatto altro che male nella vita?”.
Ecco il punto culmine della Croce, quando Gesù si sente separato dal Padre. È proprio qui che pronuncia la famosa frase, citando il Salmo 21: “Elì, Elì, lemà sebactàni?”, “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”.
Ebbene sì, anche Gesù ha provato la notte oscura, la notte dello spirito. In questa condizione ci si sente come i più grandi peccatori, abbandonati da Dio. Dio non rifiuta, forse, i più grandi peccatori, e non li abbandona a se stessi, quando sono impenitenti e rifiutano di pentirsi, di riconoscere i propri peccati e di chiedere perdono?
Nei salmi ci sono eventi di questo tipo in cui Davide, parlando per il popolo, lamenta l’abbandono da parte di Dio. “Dio, ci hai castigati per nostri peccati!”, “Dio, quando ritornerai a noi?”, “Fino a quando, Signore, fino a quando ci guarderai con sdegno a causa dei nostri peccati, e tornerai a essere nostro alleato e a schierarti col nostro esercito, invece di continuare a lasciarci nelle mani dei nemici?”.
È questa la sofferenza più grande che si possa provare, la lontananza da Dio. È la sofferenza che provano i grandi peccatori, i quali sentono Dio come nemico.

Gesù ha provato questa sofferenza al culmine della Croce. Anche i santi possono provare questa sofferenza. San Giovanni della Croce ha descritto bene questo fenomeno in Notte oscura, dove dice che Dio fa attraversare ai perfetti questa tenebra per purificarli e perfezionarli ancora di più.
Dopo il culmine della Croce, infatti, c’è la morte, e dopo la morte la Risurrezione.

Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!». E Gesù, emesso un alto grido, spirò.

Santità è dare tutto

ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce (Col 1, 12)

Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? (Gc 2, 5)

Ci sono varie persone non credenti che, quando vengono a sapere che sono credente, storcono il naso.
Il fatto è che sono un po’ in sovrappeso, sono pigro e ciò si vede dalla mia casa, a volte ho delle arrabbiature, sul lavoro non sono tra i migliori ma nella media, mi piacciono le donne e, specialmente tra colleghi, per fare gruppo mi lascio andare a commenti, nonché a qualche parolaccia.
A periodi perdo il gusto per le cose religiose. Certe volte mi trascino a messa la domenica perché è di precetto, ma non andrei alla messa feriale e soprattutto non vado più, come facevo, a fare Adorazione nel giorno libero.
L’unica cosa costante in me è la preghiera. Prego tutte le mattine in ginocchio perché siccome devo stare nove ore sulla strada ho paura di andare a schiantarmi. Già che ci sono prego per le varie intenzioni che mi hanno affidato. Mi metto sul letto e pratico l’orazione mentale. Durante la giornata invoco mentalmente Dio con giaculatorie tipo: “Gesù, aiutami”, “Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”, che so anche in greco: “Kyrie Jesu Christe, theu yie, eleison eme amartholon”, dico delle Ave Maria, dico anche solo: “Maria!”, come consigliava San Massimiliano Kolbe. Questa l’ho inventata io, da dire specialmente nei momenti avversi: “Signore Gesù Cristo, ti ringrazio per tutto ciò che mi hai dato nella mia vita e per tutto ciò che mi stai dando”. O quella inventata da suor Maria Consolata Betrone: “Gesù, Maria, vi amo, salvate anime”. Però non spendo, ecco, più di tre quarti d’ora quotidiani in preghiera. Non so da quanto tempo non riesco a finire un rosario, perché lo dico a letto e mi addormento.
Dico queste cose per dire che non sono certo perfetto, cioè non sono un perfetto esempio di virtù. In particolare non sono perseverante. Ciò non impedisce che io sia credente e che provi a invocare l’aiuto divino. Sarà poi Dio a decidere se esaudirmi. Ma in quanto uomo, piccolo o grande, ho questa prerogativa, di poter provare a chieder grazie.

Le persone, in genere, più che altro perché non ci hanno mai pensato, non distinguono tra santità e virtù.

Santità e virtù sono cose diverse.

Per quanto riguarda la santità, consiglio di leggere il dialogo platonico Eutìfrone, breve ma non facilissimo. Però aiuta a capire che la santità è la caratteristica della divinità di dare gratuitamente, cioè senza chiedere nulla in cambio. Avendo letto Eutìfrone, e poi vedendo l’esperienza di Gesù, ci si rende conto di come Dio sia abituato a dare tutto, solo che Dio Padre ha risorse infinite, mentre Dio incarnato ha risorse finite... a un certo punto dare tutto di sé, se si partecipa dell’umanità, significa morire.

Per quanto riguarda la virtù, si può ricordare ciò che diceva Aristotele, cioè che è un abito. Più fai una cosa, più la farai. Non mi dilungo su cos'è la virtù perché credo sia facile. Ricordo solo che le quattro virtù cardinali sono giustizia, saggezza, temperanza e coraggio, e che il discorso su grandezza e piccolezza delle persone è legato al discorso sulle virtù.

Ciò che mi interessa comunicare è che santità e virtù sono cose diverse. Si consideri questa sentenza: “Una persona piccola (dal punto di vista della virtù) può raggiungere la santità a patto che dia tutto se stessa”. Questa è la buona notizia, cioè che tutti possono salvarsi.
Un tempo si pensava che in Paradiso ci fosse solo chi aveva grandi doti, chi faceva grandi cose, chi otteneva grandi risultati, chi riusciva ad aderire alla lettera ai precetti di giustizia, chi non si lasciava andare al minimo vizio, chi si distingueva per sapienza, ecc.
La buona notizia che Gesù è venuto a dare è che tutti siamo candidati al Paradiso. L’importante è dare tutto. Se si ha poco, l’importante è dare tutto il poco che si ha.

Si vede, tra l’altro che per un piccolo è più facile andare in Paradiso che per un grande. Un piccolo soffre più facilmente, ha poco da dare, fa presto ad arrivare al limite. Infatti fa parte della buona notizia l’idea che Dio è per i piccoli. Se uno ha di che sfamarsi, che bisogno ha di chiedere aiuto alla Provvidenza? Dio va prima ad aiutare chi ha veramente bisogno. Poi pensa agli altri. Santa Teresina parlava di: "Amore alla propria nullità", proprio perché la piccolezza, i limiti sono luogo e motivo d’incontro con Dio.

Questo, ovviamente, non deve essere pretesto per stare ammollo nei peccati e nei vizi. Ciascuno è chiamato a dare il meglio di sé. L'importante è sapere che non sono i risultati che contano, specialmente non conta il paragone con gli altri, ciò che conta è essersi spesi totalmente, aver dato tutto agli occhi di Dio.

Alle Fontanelle

La macchina di Filocamo è una Ford Fiesta del 2002 pagata 1.200 euro nel marzo 2019 quando aveva 89.000 Km. È sufficiente per fare casa-lavoro, ma Filocamo l’ha usata anche tre anni consecutivi per andare in Liguria con l’amico padre Teodonio, un francescano 72enne. Filocamo e padre Teodonio sono diventati amici nell’inverno 2018, quando, al termine di una confessione, padre Teodonio ha chiesto a Filocamo di scambiarsi i numeri per andare a cena. Tolti i periodi di quarantena, Filocamo e padre Teodonio sono andati all’Old Wild West una volta a settimana. È sempre stato la sera prima del giorno di riposo di Filocamo, per poter andare, dopo cena, al cinema. Filocamo e padre Teodonio si telefonano ogni giorno, è un’amicizia dono della Provvidenza. Filocamo è stato frate quattro anni e mezzo, adesso, nonostante cerchi di voler bene a uomini e donne, fatica a farsi amici intimi tra chi non è intimo con Dio. Questo modo di intendere l’amicizia è frutto delle letture di santa Teresa d’Avila, che dice che può esserci vera amicizia solo tra due persone che, anzitutto, cercano Dio. Alipio una domenica ha chiesto a Filocamo se voleva andare con lui, il figlio Florido e il nipote Alipietto alle Fontanelle di Montichiari. Se Filocamo non fosse andato con loro non sarebbero potuti andare, perché Alipio e famigliari, tranne il figlio Radulfo, non hanno la macchina. La macchina di Radulfo ha problemi, o Radulfo non aveva voglia di andare alle Fontanelle, invece è andato al lago con l’amica rumena. Alipietto, nove anni, è fissato con le lavatrici, quando sono spente fa girare il cestello, quando sono in funzione guarda estasiato la centrifuga. Quando non è davanti a una lavatrice parla di lavatrici, chiede se sono vive, chiede se hai una lavatrice, se ne hai comprata nuova e in caso dove hai buttato la vecchia. Alipietto è fissato con il Big Ben e coi campanili, o piuttosto, in particolare, con le campane, anche se ha paura del suono delle più grandi, se dici che tra cinque minuti, a mezzogiorno, suonano, entra in agitazione, e quando le sente si tappa le orecchie. Alipietto ha la fissazione dell’organo, il suono possente degli organi più grandi lo spaventa, anche se non si sa dove l’abbia sentito, forse nella chiesa parrocchiale. Alle Fontanelle di Montichiari hanno un organetto che fa il suo lavoro nell’accompagnare i canti della messa. Lì non c’è una vera chiesa, più che altro un capannone aperto su un lato. Alle quattro c’è l’esposizione dell’Ostia, alle quattro e mezza il rosario, alle cinque l’Ostia viene riposta e inizia la messa. Filocamo e comitiva sono arrivati in tempo per l’inizio del rosario, dato che il capannone era pieno, Filocamo si è seduto sulle sedie di plastica, all’aperto, e ha pregato con l’assemblea. Alipio, Florido e Alipietto hanno girato un po’, non era pensabile far stare fermo Alipietto tutto il rosario, poi, a inizio messa, si sono seduti. Alipietto, metà tenuto da Alipio, è stato calmo tutta la messa. Florido a un certo punto è andato a fumare lungo la strada alberata che porta allo svincolo, poi è tornato. Alla fine della messa Filocamo ha detto ad Alipietto: “Hai visto che c’era l’organetto piccolo?”. Alipietto ha risposto: “E le canne dov’erano?”. “Dentro”. “Erano delle canne piccole, nascoste dentro?”. “Sì”. “Come si fa a vederle?”. “Bisogna aprire l’organo”. Questa conversazione e queste domande si sono ripetute, finché Alipio, con la sua autorità di nonno, ha intimato ad Alipietto di non parlar più di organi. Prima della messa Filocamo ha portato Alipietto a vedere la statua di Maria con tre rose sul petto, una bianca, una rossa e una d’oro, come Pierina Gilli l’ha vista il 13 luglio 1947.

La fotocopia gay

A un mio amico piacevano le fotocopie gay, fotografava situazioni gay, tipo due gay che si abbracciano o si baciano o si danno la mano, o trovava foto già pronte, e faceva la fotocopia alla foto. Non si sa cosa ne facesse, delle fotocopie, uno dice: “Magari le appende in casa”, o magari: “Le mette in un cassetto”, non si sa, sta di fatto che faceva sempre delle gran fotocopie gay.

Chi è chi

Mezz’ora di pausa era troppo poco, Filocamo non era soddisfatto dell’incontro con Nicodema davanti a un caffè, avevano potuto aggiornarsi quasi su nulla. Due giorni dopo – giovedì – Filocamo aveva poche consegne, si organizzò in modo da non fare pausa e lasciarla alla fine. Correndo, come riusciva a fare solo una volta al mese, finì alle 15,45, non sarebbe dovuto rientrare prima delle 18,05, decise di non avvisare i capi – anche se loro, grazie alla geolocalizzazione satellitare, potevano sapere... Siccome nel metodo Amazon ci sono i cosiddetti salvataggi – ossia se uno finisce presto va ad aiutare i colleghi che non hanno ancora finito – Filocamo decise di non chiamare i capi per poter avere tempo di andare da Nicodema e poter parlare un po’ di più. Passò a prendere 750g di gelato e si presentò a casa sua. Ora, bisogna dire che Amalio, compagno di Nicodema, è cagliaritano, militare, ha fatto varie missioni e adesso lavora per il Ministero della Difesa, a contatto col ministro. “Vieni pure, c’è anche Amalio!”. Amalio era appena tornato dalla Sardegna e sedeva di spalle all’entrata, a torso nudo, rivolto verso la televisione dove c’era un Comunicato Stampa del Consiglio dei Ministri con Mario Draghi che parlava su La7. Alla frase: “Vieni pure, c’è anche Amalio!” Filocamo cercò di non sobbalzare, ma forse si notò. Voleva conoscere Amalio, ma era impreparato a sorprese. Il suo sguardo cercò quello di lui. Lo trovò subito perché Amalio si era voltato e l’aveva fissato. Durò una frazione di secondo, ma fu sufficiente a capire chi era chi, in quale posto ciascuno doveva stare. “Ciao!”, “Ciao!”. “Piacere, Filocamo!”. “Amalio”. Stretta di mano. Amalio tornò a guardare la televisione. Filocamo fu invitato da Nicodema a sedersi mentre serviva il gelato, mentre era in cucina, a due passi da loro, Filocamo cercò di conversare. “E così sei della zona di Cagliari...?”, “Di Cagliari, proprio”, Amalio sorrise. Per il resto della conversazione Amalio, se interpellato, rispondeva affabilmente – ormai il chi era chi era stabilito – ma più che altro continuò a guardare la televisione. Nicodema e Filocamo ricordarono i vecchi tempi e si aggiornarono vicendevolmente sui destini delle persone che avevano conosciuto. Amalio era a Roma dal lunedì al venerdì e andava a Peschiera del Garda nel fine settimana con Italo, tre ore e mezza. Erano gli ultimi giorni di vacanza. Filocamo lasciò casa di Nicodema alle 17,30, rientrò con dieci minuti di ritardo e rischiò di esser ripreso dai capi. Ne era valsa la pena, Filocamo parlò con un sottocapo, addetto a ricevere i corrieri rientranti, e, senza che gli fosse chiesto – di fatto quel giorno nessuno si era accorto di nulla, perché Filocamo non era controllato – spiegò la situazione. “A Peschiera abita una vecchia amica che non vedo da sei anni ecc., ho cercato di finire presto per poter andare a trovarla ecc.”. Il sottocapo rise e spiegò che anche lui una volta si era fermato in trattoria un’ora. “Una volta ci può stare, l’importante è che non lo fai tutti i giorni, come certuni...”. Filocamo era contento di aver conosciuto Amalio, si era piaciuto, era stato sufficientemente umile accettando velocemente la posizione che Amalio pretendeva da lui, se avesse voluto continuare ad avere rapporti con la sua compagna. Filocamo era contento che fosse stato stabilito il chi era chi. Col tempo, forse, Amalio si sarebbe anche aperto e si sarebbe lasciato conoscere, Filocamo amava il genere di uomini come Amalio, era come un cagnolino scodinzolante davanti a lui, d’altronde non poteva essere altrimenti. Rimasero che qualche volta Filocamo avrebbe potuto whatsappare Nicodema, se faceva le consegne a Peschiera del Garda, e lei, se poteva, sarebbe volentieri andata a prendere un caffè o un gelato durante la pausa, inoltre che un fine settimana sarebbero andati a Madonna di Campiglio a trovare il fratello di Nicodema, che Filocamo conosceva bene ma che non si muoveva da Madonna di Campiglio e che aveva due figli di tre anni, e Filocamo poteva salutare anche la mamma di Nicodema, che voleva bene a tutti e che sarebbe stata contenta di rivedere Filocamo.