Non c’è posto per entrambi in questa città

La mattina del 4 ottobre ho capito perché detesto lavorare in città. Ero a casa in malattia per due giorni, devo aver preso freddo e mi è venuta la dissenteria. Siccome bisogna essere reperibili dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, ho deciso di alzarmi presto e di andare a confessarmi. Per me il giorno di San Francesco, in genere, è giorno di grazia, come le feste mariane. Ho fatto parte, come frate, di una comunità dedicata a San Massimiliano Kolbe, quindi una comunità francescana con una colorazione mariana, essendo Kolbe un francescano mariologo. Come mi dissero una volta, quando fai la consacrazione a Maria poi magari dimentichi di averla fatta, ma lei non dimentica. Probabilmente nei quattro anni e mezzo in cui sono stato frate qualcosa di buono ho fatto. Regolarmente, quando c’è una festa mariana, la giornata va particolarmente bene, il lavoro fila liscio, non ho problemi, ho poche consegne, consegno in campagna, torno a pacchi zero, c’è un bel sole, ecc. Anche dal giorno di San Francesco mi aspetto del buono, infatti è venuta la dissenteria e quel giorno ero a casa. Ho colto l’occasione per andare a confessarmi.

Quando vado al lavoro esco di casa alle 8,40 e arrivo sul lavoro per le 9,00. La convocazione è alle 9,20. Alle 9,30 ci mettiamo in coda. Tra le 9,40 e le 9,50 carichiamo, per le 9,55 siamo sulla strada. Il luogo di lavoro è il Centro di Smistamento di Castegnato, appena fuori città. Da quando, nel gennaio 2021, ho comprato casa, abito in una bella zona non lontano dal centro di Brescia. Faccio così: esco di casa, mi tappo naso, occhi e orecchie per evitare di pensare al traffico cittadino e in generale alla città, mi fiondo in tangenziale e in due manciate di minuti sono a Castegnato.

Prima di comprare casa ero in affitto. Per i primi tre anni in cui ho lavorato come corriere ho abitato in un quartiere periferico addirittura frazione di Brescia, il cosiddetto quartiere Fornaci.

Solo abitando fuori città, non facendo parte, quindi, della città, mi era possibile la mattina, recandomi sul posto di lavoro che allora, prima della costruzione del Centro di Smistamento (2020), era comunque fuori città, zona industriale, mi era possibile insomma andare a lavorare in città. La sera, finito il lavoro, tornavo nella mia personalissima fornace – come i monaci chiamano la cella, perché è il luogo della prova – fuori città. Era un monolocale, quindi aveva le caratterische della cella monacale.

Ho voluto comprare casa quasi in centro non per puzza sotto il naso, ma perché, avendo visto tutta la città per lavoro, ho capito qual è la zona migliore. Cercavo una zona di condomìni perché amo l’anonimato. Farei fatica a vivere in una villetta a schiera, o in un paese di campagna, o in un condominietto di quattro unità, ecc. Sono cresciuto in un condominio a Milano, senza conoscere le facce dei vicini di casa, e questa per me è condizione normale.

Poco dopo aver comprato casa, hanno iniziato a mandarmi a fare le consegne in campagna. Era perfetto. Il luogo dove vivo non deve essere il luogo dove lavoro. È una malattia psicologica mia, lo so. Ma ho anche capito, il 4 ottobre, che malattia è.

C’è un motivo per cui vivo a Brescia, senza famiglia, non a Milano, dove ci sono mia madre e mio fratello.

Non c’era abbastanza spazio per me e mio fratello nella stessa città.

Innanzitutto mio fratello non è figlio di mia madre, ma della prima moglie di mio padre. Ha 16 anni più di me. Mia sorella, che ora abita in provincia di Pavia, è figlia della stessa madre e dello stesso padre di mio fratello e ha 15 anni più di me. Quando mio padre divorziò dalla prima moglie, nel 1970, il suo divorzio fu uno dei primi registrati all’anagrafe appena fatta la legge. Allora non era immediato, come oggi, affidare i figli alla madre. Il giudice prese una decisione, affidò mio fratello e mia sorella al padre. Mio padre, per accudire i bambini, prese in casa una giovane bambinaia che veniva dal Friuli – mia madre. Dopo un po’ nacqui io. Quando ero ancora piccolo, i miei genitori litigarono e lei se ne andò di casa prendendo me. Da allora sono cresciuto solo con la mamma, mentre mio fratello e mia sorella, all’epoca adolescenti, sono rimasti con mio padre.

Siamo stati sempre in contatto. Mio fratello e mia sorella sono sempre stati un po’ bulli con me. Loro erano i fighi, gente da oratorio, popolare. Invece io ero il bamboccio che cresceva da solo con la mamma, non faceva sport e aveva solo un amico, il secchione della classe. Mio fratello, tra l’altro, è gran bestemmiatore, cosa che ha iniziato a darmi fastidio quando ho iniziato a credere in Dio e a farmi un’idea del gran male provocato dalla bestemmia.

Quando mio padre, nel 2000, stette male, mio fratello, mia sorella e io litigammo. Ero solo un universitario, ma mi venne messa addosso pressione per aiutare a sostenere le spese per le cure di mio padre, in particolare dopo che fu messo in casa di riposo. Fu così che dopo un po’ abbandonai l’università. Per tre anni, dopo la morte di mio padre, con mio fratello e mia sorella non ci siamo parlati. Da allora i rapporti con loro non sono più gli stessi. Certo, c’è stato un riavvicinamento, generato soprattutto dai dialoghi con confessori e padri spirituali che mi hanno raccomandato di perdonare e far pace.

Però c’è questo. Se mi metti alle otto di mattina, quando tutta la gente è in giro per andare a lavorare, per le strade a Milano, inizio a sudare freddo e a sentirmi a disagio. Milano è il mondo nel quale ho fallito. Ne sono stato scacciato. Non ho mai avuto la minima possibilità, data la mia psicologia travagliata, di farmi una vita a Milano. Il tradimento del primo amore, gli amici che negli anni finivano l’università, si sposavano e si affermavano, mentre restavo indietro... Certo, volevo fare lo scrittore, facevo psicanalisi e studiavo Platone, credendo che dal punto di vista intellettuale l’università non avesse più nulla da darmi, ma all’atto pratico ero pur sempre un fallito.

Partire per andare a fare il frate nelle Marche è stato un modo per dare senso alla mia vita, per avere una seconda possibilità. Voglio che nessuno immagini cosa ha significato fallire anche questa esperienza. È per questo che non ce l’ho fatta a tornare indietro, a Milano, a vivere con mia madre. Ho dovuto spostarmi, anche di poco, e andare a Brescia.

Martedì 4 ottobre, mentre camminavo verso la chiesa di Santa Maria delle Grazie, in pieno centro storico, e vedevo genitori con bambini e traffico di macchine di chi andava al lavoro, ho iniziato a sudare freddo. Lì è stata l’illuminazione. “Da questo mondo sono stato scacciato”. “In questo mondo non ho mai avuto la minima possibilità”. E mi è tornato in mente il confronto con mio fratello, yuppie giovane di successo che da agente immobiliare, da ragazzo, è divenuto amministratore condiminiale, e oggi è amministratore niente meno che del Bosco Verticale. “Non posso lavorare in questo contesto. La mia vita è finita, in questo contesto, anni fa”. Ecco perché, da abitante della città di Brescia, non riesco ad andare a fare le consegne a Brescia, non riesco a lavorare all’interno della città di Brescia. Non è solo questione di combattere col traffico. Il mio anonimato, il mio essere nessuno, il mio essere stato scacciato da questo mondo e da questa società, non esistono più. Esistevano ancora quando andavo a lavorare nel centro storico di Brescia provenendo da un monolacale in periferia, quasi fuori città. Esistono ancora, se vado a lavorare a 40 Km di distanza, a Castel Goffredo, nel mantovano, a Gambara, Isorella, Remedello, Calvisano, dove nessuno mi conosce

Ma se devo svegliarmi la mattina, andare a Castegnato a prendere un furgone per poi ricatapultarmi nel caos del traffico cittadino, nel mondo che mi ha scacciato già anni fa, non ce la faccio. È incredibile il senso di rigetto che provo, sono tensioni e ansie a non finire.

Farsi valere o lasciarsi fare le cose

Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza (Gc 5, 6)


È vero che la Parola di Dio rivela sempre nuovi significati. Bisogna avere pazienza. Basta aspettare. A volte possono volerci anni, ma pian piano viene a te qualcosa di nuovo. Può essere una folgorazione istantanea, come quando qualcuno, in un caso di condivisione, riesce a trasmettere nuove verità ai presenti (“Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio”; 2Pt 1, 20-21). O può essere un significato che si forma lentamente in te, dopo aver letto e aver vissuto.
Alla seconda categoria appartiene una cosa che ho capito appieno solo ultimamente. È una cosa fondamentale sapere per essere buoni cristiani. Eppure non lo sapevo. È proprio vero che la mia conversione è stata tardiva – 27 anni –, e che sono ancora un novellino.
Sento di aver finalmente capito cosa intende il profeta Ezechiele quando, parlando in nome di Dio, dice: “toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”. Credo di aver finalmente capito cos’è il cuore di carne. Genericamente, mi sembrava sempre di recepire il messaggio del passo. In realtà, mi sa che l’ho capito solo ora.


Il popolo di Israele è spesso accusato da Dio di avere un “cuore duro” (ad es.: Sal 4, 3; Lam 3, 65; Ez 2, 4; Mt 13, 15; Mc 6, 52; Mc 8, 17; Gv 12, 40). Cos’è il cuore duro? Per me il cuore duro è riassumibile in una frase trovata anni fa in Platone. Ora però non saprei recuperarla, vado a memoria. Socrate dice che è meglio subire ingiustizia che commetterla. Subito dopo, però, dice: “Ad ogni modo, bisogna anche evitare a tutti i costi che sia commessa ingiustizia contro di noi”. Potrebbe essere, quasi certamente, in Fedro o in Repubblica. Come ho detto, sto andando a memoria, perciò la frase potrebbe non essere esattamente così.

La convizione che bisogna evitare a tutti i costi di subire ingiustizia è rimasta dentro di me per anni. Trovarla in Platone è stato come trovare il sigillo verbale a qualcosa che già sentivo.
Di fatto, tutte le persone agiscono così, istintivamente. Nessuno vuole subire ingiustizia. Eppure tutti sanno che da quando esistono gli stati, ci sono le forze dell’ordine alle quali è demandato il compito di impedire le ingiustizie, e raddrizzarle quando sono commesse.
Ma la gente, sebbene demandi alla forze dell’ordine, non fa altro che cercare di farsi giustizia da sola. Pensiamo a quante volte qualcuno ha provato a rubarci il posto in coda. “Non posso permetterlo!”. Sono tanti i casi della vita in cui non possiamo permettere che qualcuno commetta un’ingiustizia, anche piccola, verso di noi.
È questo, credo, il cuore duro.

“Perché non subire piuttosto l’ingiustizia? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene?”, dice San Paolo (1Cor 6, 7).
L’intera vita di Gesù è incarnazione di questo messaggio. Eppure, per tanti anni, sono stato convinto che Gesù non avesse mai lasciato che qualcuno commettesse ingiustizia contro di lui. La sua condanna a morte non è forse il risultato di regolare processo? Gesù era talmente giusto che nessuno ha mai osato commettere ingiustizia contro di lui, mi dicevo. Ci sono volute le autorità statali, le quali, convinte di avere la giustizia dalla propria parte, sono state le uniche che hanno avuto il diritto di agire contro Gesù.

Certi passi, invece, danno un’idea di quella che deve essere stata la vita pubblica di Gesù. Ad esempio il passo dell’emorroissa:

Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.
Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato il mantello?». I discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?». Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5, 25-34).

Ciò che trovo interessante, in questo passo, è la frase: “avvertita la potenza che era uscita da lui”. Gesù, guarendo, perdeva forza. Perdonando, perdeva forza. Esorcizzando, perdeva forza: “il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” (At 10, 38).
Per dare del bene a qualcuno, bisogna avere del bene. Gesù aveva tanto bene. Essendo Dio, era la persona più sana sulla faccia della terra. Ora, la salute si può trasmettere. Ma quando la si dà, la si perde. Chi ha mai provato a fare volontariato ospedaliero senza sentirsi esausto a fine turno?

Credo che l’intera vita di Gesù sia stato un – a volte volontario, a volte involontario, come nel caso dell’emorroissalasciarsi fare delle cose. Lasciare che la gente pescasse da lui, prendesse liberamente la sua forza, la sua salute, la sua condizione di perfezione. Tale condizione non si conservava sempre intatta – vediamo Gesù al pieno della sua magnificenza nell’episodio della Trasfigurazione (Mt 17, 1-8) – ma, ogni volta che Gesù entrava in contatto con qualcuno che era nella condizione opposta alla sua, c’era un passaggio di forza, di salute, di perfezione. La persona da guarire era risanata, perdonata, esorcizzata, insomma passava da una condizione di male a una condizione di bene, ma Gesù, in quanto uomo, non restava intaccato.

Cos’è la croce se non un grande lasciarsi commettere ingiustizia contro? Ecco cosa vuol dire avere un cuore di carne. Smetterla di combattere per i propri diritti, per il proprio posto in coda, per conservare le proprie cose, ecc. Essere disposti a perdere tutto. 

Colleghi di lavoro

Non riesco a creare, coi colleghi di lavoro, relazioni convincenti. Ci sono quelli con cui parlo più e quelli con cui parlo meno.

Tra i colleghi con cui parlo c’è D., un sudamericano che ha studiato un po’ di psicologia e crede di dover psicanalizzare tutti. Un altro che mi chiede sempre favori. Mi ha chiesto soldi un paio di volte. Mi ha chiesto di noleggiargli due volte un’auto con la mia carta di credito, lui non ha carta di credito. Insomma, tutti che fanno la coda per chiedere favori all’ex frate, perché sanno che li fa. Anche perché non sanno in che altro modo relazionarsi con lui.

Bisogna dire che non sono il massimo della socievolezza. Con il risentimento che ho verso il mio lavoro, sono sempre piuttosto imbronciato. Non dovrei esserlo, il cristiano è gioioso e sorridente. La gioia si basa sulla speranza nella risurrezione per un eternità gloriosa. Invece, nel mio caso, dipende da come mi sveglio la mattina. Ce la metto tutta. Mi impegno, anche, perché mi hanno insegnato a essere affabile, ma non sempre colgo nel segno.

Poi voglio bene a S. È milanese come me. Mi pare abbia 53 anni. È un tipo buono con tutti. Quando consegnavamo entrambi nel centro storico, tutti i giorni facevamo pausa assieme. Sono al corrente della situazione di salute di sua mamma, che ha più di 90 anni, e sono aggiornato sulla vita di sua figlia, 28. Oggi, noto questo in S. Quando lo vedo, tendo ad andare verso di lui per parlargli, perché mi è simpatico e perché lo considero amico, ma tende a evitarmi, come se fossimo nel cortile della scuola durante la ricreazione e non volesse farsi vedere con lo sfigato.

In generale, ho notato, infatti, di essere un po’ evitato, specialmente dai colleghi che hanno più anzianità, quelli che mi conoscono da anni. La mia poca socievolezza è una ragione. Ma c’è anche qualcos’altro. È come se fosse passata l’idea che, in quanto ex frate, sono sfigato. Uno che non sa farsi valere nella vita. Uno che obbedisce a testa bassa, senza farsi sentire dai padroni quando c’è bisogno. Una specie di lecchino mascherato. Dico: “mascherato” perché di fatto sono iscritto alla Cgil.

Mi avvicinano i colleghi nuovi. Di questi ce n’è in abbondanza. Saremo 25 col contratto a tempo indeterminato e i restanti 20-25 col determinato. Questi ultimi girano, nel senso che ce n’è di nuovi ogni tre, quattro mesi. I cosiddetti determinati vengono rinnovati. È difficile che a qualcuno facciano il contratto a tempo indeterminato. Ne fanno uno ogni morte di Papa. Ho visto decine di bravissimi corrieri sparire solo perché era scaduto il contratto e non gliel’hanno rinnovato, per veder comparire novellini che creano disagi a tutto il gruppo (perché i primi tempi non sono in grado di finire e bisogna aiutarli).

Insomma i nuovi, che non mi conoscono, parlano volentieri con me. Gli anziani – lavorativamente – mi conoscono e mi trattano da sfigato, da appestato da non avvicinare. S. mi rattrista. Magari se siamo solo lui e io si mette a parlare, ma in gruppo tende a non cagarmi.
C’è da dire che resto praticamente fuori da tutte le conversazioni, essendo i temi il calcio, la busta paga, le macchine, le donne, nessuno ha voglia di parlare di Dio, l’unico tema che affronto volentieri, anche perché penso di avere qualcosa da dire in materia, non tanto perché ho studiato, ma perché ho riflettuto.

I due con cui non parlo proprio sono M. e T. La prima conversazione con M., quattro anni e mezzo fa, mi chiede soldi. Fino a un anno prima ero frate, quindi ero pieno di volontà di fare carità. Gli presto subito, con un bel sorriso, 70 euro. Me li ridà dopo non molto. Me li ha ridati subito perché voleva instaurare una relazione di fiducia per far sì che diventassi un bancomat. Ha fatto così con un altro collega bonaccione, che per sua fortuna ha appena vinto il concorso, arrivando secondo, per Vigile Urbano in un paese sul lago di Garda, e quindi, spero per lui, non avrà più frequentazioni con M.
Dopo pochissimo, infatti, M. mi chiede ancora soldi. La cosa inizia a puzzarmi.

Nel frattempo sono diventato amico di P. Come sono diventato amico di P.? Il primo mese che lavoravo non avevo ancora trovato sistemazione a Brescia, dormivo a casa di mia madre e facevo Milano-Brescia in treno, e arrivando a cancelli ancora chiusi davanti all’azienda, a causa dei fissi orari dei treni, mi mettevo a pregare il rosario. P. arriva secondo e mi trova mentre prego il rosario fuori dai cancelli. Non è stato un caso. Scopro che P. ha vissuto una conversione da poco e prega il rosario. Nessun modo più divino per far nascere una relazione. Oggi P. non lavora più con me. Si è ribellato al sistema Amazon e ha avuto il coraggio di dimettersi. Dopo mesi di incertezze ha trovato lavoro come responsabile della logistica in un’azienda di Peschiera Borromeo. Un ottimo posto. La Madonna l’ha aiutato.
Abita non lontano da me. Ma non ci sentiamo più. Colpa mia. Velocemente ho scoperto, tramite chi ha intessuto relazioni intense con lui, che è uno che chiama alle quattro del mattino con le paturnie e non ho proprio bisogno di cose del genere. Ho quindi scartato un potenziale amico che la Madonna mi aveva dato. Ma forse l’aveva mandato il demonio, facendomelo apprezzare con la scusa del rosario. A volte il demonio, dicono, si traveste da angelo di luce. Bisogna dire che aveva idee disparate sulla Chiesa, era polemico coi sacerdoti e non ascoltava minimamente le cose che gli dicevo. Preferiva ciò che trovava su Facebook. Voglio dire, sei devoto e diventi amico di un ex frate, perlomeno ascoltalo. Invece dopo un po’ si era fatto l’idea che avevo sbagliato nel perseguire la mia vocazione, che erano problemi psicologici, ecc. Insomma, penso di aver fatto bene a lasciarlo perdere. Ma nel periodo iniziale, quando, almeno sul lavoro, eravamo amici, essendo P. un tipo scafato, aveva capito subito che tipo era M. P. aveva sulle spalle due denunce per aggressione, era caldo e andava in fretta alle mani. Pregava la Madonna che lo aiutasse a cambiare. Inoltre P. è il tipo che, con gli altri colleghi, parla alle spalle. Avevano presto inquadrato M. Fu lui a dire: “Se presti soldi a M., non ti parlo più!”. Difatti, quando M. è tornato alla carica per chiedere soldi, ho detto no. M. ha fatto un lungo affondo sul fatto che in qualità di ex frate avrei dovuto praticare la carità più degli altri, ha poi detto senza più alcun ritegno che dovevo aiutarlo a mantenere i suoi hobby costosi, le prostitute cinesi e il gioco, infine ha tirato in mezzo la figlia, che vive con la madre, ma ha trovato pur sempre il muso duro. Da quel giorno non mi ha più parlato. Poco male, in tre anni M. ha passato 20 giorni al mese in mutua per via del mal di schiena e di un’ernia, non so come fa a non essere ancora stato licenziato.

L’altro collega con cui non parlo è T. Pensare che scherzavamo così tanto i primi giorni. Consegnavamo entrambi in città. Ci incontravamo e andavamo a prendere il caffè. Poi, un giorno, mentre con D. camminavamo nei pressi del cancello di entrata al parcheggio, e lui non riusciva a passare col furgone, si è messo a suonare il clacson, mi sono spostato e gli ho fatto un brusco gesto di passare, lui si è accostato, ha abbassato il finestrino e ha fatto il gesto del colpo di pistola alla nuca, come per dire: “Questo ci vorrebbe, per voi!”. T. è un vecchio napoletano. Il cambiamento repentino mostrava chiaramente che aveva parlato male alle mie o alle nostre spalle. Quando trovi qualcuno che da un giorno all’altro cambia modo di porsi significa che ha sparlato. Da quel giorno non sono più riuscito a rivolgergli la parola.

Una cosa che mi ha rattristato, come mi rattrista S. quando mi evita, è stata la cena coi colleghi. Rendiamoci conto che c’è stata gente, che si è seduta a quel tavolo, che non mi ha rivolto la parola, anzi non mi ha neanche salutato. Ripeto, un po’ è colpa mia. Faccio un esempio. Alla cena sono finito seduto di fronte a R., il più vecchio di noi e persona degnissima. Sono sempre stato convinto che con lui avrei avuto tante cose di cui parlare. Invece anche lui parla solo di calcio, videogiochi – ebbene sì, nonostante l’età –, parla male del lavoro e dei capi, ecc. Inoltre vuole far vedere di essere uno che si è inserito tra i giovani. Quindi, sedendosi a tavola, inizia a tirare battute, risate, urlate e cose del genere. Alla cena non ho potuto avere una conversazione.
Nessuno vuole avere una conversazione con me. Sono il tipo che chiede subito come stanno i famigliari, che si interessa se qualcuno ha problemi di salute e mostra compassione. Sono il tipo che vuole affrontare argomenti seri.
Ma poi riconosco di essere un po’ tardo. Gli altri hanno cervelli scattanti e acuti come motori turbo. Battute, collegamenti, idee, proposte... Quando davvero inizia una conversazione, quella a cui in teoria vorrei partecipare, perché sono il tipo che vuole passare per profondo e intelligente, dato che non sono scattante e acuto, mi sento subito tagliato fuori, perché mi rendo conto che sono tutti più intelligenti di me. R., ad esempio, è strapolemico verso Amazon, ma io, che vorrei esserlo con lui, giusto per avere una conversazione, non riesco a stargli dietro. Si vede subito che lui ha ragionato a fondo su un sacco di problemi, per cui potrebbe fare proposte per risolverli, e allo stesso tempo potrebbe suonargliele, a parole, a qualsiasi capo. Ha un cervello che va a mille. E ci sono altri della compagnia che, sentendolo, sanno subito come rispondergli e tenergli botta.
Finisce quasi sempre così. Magari sono io quello che lancia un argomento, ma sono altri quelli che lo sviluppano. Sanno pensare, e velocemente. Mi dico: “Di questa roba, in realtà, non me ne frega niente, per questo non ho niente da dire, e non mi va di applicare il cervello”. È triste, finisco presto fuori dalla conversazione. Se provo a dire qualcosa, sono preceduto e interrotto. Ciò che ho da dire non conta. Nessuno ha voglia di parlare di Dio, e dunque... Se per caso qualcuno ha la pietà di voler farmi parlare, vedendomi in silenzioso affanno, e mi fa domande su Dio o sulla mia ex vita religiosa, dico due parole e vedo subito che l’argomento non interessa, e si vuole subito cambiare.

Procurarsi reperti

In Italia si conosce poco Seinfeld, sitcom che ha avuto enorme successo in USA. Più di dieci anni fa, quando ne venni a conoscenza, guardando qualche video su Youtube, mi sembrò, in effetti, non del tutto sconosciuta. Può essere che su qualche canale, o a qualche orario strano, sia stata trasmessa, quindi facendo zapping da piccolo o da adolescente senza essere, al tempo, fan di sitcom, e quindi non soffermandomici, qualche immagine sia pur rimasta impressa nelle mie cornee. Sta di fatto che non sono a conoscenza di nessuna trasmissione in Italia di questa serie televisiva. Di certo, quando ho visto l’attore che interpreta George Costanza, Jason Alexander, nel ruolo del migliore amico in Shallow Hal (Amore a prima svista) accanto a Jack Black, recitando anche nella scena raccapricciante in cui confessa di avere la coda e la mostra, scena rimasta, per il disgusto, impressa per sempre nel mio cuore, l’ho trovato volto famigliare. Jason Alexander, dopo Seinfeld, a parte il ruolo menzionato, non ha più trovato lavoro.

Ma, d’altronde, così capita a molti attori di sitcom. Due a caso, sfuggiti a questa legge, sono Jennifer Aniston, con una considerevole carriera filmica dopo Friends, e Julia Louis-Dreyfus, interpretante Elaine Blanes in Seinfeld, che ha continuato a lavorare in televisione nel ruolo della Vice-presidente degli Stati Uniti nella sitcom Veep, che il 21 settembre 2022 la rivista Rolling Stones ha messo al 25esimo posto nella lista delle 100 miglior serie televisive di tutti i tempi.

Seinfeld è andata in onda dal 1989 al 1998. È stata ideata da Jerry Seinfeld e Larry David. Jerry Seinfeld era, al tempo, un giovane comico cabarettista (meglio dirlo in inglese: stand-up comedian, ‘comico in piedi’) già abbastanza affermato. Larry David aveva provato il cabaret (la stand-up comedy) senza successo e aveva lavorato brevemente come scrittore per Saturday Night Live, il longevissimo programma di sketch comici nato nel 1975 ed esistente ancora oggi.

La sitcom narra la vita quotidiana di Jerry Seinfeld ed è ambientata nel suo appartamento a New York. I personaggi principali sono i suoi amici: George Costanza, alter ego di Larry David, Elaine Blanes e Cosmo Kramer, ispirato a un vicino di casa che ancora oggi a New York fa tour guidati sui luoghi reali di Seinfeld.

Jerry Seinfeld non ha avuto problemi a recitare e interpretare se stesso. Larry David, invece, temendo forse di non essere bravo come attore, o volendosi dedicare interamente alla scrittura, ha preferito creare il personaggio di George Costanza e farlo interpretare a Jason Alexander. Elaine Blanes è un personaggio totalmente inventato, hanno pensato ci fosse bisogno di una presenza femminile.

Quando Seinfeld ha chiuso, dopo la nona stagione, la puntata finale ha fatto 76,3 milioni di spettatori, quarta in assoluto dopo le puntate finali di M.A.S.H, Cheers e The fugitive.

Nonostante Seinfeld sia arrivata alla nona stagione, Larry David, che per tutto il tempo ha fatto parte del tavolo degli scrittori, ha lasciato all’ottava per creare uno show proprio.

Lo show creato da Larry David dopo che all’ottava stagione ha lasciato Seinfeld per mettersi in proprio si chiama Curb your enthusiasm. In Curb your enthusiasm Larry David finalmente si mette a fare l’attore e interpreta se stesso.

Sono venuto a conoscenza di Curb your enthusiasm prima di Seinfeld, perché al tempo, più o meno negli anni 2006-2010 c’era un blog tenuto da un giovane sardo i cui nome e titolo ora non ricordo, il cui motto era: “Kill the enthusiasm”. Era un blog pessimista e geniale. L’autore era chiaramente conoscitore di serie televisive americane, infatti aveva spudoratamente creato il suo motto copiando e modificando il titolo di Curb your enthusiasm. Tramite il blog vendeva anche magliette create da lui con la scritta: “Kill the enthusiasm”, con un logo composto di gente sorridente col segnale stradale del cerchio con sbarra diagonale sovrapposto.

Jerry Seinfeld era un bravo comico, era bravo a creare battute ed era anche un buon attore, uno che sullo stage era a suo agio. Larry David, si scoprì con Curb your enthusiasm, era il vero genio. La sua particolarità non era tanto la battuta, la cosiddetta punch-line, ma la costruzione di trame. Sappiamo dalla teoria che la sitcom ha una struttura fissa. Ci sono una storia A, una storia B e una storia C. Sono vissute ciascuna da un personaggio. Le tre si intersecano. Larry David ha la capacità di far sì che i punti di intersezione tra le tre trame giungano inaspettati e di sorpresa. Non saprei come altro spiegare la tecnica. Sta di fatto che a un set-up di inizio puntata c’è sempre un pay-off finale, per cui si fanno sbattere le mani una contro l’altra e si dice: “Aaah!”.

Per quanto riguarda la visione del mondo presentata sia da Seinfeld sia da Curb your enthusiasm, direi che è legata agli autori e poco ai personaggi, ma ci sta, dato che gli autori scrivono di se stessi.

Possiedo un paio di stagioni di Seinfeld e tutte le stagioni di Curb your enthusiasm, che, devo dire, per un po’ mi ha felicemente intrattenuto. Ora come ora, la visione del mondo di Larry David mi sta un po’ sulle balle, quindi difficilmente riguardo le puntate, ma devo ammettere che, dopo aver a lungo soppesato e decantato quanto visto, ritengo la tecnica narrativa di cui è capace qualcosa di davvero geniale.

Circa cinque anni fa, quando mi procurai i dvd di Curb your enthusiasm, in un episodio della prima stagione rimasi colpito da un attore. Un ruolo secondario ma determinante nella trama, c’era un segmento di due o tre minuti in cui la scena era tutta sua. Nei titoli di coda lessi che l’attore si chiamava Bob Odenkirk.

Oggi, leggendo qualche testata americana, scopro che tra le serie televisive più amate degli ultimi anni ci sono Breaking bad e Better call Saul. Scopro che Bob Odenkirk è sempre stato scrittore più che attore, di commedia più che di drammi. Infatti, dopo il grande successo di Better call Saul, gli hanno fatto scrivere l'autobiografia, e lui l’ha intitolata: Comedy, comedy, comedy, drama.

Andando a scavare ancora più a fondo scopro che Bob Odenkirk ha lavorato per anni come scrittore di sketch proprio a Saturday Night Live. Prima ancora, agli esordi, aveva creato una serie, sempre di sketch comici, intitolata Mr. Show, col collega e amico David Cross, attore discretamente famoso nel mondo della commedia, il cui ruolo più importante è Tobias Fünke in Arrested development (2003-2019).

Ho acquistato su Amazon il dvd unico di Mr. Show. L’ha mia madre a casa. Le cose che non posso far arrivare ai locker le faccio arrivare in negozio a mia madre, che a 75 anni tiene ancora aperto.
Prima ancora di Mr. Show, Bob Odenkirk ha esordito nello show vincitore di un premio Emmy: The Ben Stiller show. Il dvd con i 13 episodi di questo reperto degli anni ‘90 l’ha trovato mio nipote su Ebay e l’ha fatto arrivare a casa mia. Me l’ha regalato. Che bravo nipote. È appassionato di cinema, il suo idolo è Adam Sandler ma è anche amante di Ben Stiller, Judd Apatow e cricca, ed è laureato in filosofia. È una gioia avere un nipote così. Ma tutti i nipoti sono una gioia.

Solitudine moltitudine

Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46)


Essendo Gesù modello dell’uomo, la Croce di Gesù è modello di ogni croce. Studiando la Croce di Gesù comprendiamo anche le tappe delle nostre croci. Una delle caratteristiche della Croce è sentirsi completamente soli. Ci sono due tipi di solitudine, quella in cui ci si sente isolati rispetto agli esseri umani ma resta il legame con Dio, e quella in cui ci si sente abbandonati anche da Dio. Come si sa dall’ordine degli eventi della Passione di Gesù, sentirsi abbandonati da Dio è il culmine della Croce. Dopo il grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, resta solo il tentativo di un soldato di dissetarlo con una spugna imbevuta d’aceto, poi Gesù muore.
Il culmine della Croce è dunque Gesù abbandonato. Chiara Lubich lo ha ben compreso, e ha fatto di Gesù abbandonato uno dei motti del Movimento dei Focolari.

Personalmente, ho sperimentato che sentirsi soli al culmine della Croce si accompagna con l’essere in mezzo alla gente ed essere sotto lo sguardo della gente. È una solitudine atroce. Ci si sente completamente abbandonati ma allo stesso tempo si è in mezzo a una moltitudine che guarda. La moltitudine, guardando, capisce cosa provi. Si immedesima in te. Nessuno, però, muove un dito. Anzi, la moltitudine gode nel vedere uno in quelle condizioni. Doveva essere la sensazione di tutti coloro che in passato subivano, come punizioni, supplizi. Vedere uno che soffre al nostro posto genera spesso consolazione. È la reazione animale dell’uomo. Mors tua, vita mea. Se l’uomo vuole però elevarsi a qualcosa di superiore, cioè essere pienamente uomo e vivere la dignità che ciò comporta, deve seguire la Parola di Dio: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto” (Rm 12, 15).

Ho vissuto al massimo questa fase della croce, questa solitudine-moltitudine, quando facevo il corriere in centro a Brescia. Dovevo spesso camminare con in spalla una borsa piena di pacchi per le piazze principali della città (piazza Duomo, piazza Vittoria e piazza Loggia), più i corsi pedonali (corso Mameli, corso Zanardelli e corso Palestro). Intorno a me, gente seduta ai tavoli che mi guardava sudare e faticare. Come mi vergognavo. Sentivo i pensieri della gente: “Non è capace. È alle prime armi”. Sentivo gli scherni dei ragazzi: “Corriere Amazon, che valutazione diamo?”. Arrossivo per la vergogna. Non c’era niente di cui vergognarsi, ero pur sempre al lavoro. Però era per me una situazione difficile, un lavoro già di per sé croce, in cui mi sentivo abbandonato da tutti, costretto a farlo e con nessuno disposto ad aiutarmi, cioè a togliermi dalla mia miseria; in più ero osservato con attenzione da moltitudini di persone che erano in grado di leggere perfettamente le mie emozioni. C’era inoltre chi guardava con livore e invidia, i commercianti il cui lavoro è diminuito causa Amazon. Poche volte ho sentito il sostegno della gente. Per lo più ero osservato, schernito e odiato. Tre anni così. Sono stati difficilissimi.

Per sei mesi, ringraziando Dio, ho consegnato in campagna ed è stata tutta un’altra vita. Adesso sono tornato in città, alternando con la campagna. Uffa.