La mattina del 4 ottobre ho capito perché detesto lavorare in città. Ero a casa in malattia per due giorni, devo aver preso freddo e mi è venuta la dissenteria. Siccome bisogna essere reperibili dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, ho deciso di alzarmi presto e di andare a confessarmi. Per me il giorno di San Francesco, in genere, è giorno di grazia, come le feste mariane. Ho fatto parte, come frate, di una comunità dedicata a San Massimiliano Kolbe, quindi una comunità francescana con una colorazione mariana, essendo Kolbe un francescano mariologo. Come mi dissero una volta, quando fai la consacrazione a Maria poi magari dimentichi di averla fatta, ma lei non dimentica. Probabilmente nei quattro anni e mezzo in cui sono stato frate qualcosa di buono ho fatto. Regolarmente, quando c’è una festa mariana, la giornata va particolarmente bene, il lavoro fila liscio, non ho problemi, ho poche consegne, consegno in campagna, torno a pacchi zero, c’è un bel sole, ecc. Anche dal giorno di San Francesco mi aspetto del buono, infatti è venuta la dissenteria e quel giorno ero a casa. Ho colto l’occasione per andare a confessarmi.
Quando vado al lavoro esco di casa alle 8,40 e arrivo sul lavoro per le 9,00. La convocazione è alle 9,20. Alle 9,30 ci mettiamo in coda. Tra le 9,40 e le 9,50 carichiamo, per le 9,55 siamo sulla strada. Il luogo di lavoro è il Centro di Smistamento di Castegnato, appena fuori città. Da quando, nel gennaio 2021, ho comprato casa, abito in una bella zona non lontano dal centro di Brescia. Faccio così: esco di casa, mi tappo naso, occhi e orecchie per evitare di pensare al traffico cittadino e in generale alla città, mi fiondo in tangenziale e in due manciate di minuti sono a Castegnato.
Prima di comprare casa ero in affitto. Per i primi tre anni in cui ho lavorato come corriere ho abitato in un quartiere periferico addirittura frazione di Brescia, il cosiddetto quartiere Fornaci.
Solo abitando fuori città, non facendo parte, quindi, della città, mi era possibile la mattina, recandomi sul posto di lavoro che allora, prima della costruzione del Centro di Smistamento (2020), era comunque fuori città, zona industriale, mi era possibile insomma andare a lavorare in città. La sera, finito il lavoro, tornavo nella mia personalissima fornace – come i monaci chiamano la cella, perché è il luogo della prova – fuori città. Era un monolocale, quindi aveva le caratterische della cella monacale.
Ho voluto comprare casa quasi in centro non per puzza sotto il naso, ma perché, avendo visto tutta la città per lavoro, ho capito qual è la zona migliore. Cercavo una zona di condomìni perché amo l’anonimato. Farei fatica a vivere in una villetta a schiera, o in un paese di campagna, o in un condominietto di quattro unità, ecc. Sono cresciuto in un condominio a Milano, senza conoscere le facce dei vicini di casa, e questa per me è condizione normale.
Poco dopo aver comprato casa, hanno iniziato a mandarmi a fare le consegne in campagna. Era perfetto. Il luogo dove vivo non deve essere il luogo dove lavoro. È una malattia psicologica mia, lo so. Ma ho anche capito, il 4 ottobre, che malattia è.
C’è un motivo per cui vivo a Brescia, senza famiglia, non a Milano, dove ci sono mia madre e mio fratello.
Non c’era abbastanza spazio per me e mio fratello nella stessa città.
Innanzitutto mio fratello non è figlio di mia madre, ma della prima moglie di mio padre. Ha 16 anni più di me. Mia sorella, che ora abita in provincia di Pavia, è figlia della stessa madre e dello stesso padre di mio fratello e ha 15 anni più di me. Quando mio padre divorziò dalla prima moglie, nel 1970, il suo divorzio fu uno dei primi registrati all’anagrafe appena fatta la legge. Allora non era immediato, come oggi, affidare i figli alla madre. Il giudice prese una decisione, affidò mio fratello e mia sorella al padre. Mio padre, per accudire i bambini, prese in casa una giovane bambinaia che veniva dal Friuli – mia madre. Dopo un po’ nacqui io. Quando ero ancora piccolo, i miei genitori litigarono e lei se ne andò di casa prendendo me. Da allora sono cresciuto solo con la mamma, mentre mio fratello e mia sorella, all’epoca adolescenti, sono rimasti con mio padre.
Siamo stati sempre in contatto. Mio fratello e mia sorella sono sempre stati un po’ bulli con me. Loro erano i fighi, gente da oratorio, popolare. Invece io ero il bamboccio che cresceva da solo con la mamma, non faceva sport e aveva solo un amico, il secchione della classe. Mio fratello, tra l’altro, è gran bestemmiatore, cosa che ha iniziato a darmi fastidio quando ho iniziato a credere in Dio e a farmi un’idea del gran male provocato dalla bestemmia.
Quando mio padre, nel 2000, stette male, mio fratello, mia sorella e io litigammo. Ero solo un universitario, ma mi venne messa addosso pressione per aiutare a sostenere le spese per le cure di mio padre, in particolare dopo che fu messo in casa di riposo. Fu così che dopo un po’ abbandonai l’università. Per tre anni, dopo la morte di mio padre, con mio fratello e mia sorella non ci siamo parlati. Da allora i rapporti con loro non sono più gli stessi. Certo, c’è stato un riavvicinamento, generato soprattutto dai dialoghi con confessori e padri spirituali che mi hanno raccomandato di perdonare e far pace.
Però c’è questo. Se mi metti alle otto di mattina, quando tutta la gente è in giro per andare a lavorare, per le strade a Milano, inizio a sudare freddo e a sentirmi a disagio. Milano è il mondo nel quale ho fallito. Ne sono stato scacciato. Non ho mai avuto la minima possibilità, data la mia psicologia travagliata, di farmi una vita a Milano. Il tradimento del primo amore, gli amici che negli anni finivano l’università, si sposavano e si affermavano, mentre restavo indietro... Certo, volevo fare lo scrittore, facevo psicanalisi e studiavo Platone, credendo che dal punto di vista intellettuale l’università non avesse più nulla da darmi, ma all’atto pratico ero pur sempre un fallito.
Partire per andare a fare il frate nelle Marche è stato un modo per dare senso alla mia vita, per avere una seconda possibilità. Voglio che nessuno immagini cosa ha significato fallire anche questa esperienza. È per questo che non ce l’ho fatta a tornare indietro, a Milano, a vivere con mia madre. Ho dovuto spostarmi, anche di poco, e andare a Brescia.
Martedì 4 ottobre, mentre camminavo verso la chiesa di Santa Maria delle Grazie, in pieno centro storico, e vedevo genitori con bambini e traffico di macchine di chi andava al lavoro, ho iniziato a sudare freddo. Lì è stata l’illuminazione. “Da questo mondo sono stato scacciato”. “In questo mondo non ho mai avuto la minima possibilità”. E mi è tornato in mente il confronto con mio fratello, yuppie giovane di successo che da agente immobiliare, da ragazzo, è divenuto amministratore condiminiale, e oggi è amministratore niente meno che del Bosco Verticale. “Non posso lavorare in questo contesto. La mia vita è finita, in questo contesto, anni fa”. Ecco perché, da abitante della città di Brescia, non riesco ad andare a fare le consegne a Brescia, non riesco a lavorare all’interno della città di Brescia. Non è solo questione di combattere col traffico. Il mio anonimato, il mio essere nessuno, il mio essere stato scacciato da questo mondo e da questa società, non esistono più. Esistevano ancora quando andavo a lavorare nel centro storico di Brescia provenendo da un monolacale in periferia, quasi fuori città. Esistono ancora, se vado a lavorare a 40 Km di distanza, a Castel Goffredo, nel mantovano, a Gambara, Isorella, Remedello, Calvisano, dove nessuno mi conosce.
Ma se devo svegliarmi la mattina, andare a Castegnato a prendere un furgone per poi ricatapultarmi nel caos del traffico cittadino, nel mondo che mi ha scacciato già anni fa, non ce la faccio. È incredibile il senso di rigetto che provo, sono tensioni e ansie a non finire.