Non rubo ore di sonno per dedicarle alla scrittura

Mi piacerebbe scrivere un poʼ. Solo che sono troppo stanco e non ho nessuna voglia.
Ho la casa sporca e ciò che dovrei fare, invece di mettermi a scrivere, è mettermi a pulire. Ma ora ho sonno, mi aspetta una settimana di fatica e quindi voglio mettere da parte più ore di sonno possibile, non mi interessa se sono troppe.

Però dʼaltra parte ho anche una voglia esagerata di scrivere. Ho un bisogno matto di scrivere. Il corso di improvvisazione teatrale che sto facendo mi sta facendo venire una voglia di scrivere che non se ne ha unʼidea.

Ci sono tanti episodi che vorrei e potrei raccontare. Anche se non valgono nulla, anche se non fanno ridere. Senza trama e senza finale, come insegna Čhecov.

Ma ora non ce la faccio a scrivere. Domani mi aspetta una giornata di lavoro, preferisco mettermi a dormire e magari rivolgere qualche parola a Dio mentre sono sdraiato e ho gli occhi chiusi, anche se non è il miglior modo di pregare, che restare qui a scrivere perché raccontare anche solo un episodio so già che mi prenderebbe una quantità esagerata di tempo.

Sì, perché sono lento a scrivere. Soprattutto perché il mio scrivere più che uno scrivere è un riscrivere. Riscrivo tanto. Butto giù e poi rivedo, rivedo. Prima di consegnare un testo alla sua forma finale ci lavoro sopra ore intere. Non lascio mai in pace un testo. È per questo che ora, pensando al lavoro che mi toccherebbe fare, non mi metto a scrivere.

Preferisco mettermi a dormire e prepararmi al lavoro.

Cose di cui mi interessa davvero parlare

Una persona appena conosciuta in un gruppo di preghiera – sulla quale quindi hai la massima fiducia – che dopo averti invitato a casa ti confessa di avere unʼattrazione morbosa per i piedi e infine ti chiede di vedere i tuoi piedi. Se almeno la persona fosse di sesso opposto…

La difficoltà che incontro ogni giorno sul lavoro, in particolare la paura di essere picchiato da qualche automobilista che non approva uno dei miei parcheggi selvaggi, necessari per fare il corriere. Si sa, sulla strada si incontra di tutto…

La paura di essere picchiato in generale. Non ho mai fatto a botte con nessuno in vita mia, tranne una volta a 19 anni in cui ero formidabilmente ubriaco – 10 euro per quanta birra volevi. Il non sentirmi uomo per questa mia paura dello scontro fisico

Una ragazza che credo mi abbia mandato Dio da sposare – molto devota di p. Pio – ma che evito per pigrizia e per lʼabitudine ormai a vivere da solo e per la voglia di scrivere e per la non voglia di cambiare stile di vita. Dopo che tutti gli insegnamenti che ho ricevuto da frate mi hanno convinto che il matrimonio è necessario e che inoltre è sacrificio. La mia scusa è che questa ragazza non mi piace fisicamente, ma chi mi credo di essere, che sono un panzone

Il mio desiderio struggente di scrivere mai riconosciuto da nessuno delle persone che hanno affermato di volermi bene – anzi sempre minimizzato, cambiando discorso appena ne accennavo…

La mia decisione di essere uno scrittore anche se sono un cattivo scrittore – il parlare della mia vita per mancanza di idee. Ma alla fine tutti si nutrono come di qualcosa di indispensabile quando uno parla di sé…

La mattina quando mi ingozzo di pane a fette e marmellata fino a consumare quasi una confezione intera di Pan bauletto perché ho paura di non avere abbastanza energie per affrontare la giornata lavorativa – più due uova crude alla Rocky. Menomale che è solo per cinque giorni a settimana. In ogni caso è uno stile alimentare che vanifica i tentativi coi beveroni di Herbalife…

Il mio essere troppo tardo, il mio – davvero, davvero – non riuscire a capire come creare qualcosa di comico, come se per me si trattasse di studiare la teoria quantistica. Semplicemente non sono abbastanza intelligente…

Giovedì 26 inizio un corso di due ore settimanali di improvvisazione teatrale. Desidero farlo più di ogni altra cosa – anche per conoscere gente – ma sarà una gran debacle perché verrà fuori in maniera evidente la mia mancanza totale di creatività per quanto riguarda lʼimmaginazione e la capacità di creare trame di avvenimenti. Ma almeno voglio cercare di divertirmi…

Il mio leggere Čechov, racconti e consigli di scrittura, il mio guardare The office stagione ottava, il mio aver finalmente, grazie a un consiglio di Paolo Nori, trovato la miglior traduzione di Guerra e pace – Pietro Zveteremich – e lʼaverlo comprato e iniziato a leggere. E la volontà di leggere le decine di libri di cui vedo consigli di lettura sui blog, ma il non avere tempo, tempo, tempo…

Il mio incessante lamentarmi e la mia pigrizia che sono ormai i miei tratti distintivi – dai quali non credo mi libererò mai. Il tutto condito da John Frusciante che non mi abbandona mai. Specie quando ascoltare musica classica sembra una cosa troppo seria per me…

Effetti della festa dellʼEsaltazione della Santa Croce

Questa è probabilmente una delle peggiori settimane della mia vita.

Avrei pensato la settimana peggiore dovesse essere quella in preparazione alla festa dellʼEsaltazione della Santa Croce, 14 settembre.

In genere si fa una novena in preparazione a una qualsiasi festa.
Cosʼè una novena?
Novena significa preghiera della durata di nove giorni.

Per dirne una a caso, il 16 agosto è San Rocco – cioè si fa memoria di San Rocco da Montpellier – perciò nove giorni prima, ossia il 7 o lʼ8 agosto, si entra nella cosiddetta novena di San Rocco.
(Ci sono due scuole di pensiero, secondo una la novena dovrebbe terminare il giorno prima del giorno in cui si celebra il santo, secondo altri la novena dovrebbe terminare il giorno stesso in cui si celebra il santo. Ecco perché, nel caso di S. Rocco, si può iniziare il 7 o lʼ8).
La novena in genere è caratterizzata da una preghiera fissa che si fa ogni giorno, più una serie di pratiche preparatorie. Non è infrequente fare letture sulla vita del santo per conoscere lui e la sua spiritualità, il suo carisma, per così dire, ciò che lo distingue dagli altri santi.

Ad esempio San Rocco era un pellegrino e un guaritore. Altri elementi sono il cane che lo sfamava quando era ammalato e la ferita alla gamba dovuta a un bubbone di peste.

Si potrebbe dire che se uno volesse spingere al massimo la devozione a un dato santo, durante la sua novena cercherebbe di vivere elementi della sua spiritualità. Sempre per restare su San Rocco, durante la sua novena si potrebbe fare un pellegrinaggio a piedi, dato che lui era pellegrino. O si potrebbe visitare ammalati, dato che lui lo faceva con gli appestati.

Ogni novena ha le sue caratteristiche, in base alla festa che precede. Novene famose e importanti, sentite, sono quella del Natale, ossia i nove giorni che precedono il 25 dicembre, la novena dellʼImmacolata Concezione (8 dicembre), in cui si fa memoria del fatto che Maria è stata concepita senza peccato originale, ecc.

La mia idea, che è anche unʼidea diffusa nella Chiesa, è che in ogni festa liturgica si dovrebbero vivere aspetti che riguardano quella festa. Nel giorno in cui si fa memoria di San Basilio Magno (2 gennaio), che è un dottore della Chiesa, ad esempio, si dovrebbe studiare un poʼ la Bibbia, o si dovrebbero ricevere luci particolari, per intercessione di tale santo, sui misteri della fede.

Non solo nel giorno particolare, ma in tutti i nove giorni precedenti, nella novena, come si è detto.

Il 14 settembre, festa dellʼEsaltazione della Santa Croce, si dovrebbe vivere una croce particolare, si dovrebbe insomma soffrire, così come in tutti i nove giorni che precedono la festa.

A me è capitata sì una croce il 14 settembre, però, per il resto, nei nove giorni precendenti non ho sofferto particolarmente. Almeno non ho sofferto come sto soffrendo ora, nei giorni seguenti.

Il 13, 14 e 15 avevo preso ferie per partecipare a Esercizi Spirituali, che consistono in un ritiro con giornata scandita da preghiera comunitaria, preghiera personale, messa, e lezioni, mattina e pomeriggio, da parte di un prete o frate su alcuni aspetti della Bibbia o di qualche testo spirituale importante.

Il 13, primo giorno, è andata bene. Seguendo alcuni consigli di Santa Teresa dʼAvila su come praticare lʼorazione mentale, ricordatici dal predicatore, ho avuto ottimi frutti praticando proprio lʼorazione mentale. Ho vissuto un particolare rapporto con Gesù e con la sua umanità, la sua crocifissione. Era da tanto che non praticavo lʼorazione mentale, che è una sorta di meditazione con lʼaggiunta di preghiera, e sono stato contento.

Il 14 la giornata doveva ripetersi con lo stesso schema, preghiera e insegnamenti.
La mattina mi squilla il telefono, e una voce dal lavoro mi dice che devo andare a lavorare per sostituire ben quattro persone che non si sono presentate. Andiamo. Buona festa dellʼEsaltazione della Santa Croce. Mi strappano dalle ferie e da un ritiro annuale, ossia che faccio una volta lʼanno, per andare a lavorare. Benissimo. Grazie Gesù.

15 settembre. Torno al ritiro, lʼultimo giorno dura solo mezza giornata, con condivisione e pranzo conclusivi. Tutto bene.

Questa settimana, a partire dal 16, vorrei morire.
Faccio il corriere in una città lombarda a nord-est di Milano. Questa settimana, a causa di alcune circostanze, sono costretto ad andare in trasferta a Milano. Mi alzo alle 4,30 e torno a casa alle 20,30. Quattordici ore di lavoro. Per me è un delirio. Devo farlo a giorni alterni, lunedì, mercoledì e venerdì, per avere tempo di recuperare.
A Milano mi assegnano una zona che non conosco, un furgone che non ho mai guidato, procedure di carico completamente nuove. Per non parlare del traffico milanese. Un delirio.

A. G., uno che conosco, mi ha suggerito di scrivere racconti comici dato che amo la commedia. Dio lo benedica.
Non ho tempo, non ho idee, non ho più lʼetà. Ho deciso che proverò a farlo, ma qualcosa deve cambiare nella mia vita, perché così non riesco nemmeno a scrivere, e ciò mi fa davvero soffrire.

Droghe

Sono già le otto. Leggo tante cose, ma mi sembra non valga la pena leggere nulla.

Lʼunica cosa che dovrei fare, mi dico, è scrivere. Anche scrivere di nulla.

Penso agli scrittori, specialmente gli atei, che si appassionano tanto di letteratura, come Paolo Nori, come Bernhard che si appassiona di pensiero e di filosofia, e penso: “Questa gente, se non ha indirizzato i propri sforzi a Dio, è come se non avesse fatto nulla”. Possono anche essere bravi, possono anche essere geniali, nel modo di scrivere, e per lo più lo sono, ed è per questo che li si legge, per osservare il loro geniale modo di scrivere, la loro genialità artistica. Ma per lo più le cose che scrivono non valgono nulla.

In cosa è geniale il loro modo di scrivere? Nel fatto che genera una scrittura che trascina. Puoi andare avanti ore a leggere quelle cose per il semplice fatto che sono leggibili. Questi scrittori sono stati capaci di trovare un modo di scrivere che genera una scrittura leggibile che trascina. Ma quanto è significativo ciò che scrivono?

Preferisco leggere una blogger emotiva che parla della sua giornata lavorativa e dei vestiti che ha dovuto scegliere la mattina. Dici: “Chi se ne frega”. Invece sono le cose più importanti. La vita di tutti i giorni. Come viviamo i gesti più semplici. Cosa pensiamo quando li compiamo.
È tutto. Per me è tutto ciò che conta.

È per questo che per leggere un blog mi prendo del tempo. Non lo faccio così a caso. Anzitutto spesso la scrittura non è così semplice, non è così scorrevole. Ma non è questo. Il fatto è che gli argomenti sono impegnativi perché sono veri.
Quando uno parla di se stesso, sono cose preziose. Quando uno inventa storie per parlare di se stesso o per parlare di Dio. Sono queste le cose che contano.

Gli scrittori bravi a scrivere li leggo quando non ho voglia di fare altro, in particolare quando non ho voglia di scrivere ma nemmeno di leggere. Gli scrittori bravi a scrivere sono facili da leggere. Ciò che hanno fatto nella loro vita è stato mettere insieme, trovare, diciamo, un modo di scrittura che trascina, è facile leggere gli scrittori bravi.

Ma uno scrittore bravo molte volte non ha niente da dire. È diventato bravo a scrivere apposta perché non aveva niente da dire. Allora ha trovato un modo di dire le cose che le rende leggibili.

Meglio a questo punto un consiglio di Čechov: “Non forbire, non limare troppo, sii sgraziato e audace” (ad ad Aleksandr Čechov, Mosca, 11 aprile 1889). Čechov inoltre spesso dà il consiglio di ritrarre la vita così comʼè.

La vita così comʼè, il più possibile, è come la vede Dio. Shemà Israel! Ascolta, Israele! Amerai il tuo Dio con tutto il cuore, con tutta lʼanima e con tutte le forze. Se uno fa qualcosa al cui centro non cʼè Dio, per me quel qualcosa vale nulla.

Perché assumo tanta commedia? Probabilmente perché la risata mi aiuta a tirare avanti la giornata, probabilmente perché la risata libera endorfine o cose del genere. La commedia per me è un guilty pleasure, un piacere colpevole. Come mangiare un dolce. È buono, ma non necessariamente fa bene. Non elevo la risata ad alto rango. È qualcosa di facile da assumere e qualcosa che alleggerisce.

Ma in Larry David (Curb your enthusiasm), ad esempio, più che le singole battute o le situazioni comiche apprezzo i concatenamenti di trama che riesce a creare. Difficile da spiegare a chi non ha mai visto una puntata di Curb your enthusiasm, ma dal punto di vista letterario tali concatenamenti di trama secondo me valgono più di una singola battuta, o anche di una situazione comica, che fa ridere. Ciò che fa ridere è come un dolce. Le tecniche narrative, letterariamente parlando, sono più alte. Così come i modi di scrivere di cui parlavo sopra, che rendono un testo leggibile e che trascina.

Quando ho forze per fare qualcosa di serio scrivo qualcosa su me stesso. O leggo un blog in cui qualcuno parla di se stesso. O leggo qualcosa su Dio.
I libri più importanti che ho in casa sono il Diario di S. Gemma Galgani, Il cammino di perfezione e Il castello interiore di S. Teresa dʼAvila, La salita al monte Carmelo di S. Giovanni della Croce, un libro sulle tecniche narrative di S. Luca (autore dellʼomonimo Vangelo e di Atti degli apostoli), i libri di Anna Katharina Emmerick e simili, come anche riviste di argomento religioso.
Non li leggo mai. Sono le cose più impegnative e importanti che ho.

Ma la prassi costante è che dopo una giornata di lavoro metto su un dvd di qualche serie televisiva comica americana e mi drogo con quello.

E non abbandonarci alla tentazione

Tutto, nellʼesperienza umana, può riassumersi in pensiero. Tutto si riconduce al pensiero. I gesti sono pensieri perché possono essere pensierizzati.
Una tentazione è sempre un pensiero, ed è un pensiero falso. Ad esempio: “Fare la tal cosa va bene, è buono”. Avere una qualsiasi tentazione significa avere un pensiero erroneo in testa. La sconfitta, la scacciata di tale tentazione è la confutazione di tale pensiero erroneo. La confutazione è il pensiero corretto, che sostituisce quello erroneo.
Cʼè di più. Il pensiero erroneo, la tentazione, è un demonio. È come se ci fosse un demonio che parla dicendo cose false, scorrette. La confutazione, invece, il pensiero corretto che sconfigge il pensiero erroneo prendendone il posto, è un angelo.
Diciamo che non occorre nemmeno un pensiero corretto che sostituisca quello erroneo. È sufficiente che la confutazione proceda a far riconoscere che il pensiero erroneo è, appunto, erroneo. Già solo questo costituisce la sconfitta del pensiero erroneo, della sentenza erronea, della tentazione. Quando una sentenza erronea, una tentazione, è sconfitta si ha nellʼanima una purificazione. Poi può anche esserci la sostituzione della sentenza erronea con una sentenza corretta, ma non è necessario questo per la purificazione.

Ammettiamo che uno abbia ingerito un cibo velenoso, o comunque dannoso. Fa star male lʼorganismo. Già somministrando un farmaco che fa vomitare si può far star meglio la persona.
Il cibo cattivo è la tentazione, ed è un demonio. Il farmaco che scaccia il cibo cattivo è la confutazione di un pensiero scorretto, ed è un angelo.
Tutte le argomentazioni che confutano idee sbagliate, false, che abbiamo in testa, sono angeli. Sono angeli anche tutti i pensieri corretti, veri, che possono venire a occupare lʼanima.
Possiamo trovare da noi stessi confutazioni di pensieri scorretti, e pensieri corretti. In tal caso siamo forti. Siamo per così dire produttori di angeli, in tal caso siamo per così dire esseri divini, produttori di esseri divini. Da noi, in tal caso, scaturiscono esseri divini.
Ma non sempre abbiamo queste capacità, non sempre siamo così forti, sani, retti nel pensiero, capaci di vincere la tentazione che è falsità.
Nei casi in cui non ce la facciamo da soli, occorre che ci rivolgiamo a Dio, che è onnipotente. Sarà lui, in tal caso, a mandarci gli angeli. A volte possiamo esseri liberati da un demonio, da una tentazione, senza nemmeno vedere come ciò avvenga. È come se la confutazione avvenisse in background. Non occorre che vediamo sempre il processo con cui Dio opera in noi una purificazione. Però molte volte il risultato lo sentiamo. Ci sentiamo più leggeri, più liberi, più contenti. Siamo stati oggetto di un vero e proprio esorcismo.

Quando chiediamo a Dio di non abbandonarci alla tentazione, nel Padre nostro, gli stiamo chiedendo di mandarci gli angeli a sconfiggere le tentazioni del demonio che operano in noi, su noi, contro di noi. Gli angeli sono araldi della verità, sentenze vere, che combattono per distruggere la falsità. La falsità ci affligge e ci fa star male. “Sei un disgraziato, destinato allʼinferno. Non hai mai fatto nulla di buono”. E lʼangelo: “Sei figlio di Dio, amato, pieno di qualità e talenti, nella vita hai fatto un sacco di opere buone e se hai peccato sarai perdonato”. La tentazione: “Dio non cʼè”. Lʼangelo: “Chi ha creato i fiumi, i mari, il cielo e le montagne?”.

Tra lʼaltro diciamo: “Non abbandonarci” invece di: “Non indurci” in tentazione per lo stesso motivo per cui per fare un augurio diciamo: “In bocca al lupo”.
Dovremmo anzi quasi dire: “Inducici pure nella tentazione – lʼimportante è che poi ci aiuti a venirne fuori se vedi che non ce la facciamo da soli”.
Finire in bocca al lupo – il demonio – fa bene. Passare per il fuoco, cadere nel fango, rompersi la testa fa bene. È una forma di purificazione. La sofferenza tempra. La Croce santifica, migliora, fa crescere. Chiunque sa che passare attraverso difficoltà, vivere il dolore, avere disgrazie nella vita lascia cambiati, più maturi, più forti, più consapevoli, più vicini a Dio. Anzi, sul fondo della botte si incontra Dio. A quanti è capitato...

“In bocca al lupo... e che Dio ti aiuti a uscirne se non ce la fai da solo”.

Speriamo di vincere!

Tramite Google News ho scoperto che un sito offre il dream job, il lavoro dei sogni: 1000 dollari per guardare 25 puntate di Friends.

Ho riempito il form e mi sono iscritto. Oltre a fornire qualche informazione anagrafica, era possibile incollare il link a un video. Ho fatto un video in cui spiego che ho il dvd box di Friends per cui ho già visto tutte le puntate più di una volta. Lʼho caricato su Google Drive e lʼho linkato.

Inoltre bisognava scrivere chi si pensa abbia ragione nella controversia tra Ross e Rachel e spiegare il perché con almeno 100 parole.

Questo è ciò che ho scritto, con traduzione:
Obviously Ross was right. They were on a break. He didnʼt think he was cheating when he slept with the girl from the photocopy shop (Chloe) with a piercing in her belly, because he thought he and Rachel had split up.
Rachel should never have said the words: “Maybe we need a break... from us”. There was no need for that. She and Ross could have worked things out within the relationship. She was stressed out because she was beginning a new job and this means a new life. But saying to Ross that she wanted to break up meant that she really didnʼt want him to be part of that new life. That hurt him. He was very hurt.
Plus, he didnʼt go out and seek consolation in a woman. He was practically seduced by the girl from the photocopy place (Chloe). He had to do nothing, just say yes... It was very easy for him to fall into the trap. Surely cheating was the last thought he had in mind. And I want to stress this one more time: he couldnʼt have thought he was cheating, because he thought he and Rachel had split up.
But I honestly think they werenʼt such a good couple in the first place anyway. In my humble opinion Chandler and Monica are much better. I love Chandler and Monica! I love Ross and Rachel only so-and-so.

Ovviamente Ross aveva ragione. I due avevano rotto. Lui non pensava di star tradendo quando è andato a letto con la ragazza del negozio di fotocopie (Chloe) col piercing allʼombelico, perché era convinto che lui e Rachel avessero rotto.
Rachel non avrebbe mai dovuto dire le parole: “Forse abbiamo bisogno di una pausa... da noi due”. Non cʼera bisogno di questo. Lei e Ross avrebbero potuto sistemare le cose dallʼinterno della relazione. Lei era stressata perché stava iniziando un nuovo lavoro e questo significa una nuova vita. Ma dire a Ross che voleva rompere significava che voleva che lui non facesse parte di quella nuova vita. Ciò lo ha ferito. Era tanto ferito.
In più, non è uscito a cercare consolazione in una donna. È stato praticamente sedotto dalla ragazza del negozio di fotocopie (Chloe). Non ha dovuto far nulla, solo dire sì... È stato molto facile per lui cadere nella trappola. Sicuramente tradire era lʼultimo pensiero che aveva in mente. E voglio ripeterlo ancora una volta: non avrebbe potuto pensare che stava tradendo, perché era convinto che lui e Rachel avessero rotto.
Ma onestamente non ho mai pensato fossero una bella coppia sin dallʼinizio. Nella mia onesta opinione Chandler e Monica sono molto meglio. Amo Chandler e Monica! Amo Ross e Rachel solo così così.

Giorno libero

A ovest della città lombarda di *** cʼè il monte S. Rosa, coperto a bosco tranne il versante ovest coperto di vigneti. In cima cʼè un masso dal quale si vede tutta la città. Ai piedi, a est cʼè la città (quartiere S. Rosa), e a ovest, finiti i vigneti, ci sono campi coltivati. Cʼè una strada sterrata che gira tuttʼintorno, e sentieri che permettono di scalarlo. È perfetto per chi vuole camminare, correre o andare in bici.
Quel giorno Simone aveva il giorno libero dal lavoro, prese la macchina per andare a fare una camminata attorno al monte S. Rosa. Dalla macchina, era quasi arrivato, su un marciapiede vide camminare due adolescenti di colore. Uno era vestito come un giocatore di basket, col completo pantaloncini-canottiera. Lʼamico con cui camminava invece si sarebbe detto che era vestito da giocatore di golf, maglietta polo infilata nei calzoni; ovviamente non lʼaveva fatto apposta, non era vestito alla moda, aveva semplicemente preso alcuni vestiti e li aveva indossati, però in contrasto col ragazzo vestito da giocatore di basket sembrava un golfista. Il ragazzo vestito da giocatore di basket si vedeva che ci teneva a far vedere che apparteneva a una certa cultura, sono nero e i neri giocano a basket. Simone malignò dentro sé: “Secondo me non sa nemmeno giocare bene. In Italia non è come in America, dove anche se non sei nessuno ma hai talento puoi arrivare ai massimi livelli. Poveretto, i suoi vestiti gridano bisogno di senso di appartenenza! Ma sicuramente è troppo povero per entrare in una squadra!”.
Arrivato al monte S. Rosa, Simone si mise in cammino sulla strada sterrata. Presto si trovò a camminare alle spalle di due amiche cinquantenni con una bambina. La bambina era certamente la nipote di una delle due signore. Si vedeva che erano parenti perché da dietro erano uguali. Erano culone tutte e due, da sotto il seno a sotto la vita sembravano due vasi di terracotta rovesciati. Naturalmente Simone non aveva nessun diritto di giudicare, dato che era sovrappeso. Lo colpì però la forma identica di due persone di età così differente. Lʼamica si vedeva che era unʼamica. Con loro cʼera un cagnolino batuffoloso di colore grigio scuro.
Appena il cagnolino batuffoloso vide Simone, si mise ad abbaiare. Le donne gli dissero di stare buono, ma quello partì in direzione di Simone. Simone, convinto che volesse morderlo, si preparò, si mise in posizione e, non appena il cagnolino fu a portata, partì con un calcio. Siccome aveva preso bene le misure, colpì in pieno il cane. Il cane fece un ampio volo e finì nel fosso che costeggiava la strada. Nel fosso cʼera lʼacqua, quindi il cane finì direttamente nellʼacqua.
Una delle due donne urlò contro Simone: “Cosa hai fatto? Disgraziato! Non cʼera bisogno di dargli un calcio! Non ti avrebbe morso!”.
Il cane guaiva e cercava di arrampicarsi, ma non riusciva perché il fosso era troppo ripido. Saliva un pezzo e ricadeva in acqua.
La bambina parlava al cane: “Pretty! Pretty! Arrampicati, dai! Zia, Pretty non ce la fa a salire!”. Poi, rivolta a Simone: “Tu sei un mostro!”.
“Guarda che a me è sembrato proprio che stesse per mordermi, altrimenti non gli avrei dato un calcio! I cani si tengono al guinzaglio!”.
E la zia: “Come minimo adesso vai tu a prenderlo! Io in quel fosso così profondo non posso andarci, come faccio a risalire! Tocca a te! Tu lʼhai fatto cadere lì, tu lo vai a riprendere! Potrebbe anche essersi rotto qualcosa, bisogna portarlo dal veterinario! Ti faccio causa!”.
“Sono io che faccio causa a lei! I cani vanno tenuti al guinzaglio! E infatti stava per mordermi”.
“Cosʼè, hai paura di un cagnettino così piccolo? Sei proprio un deficiente! Pretty! Pretty! Vieni su, dai! Dai, che ce la fai! Vieni, Pretty! Dai!”.
“Non posso andare giù nel fosso”, disse Simone, “mi bagno tutto... e se mi morde? Pretty, dai, vieni su, dai che ce la fai! Pretty! Pretty!”.
Alle spalle del gruppetto arrivarono i due adolescenti di colore che Simone aveva visto per strada. Quello vestito da giocatore di basket vide il cane nel fosso e subito scese senza preoccuparsi di nulla. Finì coi piedi nellʼacqua. Prese il cane e, col gesto atletico del giocatore di basket, ossia reggendolo con una mano sul lato e spingedolo da sotto con lʼaltra mano, lo lanciò verso il gruppetto di persone.
Il cane Pretty atterrò ai piedi della bambina, la quale si schifò dal fatto che era tutto bagnato e si rifiutò di prenderlo in braccio. Lo prese in braccio la zia. “Adesso lo portiamo dal veterinario!”, disse.
Simone moriva dʼinvidia per il senso altruistico dimostrato dal ragazzo di colore sul quale poco prima aveva internamente malignato. Aveva anche dimostrato una certa destrezza nei tiri, anche se aveva tirato un cane e non aveva dovuto fare centro in nessun canestro.
Le donne se ne andarono portando via il cane. Simone rimase a guardare il ragazzo di colore vestito da golfista che aiutava, porgendogli il braccio, lʼamico vestito da giocatore di basket a uscire dal fosso.
La brutta figura lʼaveva fatta lui, il giovane italiano.

Questo voleva essere un racconto comico su un ragazzo di colore vestito da basket che non sa giocare a basket, ma che si veste così solo per senso di appartenenza e per farsi vedere. Chi ha scritto evidentemente non è stato in grado di scrivere il racconto che avrebbe voluto scrivere, ma solo questa pagliacciata su un cane salvato dalle acque con un gesto baskettistico.
Alcuni di noi amano talmente tanto lʼidea di essere scrittori che scrivono di qualsiasi cosa pur di scrivere, e accettano di essere cattivi scrittori pur di potere continuare a farlo.
Evidentemente queste persone sono troppo pigre per perseguire la loro passione o sono troppo stanche.

Il regno dei cieli è dei piccoli

Perché per i piccoli è più facile andare in Paradiso?
Perché a un piccolo basta niente per soffrire.

Per capire cosʼè un piccolo occorre sempre tornare alla definizione del grande per eccellenza da parte di Gesù. “In verità vi dico: «Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista»” (Mt 11, 11).

Giovanni il Battista si è recato nel deserto quando era ancora giovane. Si nutriva di miele selvatico e cavallette. Vestiva pelle di cammello. Lo vedo come un campione di austerità. Come quegli uomini forti che resistono al freddo, o al caldo, o che sono semplicemente forti. Lo immagino alto, magrissimo per i digiuni.
Ma soprattutto Giovanni il Battista era uomo della Parola. Non solo avrà trascorso tutto il tempo pregando, ma, come dʼaltronde Gesù, conosceva la Torà, ossia la Bibbia di allora (lʼAntico Testamento, per capirci) a memoria.
Cosa fa uno che conosce la Bibbia a memoria? Non solo può citarti un passo in qualsiasi momento, ma si esprime per citazioni, si esprime usando le espressioni della Bibbia.

Capita a chiunque di star leggendo un romanzo e di assumere automaticamente il modo di parlare di quel romanzo. Magari a me adesso capita meno, perché sono avanzato in età e ho il mio modo di parlare. Ma ricordo quando ero ventenne. Leggevo Tolstoj o Dostoevskij e, soprattutto quando mi prendevano e stavo giorni a non far altro che leggere Tolstoj o Dostoevskij, poi finivo per parlare o scrivere con il loro linguaggio. Era il mio modo per fare esercizi di scrittura alla Queneau. Leggere tanto uno scrittore. Il suo linguaggio entrava nelle ossa automaticamente.

Ecco, tenendo presente questo, si pensi a uno che come unica lettura a disposizione ha la Bibbia.
Lʼho provato quando ho fatto il frate – infatti per cinque anni sono stato frate, anche se alla fine ho deciso di non fare i voti perpetui. Quando sei frate, ogni giorno leggi la Bibbia, perché usi i salmi per pregare la Preghiera delle ore, quella che si fa la mattina, a metà giornata e alla sera, per capirci. Inoltre, ogni giorno vai a messa, e in ogni messa cʼè una lettura dallʼAntico Testamento, una dai salmi e una dal Vangelo; di domenica ce nʼè una anche dalle lettere di S. Paolo. Questo per dire che chi fa il frate ha la Bibbia nelle orecchie tutti i giorni, per più ore al giorno. Dopo un poʼ ti viene automatico fare citazioni.
Non solo, alcuni iniziano pure a parlare con lo stesso stile della Bibbia. Questo è il massimo, perché significa parlare la Parola di Dio. Ma questo accade dopo molti anni e solo se alle spalle cʼè una vera santità di vita. Chi vive una vita santa può realmente essere ispirato dallo Spirito Santo quando parla.

Ma torniamo ai piccoli. Abbiamo definito a grandi linee cosʼè un grande. Un grande è anche uno pieno di virtù. È giusto, è saggio (e la saggezza, ossia il sapere di non sapere, è la base per la sapienza, quella vera, non quella falsa, che è un credere di sapere), è temperante (cioè non eccede nei piaceri), è coraggioso. Queste sono le quattro virtù base, ma poi ce ne sono molte altre. Un grande è intelligente, capace, resistente, perseverante, laborioso, ha grandi idee e tanti talenti; un grande è perfettamente padrone di sé e in quanto tale può anche comandare su altre persone.

Prendiamo ora un piccolo. Un piccolo non sa fare nulla, è pauroso, è ingiusto (prendiamo ad esempio uno che non è in grado di guadagnarsi il pane da solo, non sarà forse costretto a indebitarsi vivendo alle spalle di altri, e non è questo un poʼ come rubare, anche se gli altri lo aiutano volentieri e gli fanno la carità?), è intemperante (mangia troppo, fuma, ha vizi tipo il gioco, magari beve o si droga). Un piccolo non si domina, magari si arrabbia per nulla e tratta male i suoi pari. Dice parolacce, in generale parla male. Un piccolo non riesce a sollevare grandi pesi, fa fatica a svegliarsi la mattina, camminare gli pesa, muore di freddo dʼinverno e non sopporta il caldo dʼestate.
Insomma, la piccolezza è una forma di assenza di qualità.

Ciò su cui voglio attirare lʼattenzione è questo. Un piccolo soffre facilmente. Tutto per lui nella vita è difficoltà, dallʼalzarsi la mattina a giungere a fine giornata. Magari anche parlare con le persone. Pensiamo a chi ha problemi psicologici. Tutto, per costoro, è dramma. O non riescono ad amare i genitori, o sono asociali, o hanno pensieri di suicidio perché per loro la vita è invivibile...
Per un piccolo ci vuole niente a soffrire. Un piccolo non deve fare molto per guadagnarsi il Paradiso. Ha la sofferenza a portata di mano più di un grande. Un grande ci mette tanto a soffrire. Per un piccolo soffrire è uno scherzo. Prendiamo quelli che si ammalano nel corpo, quelli che hanno mille acciacchi, quelli che non hanno un corpo sano. Pure questi, che vita piena di croci dovranno mai vivere?
E siccome la croce è la strada maestra per il Paradiso – “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano” (Mt 6, 19-20) – chi ha facilità a vivere la croce nella vita ha sicuramente una via preferenziale per raggiungere il cielo. È per questo che Dio ama tanto i piccoli. Certo, anche i piccoli devono dare il meglio di sé, cercare di non peccare, ecc. Ma possono star certi che dolore, umiliazione, angosciasconfitta coglieranno molto più velocemente loro che i grandi.

La ricchezza fa male

Una cosa che ho notato ultimamente è che forse la cosa più brutta dell'essere poveri è sopportare l'arroganza e il sopracciglio alzato della gente ricca.

La povertà in sé non sarebbe neanche male. Chiaramente parlo di povertà, non di miseria. La miseria è invivibile e degradante.

Ma la povertà non deruba necessariamente una persona della sua dignità. Una persona può essere povera e vivere dignitosamente.

Per non dire che San Francesco la chiamava addirittura santa povertà. Però, vabbè, San Francesco lʼha portata alle estreme conseguenze. Lui è riuscito a vivere dignitosamente anche la più nera miseria.

La povertà di cui parlo io è quella di chi fa una settimana di vacanza allʼanno, di chi non prende più di 1.000 euro al mese, di chi compra unʼautomobile usata o comunque da circa 7.000 euro, di chi fa la spesa al discount, di chi mangia sempre a casa, di chi è magro perché mangia poco, di chi si veste da Decathlon, ecc.

Tutte queste cose sarebbero sopportabili, come ho detto, dignitose.

Ma a volte capita che una persona ricca tratti con sufficienza una persona povera, come se volesse comunicare lʼidea che chi è povero è peggiore, uno che non ce lʼha fatta, uno che non ha capacità o che ha sprecato la vita perché non ha voluto o non è riuscito a mettere da parte grosse somme. Fa male il comportamento della persona ricca che tratta un povero come se lei fosse migliore. E non parlo nemmeno dei ricchi che hanno ereditato – il loro sopracciglio alzato è semplicemente disgustoso – ma proprio di quelli che hanno guadagnato. Quando questi guardano dallʼalto in basso fa male.

Sinceramente, penso faccia male perché credo che costoro non avrebbero potuto fare nulla se Dio non lʼavesse permesso. Perciò non hanno diritto di guardare dallʼalto in basso. Anche se hanno faticato. Sono tutti comunque doni di Dio. È così che la penso.

Ma se pure fosse che un ricco che ha guadagnato guarda dallʼalto in basso un povero che per propria colpa ha buttato via la vita ed è per questo che non ha guadagnato nulla, anche in questo caso fa male.

Tre luoghi

A Milano cʼè una zona in cui ci sono tre luoghi significativi. I tre luoghi sono significativi per me perciò sono questi a risaltare nella mia mente, ma sono sicuro che nella stessa zona ci sono tantissimi altri luoghi anche più significativi. Però soltanto di questi tre luoghi parlo.
Chiamo la zona: “la zona di via Lazzaretto”.
Voglio precisare che non vivo a Milano. Sono nato e cresciuto a Milano, ma ora vivo in una città medio-grande a nord-est di Milano.

Nella zona di via Lazzaretto cʼè un negozio di dischi che si chiama Nashville. Secondo me il nome Nashville è perfetto per un negozio di dischi. Non è un caso che il negozio esista ancora nonostante le difficoltà che un negozio del genere deve incontrare per sopravvivere. Sono entrato nel negozio di dischi Nashville massimo tre volte. Però avrei voluto entrarci di più.
Non sono mai stato un grande ascoltatore di musica. Da ragazzino sicuramente non passavo il mio tempo nei negozi di dischi. Ho recuperato e mi sono fatto una cultura musicale quando è arrivato internet. Lì sì che ho scaricato e ascoltato di tutto. Però ho anche scoperto di non essere un fanatico di musica. Dopo un poʼ mi sono rotto. Oggi ascolto solamente Mozart e John Frusciante, con qualche piccola aggiunta, Monteverdi, Bach, Beethoven, il canto gregoriano, gli album regalati gratuitamente dal sito Lovegoodculture.com e basta. Seriamente, non riesco ad ascoltare altro. Nel negozio Nashville non ho mai comprato nulla, o forse al massimo un cd. Eppure mi è sempre piaciuto. Avrei voluto essere uno di quei frequentatori di negozi di dischi che passano il tempo a browsare tra il materiale in cerca di chissà che affare...

Lʼaltra cosa che cʼè nella zona di via Lazzaretto è il Libraccio. Nei Libraccio milanesi ho trascorso davvero tante ore. Lì sì che passavo il tempo a browsare tra il materiale in cerca di qualche affare. Al Libraccio ho comprato molto e ho anche letto molto. È per questo che li giravo tutti. Non potevo farmi vedere sempre nello stesso Libraccio perché mi fermavo a leggere e spesso uscivo senza aver comprato nulla. Che bello, il Libraccio! I Libraccio di Milano sono enormi e pieni di roba, anche se spesso è sempre la stessa. Nella città in cui vivo ora cʼè un solo Libraccio ed è davvero povero. Non ha nemmeno lʼaria di essere Libraccio, è talmente piccolo…

Lʼaltra cosa ancora che cʼè nella zona di via Lazzaretto è la piscina Cozzi, costruita nel 1932 con vasca da 33 metri.
Per due anni ho corso tutti i giorni. Mi svegliavo la mattina presto, prendevo la macchina di mia madre e andavo in qualche parco milanese a correre. A mia madre però la macchina serviva per lavoro, non tutti i giorni ma quasi. A un certo punto glielʼho sottratta talmente tanto, e proprio nelle ore in cui le serviva, che si è arrabbiata e ha proibito di farmela usare tutti i giorni. Da quel momento, siccome non avrei potuto correre per la città come fanno molti, ma ho sempre avuto bisogno di andare in un parco, nei giorni in cui non avevo la macchina o andavo in autobus al Saini, un centro sportivo annesso al parco Forlanini, zona aeroporto di Linate, dove ci sono spogliatoi per chi vuole usare la pista di atletica, ma poi può andare anche a correre nel parco, o andavo a nuotare in piscina. La piscina Cozzi era la piscina in cui andavo a nuotare più frequentemente. Andavo anche, però, in altre piscine, quelle rionali, più piccole. Giravo diverse piscine, come i Libraccio e le biblioteche.

Non mi piaceva farmi vedere nello stesso posto. Desideravo lʼanonimato. Quando mi rendevo conto che in un posto cominciavo a essere conosciuto, cambiavo. Così, in un paio dʼanni, ho girato tutte le piscine, i Libraccio e le biblioteche di Milano.

Umiltà

Giustizia, saggezza, temperanza e coraggio sono le quattro virtù cardinali. Fede, speranza e carità sono le tre virtù teologali.
umiltà dove la mettiamo?
Nel senso... se non fa parte di queste categorie è possibile addirittura annoverarla tra le virtù? È lʼumiltà una virtù?
Quelle due categorie – cardinali e teologali – e quelle sette virtù non esauriscono tutte le virtù?

Mi viene in mente il libro Le piccole virtù di Natalia Ginzburg. Lo lessi tanto tempo fa e non ricordo nulla. Però questo titolo, Le piccole virtù mi fa pensare che esistano virtù minori oltre alle sette grandi virtù elencate allʼinizio.
Il problema, a questo punto, è questo. Lʼumiltà risulterebbe essere come minimo una virtù minore, una piccola virtù.
Eppure nella letteratura cristiana si trova lʼumiltà elencata tra le massime virtù. Ad esempio Santa Teresa dʼAvila, non ricordo se nella sua Autobiografia o se altrove, la mette al primo posto.

Io, francamente, da quando sono diventato credente – circa 12 anni fa – ho maturato sempre più lʼidea che lʼumiltà sia di importanza fondamentale. Non so dove collocarla in una gerarchia di virtù, però so che è di importanza fondamentale.

Lʼumiltà è collegata alla piccolezza, che è una caratteristica umana amata tanto da Dio.

Cosa significa essere piccoli? Significa non avere qualità. Non avere ricchezze di nessun tipo, né materiali né spirituali. Il piccolo per eccellenza è Lazzaro del capitolo 16 del Vangelo di Luca: “Cʼera un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe” (Lc 16, 19-21)

Il grande per eccellenza invece è San Giovanni Battista. “In verità vi dico: «Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista»” (Mt 11, 11). Pensiamo alle virtù di San Giovanni Battista. Sin da giovane si è ritirato nel deserto. Un asceta, uno che si nutriva di quasi nulla, che compiva grandi digiuni. Inoltre, un uomo della Parola. È grazie al suo profondo studio della Scrittura e alla sua vita irreprensibile, priva di tutto, francescana nel vero senso del termine, che poteva permettersi di accusare un intero popolo: “Razza di vipere” (Mt 3, 7). Se non dai lʼesempio per primo, ovviamente, se non sei irreprensibile tu stesso, non puoi incolpare nessuno. Lui invece poteva. Poco cibo, niente sesso, niente ricchezze. San Giovanni Battista lo immagino molto alto e magrissimo, longineo, un tipo alla Pannella, che grida anatemi contro i propri compatrioti. La perfetta figura del profeta.

Quando si pensa alla differenza tra grandi e piccoli bisogna pensare al resto del Vangelo su Giovanni il Battista: “tuttavia il più piccolo – tra i nati di donna – nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11, 11).

Per essere umili bisogna essere piccoli. E si badi bene, lʼumiltà non può essere falsa. Faccio un esempio. Nel libro Oltre il giardino (titolo originale: To kill a mockingbird) verso la fine appare in paese un cane con la rabbia. Tutti vanno a rinchiudersi nelle case. Però se non ricordo male cʼè ancora qualcuno a portata del cane rabbioso. Il protagonista del libro, Atticus Finch, prende una carabina e gli spara da 900 metri, uccidendolo prima che possa attaccare quel qualcuno rimasto indietro che non era ancora riuscito a chiudersi in casa. Atticus Finch è avvocato. Nessuno sapeva che sapeva sparare così bene e che aveva una tale mira. Ha questo talento che aveva sempre tenuto nascosto non dicendolo mai a nessuno. Nel momento del bisogno, tutti hanno scoperto le doti da cecchino dellʼavvocato.
Si potrebbe dire che lʼavvocato abbia nascosto questa sua dote, questo suo talento per umiltà.
Tuttavia, questa non è vera umiltà.
La vera umiltà non è saper fare qualcosa e nasconderlo, non dire nulla a nessuno. Non è avere delle ricchezze e andare in giro vestiti da straccione.

La vera umiltà si può ottenere solamente mediante la vera, concreta piccolezza. La vera piccolezza significa non sapere fare nulla, non possedere nulla, non avere qualità interiori né virtù.

Il discorso, mi rendo conto, è controverso. Ma sfido chiunque ad alzare la testa contro il proprio vicino se si non ha nulla di cui potersi vantare.
Il contrario dellʼumiltà infatti è la superbia.
Se si leggono i padri del deserto, si scopre che lʼultimo demonio che il monaco deve sconfiggere, dopo aver sconfitto tutti gli altri (pigrizia, lussuria, gola, ira, ecc.), è la superbia.
Perché superbia è dire: “Che bravo che sono”. “Io sì che sono bravo”. “Io sono più bravo degli altri”. “Io sì che ce lʼho fatta a sconfiggere tutti i demoni e a guadagnare tutte le virtù”.

Per finire, una nota personale. Anni fa desideravo la sapienza. Non so perché, ma per qualche anno non feci altro che leggere libri. Quando divenni credente, realizzai che la sapienza poteva rendermi superbo. Appena ebbi lʼoccasione, passai un intero ritiro di tre giorni a chiedere lʼumiltà. Formulavo la preghiera principale più o meno in questo modo: “Signore, io desidero la sapienza, e ti prego di darmela, ma se non posso avere la sapienza senza essere superbo, ti prego, non darmela. Dammi anzitutto lʼumiltà. Ciò che voglio più di ogni altra cosa è lʼumiltà. Non voglio mai che capiti che io mi creda più sapiente di mio fratello. Non voglio mai essere convinto di essere quello che ha ragione, tanto da arrivare a disdegnare la relazione con la persona. Ti prego, Signore, dammi anzitutto lʼumiltà, e se poi è possibile che abbia qualche forma di sapienza pur avendo lʼumiltà, allora dammi anche la sapienza. Ma sapienza senza umiltà, no”. Finì che per tre giorni non feci altro, svegliandomi alle cinque di mattina per andare a pregare in un uliveto, che chiedere di avere innanzittutto lʼumiltà.

Oggi, non faccio altro che contemplare quotidianamente le mie mille miserie. Ogni incrocio di sguardo con una persona è motivo di calcolo delle differenze tra me e la persona, ossia per dire: “Quella persona ha…”, “Mentre a me manca…”. È un tormento continuo. Non sto scherzando. È unʼagonia quotidiana. Ogni persona che incontro mi fa venire in mente qualcosa che non ho, sia dal punto di vista materiale, sia spirituale.

Mi scuso se parlo spesso di queste cose. Ma queste sono le mie giornate.
Sono convinto che Dio abbia ascoltato quelle mie preghiere e, oltre ad avermi privato di numerose qualità, oggi non faccia altro che mettermi sotto gli occhi tutte le piccolezze di cui sono afflitto.
Da un lato sono contento, perché so che Dio è vicino ai piccoli ed essere piccoli permette di affidarsi a Dio come un “bimbo svezzato in braccio a sua madre” (Sal 131, 2). Però dʼaltra parte è una sofferenza continua. Non riesco a darmi pace nel constatare la mia miseria nel perpetuo confronto con gli altri.
Ultimamente, tra lʼaltro, sono scontento anche della mia capacità di scrittura. Faccio infatti il confronto con vari interessantissimi blog che mi è capitato di scoprire in rete, e mi deprimo.

La classicità di Friends

Per me Friends è un classico.

È il classico dei classici tra le sitcom, e in quanto tale entra a far parte dei classici della letteratura. Dopotutto, è teatro.

Per la definizione di classico rimanderei a Italo Calvino (“Perché leggere i classici?”) o a Umberto Eco (qualche Bustina di Minerva).

Perché penso che Friends sia un classico? Le ragioni, principalmente, sono tre.
Il momento in cui è arrivato, la forma famiglia pur non essendo una vera famiglia, il livello non troppo sofisticato.

Innanzitutto, il momento in cui è arrivato. È arrivato al culmine. Ha rappresentato la somma di tutte le sitcom fatte ed esistite in precedenza. Non è un caso che, finito Friends, cʼè stata la paura collettiva che quel formato particolare di sitcom, ossia il multicamera (tre o quattro cineprese) filmato davanti a un pubblico dal vivo in studio era morto.
In realtà la sitcom multicamera è stata portata avanti da telefilm come The big bang theory, How I met your mother, Two and a half men e altri. Ma nessuno ha raggiunto risultati stellari come Friends. Sono sempre state tutte sitcom di nicchia, ossia ciascuna dedicata a un settore di pubblico particolare.

Il sottotitolo di Friends, quando è nata la sitcom, era qualcosa del genere: “La vita di sei persone che vivono in quel periodo in cui si esce dalla famiglia e in cui gli amici diventano la propria famiglia”.
Le più classiche delle sitcom hanno sempre avuto al centro la famiglia. Raffiguravano la vita di famiglia. Friends ha continuato a fare questo, pur staccandosene. Genio puro. Non stiamo parlando di un genere di nicchia che si rivolge solo a un certo tipo di pubblico. Il senso di famiglia presente in Friends lʼha sempre reso appetibile a qualsiasi pubblico. So che può sembrare ardito come concetto, ma non è un caso che la puntata finale sia stata guardata da 52,5 milioni di americani, rendendola la quinta più guardata puntata finale di una serie nella storia della televisione.

Per quanto rigurda il livello, è vero, si può accusare Friends ogni tanto di essere basso come livello di storie e di battute, spesso incentrate sul sesso o sul cibo.
La verità è che questa medietà è un elemento che rende Friends un classico. Deve potere essere visto da tutti. Prendiamo serie come Frasier, in onda negli anni Novanta, che narra le vicende di due fratelli psicologi di cui uno gestisce anche un programma radiofonico. Bellissimo, per carità, ma troppo sofisticato, troppo di nicchia. Come del resto The big bang theory.

Friends ha elementi di tutte le sitcom. È la somma di tutte le sitcom.
È lʼunica serie con un cast di sei attori tutti esattamente alla pari e allo stesso livello. Infatti per tutti gli anni della produzione si sono alleati perché nessuno avesse la paga che superasse quella degli altri. Hanno tutti sempre voluto la stessa identica paga per dieci anni.
Tutti e sei gli attori erano egualmente pieni di talento. Anche se io li dividerei in tre coppie discendenti in base alla bravura. Perry-Aniston, Scwhimmer-Kudrow, LeBlanc-Cox.

La forza segreta di questa sitcom, in ogni caso, al di là di tutte le teorie, e qui non metto un “per me” perché siamo di fronte a un dato oggettivo, è che contrariamente a molti set in cui ci sono rivalità, ego e rancori, qui i sei attori che interpretavano sei amici erano, e sono, anche veri amici nella vita.

Tentativo di volontariato fallito

Tempo fa ho trovato un direttore spirituale.

La direzione spirituale è una funzione del sacerdote. Il suo compito dovrebbe essere, in quanto persona più vicina a Dio degli altri, ascoltare cosa Dio ha da dire sulla persona di cui è direttore, ad esempio se Dio vuole che la persona faccia o non faccia qualcosa, cambi vita o resti nella vita in cui è. Non so dare una definizione migliore di direttore spirituale. Posso dire solo cosa farei io se fossi sacerdote e direttore spirituale di qualcuno. Mi metterei in preghiera e chiederei a Dio di dirmi quali consigli dare alla persona affidata alla mia cura. La cosa fondamentale, in questo caso, non è tanto sapere come pregare, poiché pregare, se uno ci pensa, anche se esiste una vasta letteratura di consigli su come pregare, è abbastanza immediato. La cosa difficile non è tanto saper parlare a Dio, ma saperlo ascoltare. Per ascoltare bisogna saper fare silenzio. Saper fare silenzio sembra quasi una cosa buddista, ma si tratta di questo. Se viene un pensiero, mandarlo via. Se viene un altro pensiero, mandare via anche quello. E così via. Una volta fatto silenzio, in teoria, i pensieri che vengono in mente dopo aver pregato dovrebbero essere messaggi di Dio. Come si fa a capire quali pensieri vengono da Dio e quali non vengono da Dio? Qui entra in gioco il discernimento, ossia la capacità di discernere lo Spirito di Dio dagli altri spiriti. Non parlo delle locuzioni, ossia vere e proprie frasi che vengono in mente e che i santi hanno sperimentato. Non parlo nemmeno di immagini che uno può vedere mentalmente. Parlo semplicemente, quando dico: “pensieri”, di cose che vengono in mente, ricordi. Se a uno, dopo che ha pregato e chiesto a Dio la risposta a una certa domanda, dopo che si è messo in ascolto ed è riuscito a fare silenzio, viene in mente una data cosa, che di solito è il ricordo di qualcosa che gli è successo, questo qualcuno dovrebbe chiedersi: “Cosa vuole dire la data cosa? Cosa vuol dirmi Dio mediante tale ricordo?”. A questo punto si può lavorare col sistema delle associazioni di idee che si usa anche in psicanalisi. Si dovrebbe arrivare a un risutato. Io, almeno, ho sempre fatto così. Se non altro perché non conosco altro metodo. Nessuno me ne ha mai spiegato un altro e io da solo non sono mai riuscito a venire a capo di cosa voglia dire ascoltare Dio se non col metodo che ho appena illustrato.
Il pericolo è appunto non ascoltare la voce di Dio ma quella del demonio (che è lʼunica altra voce che si può sentire se si toglie quella di Dio; cʼè lo Spirito di Dio e poi ci sono tanti altri spiriti, che sono tutti spiriti demoniaci, tutti diciamo emissari di quello là).
Se si ascoltano le voci sbagliate si rischia di commettere grossi errori nella vita.

Ma non volevo dilungarmi sulla figura del direttore spirituale. Volevo raccontare un episodio che mostra ulteriormente quanto io sia una persona orribile e quanto al momento stia vivendo un percorso in discesa.
Il mio direttore spirituale era nientemeno che il Direttore della Pastorale Sanitaria della Diocesi. Uno grosso. Non dico come lʼho conosciuto, dico solo che gli ho chiesto di farmi da direttore spirituale e che lui ha accettato.
Lʼunica cosa che mi ha chiesto di aggiungere alla mia vita è il volontariato. A me sembrava unʼottima idea. Vivo una vita troppo solitaria, non ho una compagna e non ho figli, ho bisogno di qualcuno a cui dare gratuitamente. Altrimenti come posso vivere il Vangelo? Nella vita quotidiana le occasioni sono rare. Perlopiù si hanno tante occasioni di perdonare, perché le persone sono tutte peccatrici (siamo tutti peccatori) perciò è normale subire qualche torto, anche piccolo, durante la giornata. Quelle sono le occasioni di perdono.
Don G. come volontariato mi ha proposto di andare con lui ogni domenica in una struttura dove vivono persone disabili. Lui dice la messa e fa un giro, salutando questo e quello. Quando ero frate – sono stato frate per cinque anni, non ho mai fatto i voti perpetui – una cosa che facevo era andare una volta a settimana in una struttura dove vivevano persone disabili. Avevo vari amici, uno in particolare, mi divertivo, ci divertivamo, cantavamo a squarciagola durante la messa e insomma non era male come cosa.
Ma da quando ho smesso di fare il frate non sono più riuscito ad avere a che fare con persone disabili, non, almeno, come animatore. Vivo una vita solitaria e faccio fatica ad avere a che fare con le persone, a fare amicizia, in generale. Ho qualche amico, ma solo due o tre che vedo di persona. Gli altri vivono lontano e li sento per telefono.
Non so proprio come spiegarlo, so che la mia immagine è quella di una persona orribile, ma proprio non sono più riuscito ad avere quellʼallegria, quel modo di fare tenero e amichevole che è necessario per avere a che fare con le persone disabili, che alla fine dei conti sono persone come le altre.
Dopo essere andato due domeniche ho smesso di andare del tutto. Non ho più chiamato don G. e oggi non ho più direttore spirituale.

Ogni tanto esco a cena con un frate anziano che anche se mi dà qualche consiglio non è ufficialmente il mio direttore spirituale. Dopo cena andiamo al cinema.
Lʼho conosciuto in confessionale. Ha fatto tutto lui. Mi ha invitato a cena. È un buon amico. Ringrazio Dio che cʼè.

Resta il fatto che la mia vita ha bisogno di cospicui miglioramenti, pigrizia – maledetta pigrizia – permettendo.

Vivere tanto e poco

Davanti a Dio, chi può dire se è meglio vivere una vita lunga o morire presto?

Gesù è morto presto, e la sua, si può dire, è la vita più compiuta di tutte. Nulla da aggiungere, nulla da togliere, la vita perfetta. Gesù è modello per lʼuomo e la sua vita è modello per la vita dellʼuomo.
Perciò vivere una vita lunga non significa necessariamente aver raggiunto un grande risultato.

Mi trovo in imbarazzo quando mi capita di incontrare qualcuno che mi dice: “Ho ben 87 anni!”, “Ho ben 92 anni!”, come se meritasse un premio o bisognasse garantirgli unʼonorificenza.
Di fatto è così che si tende a rispondere: “Complimenti! È arrivato fino a 92 anni!”.

Lʼetà va rispettata. Questo è certo. Ma perché?
Di mio direi che lʼanzianità porta con sé saggezza. Un mio amico vecchio mi assicura che non è così, e che invece si rincoglionisce e che è meglio essere giovani.
Cosa dire di uno che muore in guerra, o compiendo il suo servizio nelle forze dellʼordine? Non è forse più onorevole di uno che è vissuto a lungo?

Non è così ovvio che la vita più lunga sia la più onorevole.
Si potrebbe pensare che sia meritevole il fatto di essere sopravvissuti a lungo, con tutte le difficoltà che la vita offre.
Ma chi può seriamente dire una cosa del genere? Una malattia mica è nostra responsabilità. Si pensi a quei giovani fino al giorno prima pieni di salute, che si ammalano. Si pensi, dʼaltro canto, a quegli sportivi che muoiono sul colpo.
“Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita” (Lc 12, 20). La nostra vita è in mano a Dio, così come il momento in cui moriamo.

Dato che la vita è sofferenza, posso dare credito a chi ha vissuto a lungo perché ha sofferto per tanto tempo. E chi ha sofferto merita rispetto.

Piuttosto, mi è capitato di pensare una cosa del genere. Uno va quando è pronto. Cosa vuol dire essere pronti? Vuol dire aver fatto tutto ciò che si doveva fare nella vita. E qui si torna alla vita di Gesù.
Si pensi ad esempio anche a Mozart. Ha iniziato a comporre prestissimo. Nella sua vita ha composto tantissimo. Poco dopo i quarantʼanni aveva già conseguito tutto ciò che Dio gli aveva affidato di conseguire. Poteva andare. Poteva morire.
Secondo questʼottica, certi vecchi sarebbero ancora sulla terra perché devono ancora espiare ciò che non hanno fatto. Ecco dove porterebbero le omissioni...
“Dio ti tiene sulla terra perché non hai ancora sofferto abbastanza e quindi non sei ancora pronto per morire”.
Chi, invece, prende la sua croce su di sé ogni giorno... muore al momento giusto.
Il momento giusto? Il momento pre-pensato per lui o lei da Dio. Perdiamo tale momento tutte le volte che evitiamo una croce, tutte le volte che diciamo: “No” a Dio, tutte le volte che deviamo dalla strada maestra per il Paradiso che Dio ha preparato.

Detto questo, cʼè la seria possibilità che incontriamo un serio e venerabile anziano per cui vale questa Parola: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; dʼaltra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere dʼaiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede...” (1Cor 1, 21-25). Si pensi a uno che ha già raggiunto il momento giusto, che era pronto per morire perché aveva fatto tutto ciò che doveva fare, e che Dio tiene ancora su questa terra perché è di beneficio per gli altri. Che santità... che venerabilità...

Vocazione

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! (1Cor 13, 13)

Non sapeva cosa dire. Quello che in inglese chiamano: “small talk” era sempre stato il suo debole. Le chiacchere, le conversazioni non erano proprio il suo forte. Forse era perché era cresciuto da solo con la madre. In casa non aveva nessuno con cui parlare. Non era cresciuto abituato alla conversazione con la gente di casa come la maggior parte delle persone. Con la madre non parlava mai. La madre aveva un negozio dove stava la maggior parte del giorno. Quando tornava a casa cucinava e si metteva a tavola col figlio, ma tenevano la televisione accesa e guardavano Striscia la notizia. Il figlio, non appena poteva, si alzava e andava a guardare la televisione in sala. Cartoni animati, telefilm, aspettava il film della sera...
Quando fu divenuto frate, la cosa che lo terrorizzava di più erano le chiacchere da sagrato. Amava la messa e tutto quanto  comportava, la liturgia, i canti, le preghiere, lʼEucaristia. Ma non sopportava di doversi mettere a parlare con le persone fuori, sul sagrato della chiesa, alla fine della messa. Aveva il terrore del sagrato e lo sapeva. Faceva apposta a restare in sacrestia a finire di sistemare fino allʼultimo per rimandare il più possibile il momento in cui sarebbe dovuto uscire sul sagrato. Non sapeva come parlare alle famiglie. Non sapeva come attaccare discorso. I suoi confratelli frati, giovani e pieni di entusiasmo, ci sguazzavano nella situazione sagrato. Lui non vedeva lʼora che finisse e non vedeva lʼora di svignarsela. Forse, segretamente, in fondo al cuore, non vedeva lʼora di andare a guardare la televisione in sala, qualche telefilm, qualche cartone animato, aspettare il film della sera...
Ma no, queste cose non lo interessavano più. Agognava però la solitudine. Lettura e preghiera. Magari scrittura, qualche appunto sulle cose lette, qualche resoconto diaresco sui fatti della giornata. I resoconti diareschi fini a se stessi non gli erano mai piaciuti. Se scriveva qualcosa che gli era successo era solo per lamentarsi di qualche insuccesso o di qualche problema che stava vivendo nella sua vita, o magari per lamentarsi di qualcuno. 
Infine scoprì che la sua mancanza di idee sulle cose da dire sul sagrato davanti alla chiesa altro non era che mancanza di carità. Lʼincapacità di stare in mezzo alle persone è sempre stato segno di mancanza di carità. Gli pesava conoscere persone nuove. Non disdegnava ascoltare le vite delle persone, più volte era stato encomiato per la sua capacità di ascolto. Ma non era facile entrare velocemente in quel rapporto con tutti. Per lo più si trattava di essere bravi nello small talk. Questo lo annoiava a morte. Voleva andare sui libri o stare da solo con Dio, a pregare. Capì che non poteva fare il frate da parrocchia. O vita monastica, o altrimenti meglio abbandonare e lasciar perdere tutto.

La differenza tra fare un favore e farsi prendere per il culo

E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due.
(Mt 5, 41)

Oggi, alla fine del lavoro, un collega mi ha chiesto se lo accompagnavo con la macchina in un posto. Aveva gli occhiali da sole e si capiva benissimo che aveva fumato.
Naturalmente non ha fatto lo stesso lavoro che ho fatto io durante la giornata, ossia il corriere. Fumato comʼera, tuttʼal più avrà lavorato un poʼ in magazzino.
È una mia supposizione. In realtà è probabile che stesse bazzicando in magazzino, allʼora del mio rientro, perché abita lì.
Il magazzino che fa da base alla mia azienda ha gli uffici al piano terra e un appartamento al primo piano. Questo collega è in affitto nellʼappartamento al primo piano.
Possiede solo un motorino. A quanto pare il posto dove doveva andare non è che non fosse raggiungibile in motorino, però bisognava arrivarci per tempo. Da quello che sono riuscito a capire, aveva un appuntamento con un dottore, credo uno psicologo o uno psichiatra.
In macchina non continuava a far altro che dire che era nervoso per questo appuntamento e che presto avrebbe rimesso in sesto la sua vita, e cose di questo genere. Inoltre mi ringraziava per il gran favore che gli facevo.

Arriviamo allʼAuchan di C. Mi dice di entrare nel parcheggio, che deve prelevare al bancomat. Scende dalla macchina e si dirige effettivamente verso il bancomat, intanto io parcheggio e mi metto ad aspettarlo.
Mi metto a leggere un poʼ di blog e a scrivere un paio di commenti, a leggere le notizie su Google News. Dopo una ventina di minuti mi rendo conto che non è ancora tornato.
Provo a telefonargli. Il telefono squilla dentro la macchina. Lʼha lasciato in una di quelle grosse buste per la spesa che ormai usano tutti anche per cose che non cʼentrano con la spesa, in cui ci sono anche altre cose sue.
Faccio passare unʼaltra decina di minuti, poi decido di scendere dalla macchina e di andare a cercarlo. Parto dal bancomat, guardo in giro, ma il supermercato è enorme e pieno di gente. Di lui, nessuna traccia.

Arrabbiato, chiamo in magazzino e chiedo se cʼè ancora qualcuno. La mia intenzione è andarmene, passare dal magazzino, lasciare giù la sua roba – cioè la grossa busta della spesa con dentro anche il telefono – e andare a casa. Dopotutto il collega abita sopra il magazzino.
In magazzino mi dicono che saranno lì ancora unʼoretta.
Parto. Dieci minuti e sono in magazzino. Lascio la sua roba in ufficio e sparisco.

Il collega quindi è rimasto, per quanto ne so, allʼAuchan di C., paese appena fuori dalla città in cui vivo, quindici minuti di macchina ma almeno unʼora e mezza di autobus per tornare a casa, senza telefono e chissà se con soldi.

Io sono troppo incazzato perché mi ha mollato lì senza dirmi dove andava, lasciando in macchina pure il telefono. In magazzino mi aveva detto che avrei dovuto semplicemente lasciarlo in un posto per un appuntamento con un dottore.

Ma adesso naturalmente al mio confessore toccherà sentir parlare di questa storia. Lʼho mollato là senza telefono.
(Ovviamente tutto questo rinforza lʼidea che sono una persona orribile).

In più, cʼè da aspettare e vedere la sua reazione. Chissà cosa mi dirà la prossima volta che ci vediamo in magazzino. Magari ci sarà una discussione, magari dovremo picchiarci.

Che razza di situazione. Vuoi fare un favore a qualcuno, questo qualcuno viene fuori che è un demente e un fattone. Alla fine sei tu che fai la figura del bastardo, perché magari potevi aspettare dieci minuti di più.
Ma uno non ha diritto di andarsene a casa dopo una giornata di lavoro? Ti faccio un favore, ma se tiri la corda, e mi tiri per il culo...

Code

Come non sopporto quelli che, quando sei in coda, invece di mettersi alle spalle, cioè dietro, si mettono di fianco!

È una coda. Non sei capace di metterti alle spalle? 
Non è che il tuo trucco ti farà passare davanti, non farai più in fretta! 

Ventagli

C'è gente che non prende in mano un ventaglio o qualcosa con cui sventolarsi per tutta la giornata, e appena entra in chiesa deve per forza prendere in mano qualcosa e mettersi a sventolarsi, altrimenti pare che non ce la faccia a stare in chiesa.

Oddio, per carità, non posso stare in chiesa senza sventolarmi! Muoio!

Mi metto nei panni di colui che deve predicare. Non deve essere facile concentrarsi con tutti quegli sventolamenti davanti alla faccia...

Vogliamo dare ai predicatori il rispetto che gli si deve? Durante una predica può parlare lo Spirito Santo! Le sante predicazioni hanno operato conversioni in tutto il mondo! 
Già non tocchiamo la Parola di Dio quando siamo a casa nostra. Dovremmo ardere nellʼattesa che almeno il predicatore che ascoltiamo una volta a settimana – se è tanto – ci informi, ci spieghi, ci illumini e ci trasmetta la Parola.

Lʼimpegno del perdono

Non è così facile perdonare. A volte crediamo di aver perdonato, ma in realtà il nostro comportamento verso la persona che ci ha ferito è cambiato. Cambia automaticamente, anche contro la nostra volontà. La persona che ci ha ferito se ne accorge. Il nostro comportamento non è più sciolto come prima.
Quando si ferisce una persona, il suo cuore si indurisce nei confronti di chi ha ferito. Succede automaticamente; uno pensa: “Fa niente” e invece il suo comportamento cambia. Lo sforzo di perdonare invece non è affatto automatico.
Per capire se si è perdonato veramente bisognerebbe confrontare il comportamento che si aveva prima col comportamento che si ha dopo. Si riesce di nuovo a sorridere alla persona così facilmente? Si ha lo stesso desiderio di parlarle che si aveva prima? O la si evita non appena si percepisce con la coda dellʼocchio? Se non si riesce a comportarsi con la stessa scioltezza di prima significa che qualcosa è cambiato.
Allo sforzo di perdonare bisognerebbe sempre dedicare un poʼ di tempo, perché non è una cosa scontata. Bisognerebbe accompagnarvi anche un poʼ di preghiera. “Signore, aiutami tu a perdonare la tale persona”. “Dammi un poʼ del tuo perdono, della tua capacità di perdonare”.
È il momento in cui dobbiamo tornare a essere persona nuova... o meglio, dobbiamo divenire nuova creatura per tornare a essere come prima.

Cʼè un collega sul lavoro che nel suo desiderio di fare battute a volte mi ferisce. Lʼultima volta è andata così. Io avevo una maglietta con su scritto: “Nada te turbe”, che è lʼinizio della famosa preghiera di S. Teresa dʼAvila:
Nada te turbe
nada te espante,
todo se pasa,
Dios no se muda;
la paciencia
todo lo alcanza;
quien a Dios tiene
nada le falta.
Solo Dios basta. 
Nulla ti turbi,
nulla ti spaventi;
tutto passa,
Dio non cambia;
la pazienza
ottiene tutto;
chi possiede Dio
non manca di nulla.
Solo Dio basta.
Erano presenti il collega e una donna. La donna mi ha chiesto: “Cosa cʼè scritto sulla tua maglietta?”. Non riusciva a leggere bene. Glielʼho detto: “Nada te turbe”. Ma prima che riuscissi a spiegare che sono parole di una santa il collega è intervenuto.
“Nada te t…”. “Nada te t…”. Ha fatto un poʼ di tentativi e infine è venuto fuori con la frase: “Nessuno ti tromba! Per forza, con quella pancia. Qua, con questo lavoro, tutti dimagriscono. Tu sei lʼunico che è ingrassato!”.
In questo modo è stato interrotto il mio tentativo di spiegazione su cosa cʼera scritto sulla maglietta e sulla provenienza delle parole.

Bisogna precisare che il collega è albanese e musulmano. Qualche mese fa si è lasciato con la donna con cui stava da anni, ma in poco tempo se nʼè trovata unʼaltra. A una cena, qualche tempo fa, mi ha fatto vedere la sua foto. Devo dire che si è trovato una gran bella ragazza.

La mattina dopo, automaticamente, senza pensarci e senza farlo apposta, ho visto il collega con la coda dell'occhio, lʼho evitato e sono andato a salutare altre persone.
Adesso che ci penso, mi rendo conto che non sono nemmeno più riuscito a guardarlo negli occhi. Anzi, oggi ho persino notato che non è così magro come mi sembrava. 

Lepri contro cani

Una volta un ragazzo di tredici anni camminava con suo padre non lontano da un fiume.
È un piccolo fiume dellʼOltrepò pavese che si chiama Staffora ed è affluente del Po. Le rive sassose, con pianticelle qua e là, in alcuni punti sono larghe, tanto che si può camminare sulla riva sassosa ed essere anche a più di 50 metri dallʼacqua.

A volte il ragazzo e suo padre andavano a pescare alla Staffora. Cʼerano tre o quattro punti con bei fondoni in cui si pescava bene.
Il pesce più ambito era il cavedano. Di cavedani se ne potevano trovare anche di certe dimensioni. Ma era più facile prendere le cosiddette alborelle, ovvero pesciolini tipo sardine. I cavedani si potevano fare arrosto, al forno o in carpione (sottʼaceto con aromi). Le alborelle si facevano fritte e si mangiavano con lisca e testa, come sardine. Di alborelle bisognava pescarne tante per potersene fare una mangiata.

A volte il ragazzo e suo padre si facevano lasciare da un amico con la macchina in un punto della Staffora. Partivano la mattina e si portavano dietro panini. Camminavano e pescavano lungo il fiume tutto il giorno. Poi lʼamico verso sera li andava a prendere qualche chilometro più in giù, in un altro punto dove si erano dati appuntamento.

A volte, però, il ragazzo e suo padre andavano alla Staffora semplicemente a fare una camminata, perché la loro casa non era lontana dalla Staffora. Portavano con sé la loro cagna Lucri, diminutivo di Lucrezia.

Una di queste volte il ragazzo stava camminando lontano dallʼacqua, vicino a dove iniziano a esserci alberi e più in là campi.
Allʼimprovviso vide una lepre spuntare dallʼerba e mettersi a correre per scappargli. La cagna Lucri si mise subito a rincorrere la lepre.
Il ragazzo chiamò il padre e disse: “Papà, cʼè una lepre! La Lucri si è messa a inseguirla!”.
“Seh! Figurati se la prende! Le lepri sono molto più veloci dei cani!”, disse il padre quando arrivò dal ragazzo.
“Davvero?”.
“Sì, sì. A questʼora sarà già sparita nel bosco. Alla Lucri la lepre le fa un baffo!”.
Bisogna ricordare che il padre del ragazzo era stato cacciatore anni prima, quindi non cʼera ragione per cui il ragazzo non dovesse credere alle sue parole.

Rimasero qualche secondo a guardare la Lucri frugare in lontananza. Della lepre neanche lʼombra.

Continuarono la camminata, poi tornarono a casa, e raccontarono ai loro la corsa a vuoto della Lucri.

Invidia

Sono una persona orribile. Che sia affetto da invidia posso dimostrarlo con due semplici casi.

Il primo è verso un collega di lavoro, P., che è il più bravo di tutti.
Faccio il corriere, e non sono uno dei più bravi. Tra corrieri dire: “più bravo” significa dire: “più veloce”. Io non sono uno dei più veloci, ossia non sono uno dei primi a rientrare in magazzino la sera. Piuttosto, sono uno degli ultimi. P., invece, è sempre il primo. Ci mette unʼora e mezza, due ore in meno di me, e di molti altri, a fare il suo giro.
Va tenuto conto che tutti i giri sono pensati per durare circa otto ore. Lui ce ne mette in media sei, io ce ne metto in media otto. Diciamo che io sono nella norma, ma P. è straordinario.

Con P. cʼerano anche presupposti perché si formasse unʼamicizia. I primi tempi abitavo lontano e andavo a lavorare in treno. Dovevo prendere treno e un autobus. Arrivavo sul lavoro prestissimo. P. prendeva anche lui lʼautobus. Una mattina mi colse a dire il rosario fuori dai cancelli in attesa che aprissero. Mi raccontò della sua conversione e subito tra noi si formò un legame basato su Dio. Una domenica, per dire, siamo stati a visitare un famoso santuario insieme.

P. ora è in ferie. Oggi mi hanno dato la sua zona. Mi sono reso conto che odio la sua zona. E mi sono reso conto che allʼinizio non odiavo la sua zona. Prima che diventasse definitivamente la sua zona, ossia prima che fosse assegnata definitivamente a lui, la amavo. È una zona residenziale con poco traffico, non si impazzisce tanto a farla.
Oggi invece la odio. Perché? Perché so che non sarò mai in grado di farla velocemente come lui. Questo me la rende odiosa.

Tempo fa P. ha scoperto che cʼera gente che gli parlava alle spalle. Si è confidato con me e mi ha detto di esserci rimasto male. Mi ha detto: “Forse è colpa dellʼinvidia”. Io gli ho detto: “Ti tocca. Sei il più bravo. Devi portare questo fardello”.
Non lʼha presa bene. Secondo me non gli è piaciuto ciò che ho detto. Per un poʼ, nei giorni successivi, non mi ha guardato con sorriso. La mia frase era di fatto una mezza confessione, che provavo invidia nei suoi confronti, e speravo che da amico comprendesse. Glielʼho detto a cuore aperto.
È difficile per noialtri, che non siamo bravi come lui, andare al lavoro tutti i giorni. Se fossero tutti come lui, per me, o per altri, non ci sarebbe posto di lavoro. Son cose serie, son cose che fanno pensare.
Oggi P. mi sorride di nuovo. Spero abbia capito quanto è difficile gestire uno come lui sul posto di lavoro.
Eppure so di essere una persona orribile. So che dovrei imparare solo ad ammirarlo, senza invidiarlo. E se non sono in grado di stare al passo, cavoli miei, mi sia tolto il posto di lavoro.
In termini di principio, se ci penso, se penso che hanno crocifisso Gesù per invidia, e se penso alla posizione che rivesto io in questa storia e alla posizione che riveste P., so di essere dalla parte del torto. Dovrei semplicemente ammirarlo, cercare di imparare da lui e impegnarmi per cercare di avvicinarmi ai suoi risultati.

Però non riesco a cancellare il fatto che odio la sua zona e odio quando mi tocca farla. E di fatto lʼamicizia con P., con presupposti posti da Dio stesso, non è mai decollata.

Lʼaltro caso di invidia riguarda Larry David, co-creatore di Seinfeld negli anni ʼ90 e creatore di Curb your enthusiasm. Ho appena comprato su Amazon il dvd box con tutte e nove le stagioni di Curb your enthusiasm. Ho appena finito di vedere la prima stagione. Mi rendo sempre più conto che Larry David è un genio.
Larry David è davvero geniale. Rosico di invidia nei suoi confronti. Io non sono altro che un misero corriere, e non faccio nemmeno bene il mio lavoro. Larry David ha avuto il coraggio di vivere gli anni in cui non aveva lavoro e di mettersi a scrivere. Ha tenuto testa ai propri genitori, contrarissimi alla sua carriera di scrittore. È vero che ha avuto Jerry Seinfeld ad aiutarlo. Io non sono mai riuscito ad avere lʼappoggio di nessuno, semplicemente perché non sono mai riuscito ad avere lʼamicizia di nessuno.

Ma lasciamo perdere lʼamicizia, un altro argomento che dimostrerebbe che sono una persona orribile. Per il momento lascio da parte anche Larry David, perché è un capitolo a parte.

Pensiero da scrittore da quattro soldi

Ieri al Penny Market ho comprato un pezzo di focaccia con cipolla che faceva raramente schifo.

Nel senso che raramente ho mangiato una focaccia così schifosa.

Ciò che conta è il gusto

Una cosa che mi è venuta in mente stasera è il film The prisoner of Second Avenue. Commedia di Neil Simon, film con Jack Lemmon e Anne Bancroft.
Dovrei seriamente procurarmi le commedie di Neil Simon. Sono stufo di vedere i film che non sono altro che commedie macellate, fatte a pezzi. Voglio leggere gli originali.
The prisoner of Second Avenue parla di un uomo che viene licenziato. La moglie, che prima faceva la casalinga, trova lavoro e finisce per portare a casa la pagnotta al posto suo.
Non ricordo altro. Dovrei rivederlo il film.
Non è che sia un film stratosferico, però ha quel tipico gusto simoniano che amo tanto. Neil Simon ha un buon tocco. Come Woody Allen.
Woody Allen specialmente nei cosiddetti anni della maturità. Dopo che è diventato vecchio non cʼè stata più la corsa allʼoro di quando era giovane. Però anche un film come Annie Hall, quanta genuinità. Una commedia romantica che finisce coi due che si lasciano. Quanta lontananza dagli schemi hollywoodiani.
Cʼè tanta genuinità in Neil Simon. È uno che si mostra così comʼè. Senza paura di piacere per forza al mondo di Hollywood.
Decisamente, la prossima cosa che cerco su Amazon è un libro con una raccolta di commedie di Neil Simon. Voglio vedere almeno The odd couple, Biloxi Blues, The prisoner of Second Avenue e The heartbreak kid come sono originariamente, prima che gli sceneggiatori dei film le hanno cambiate nel fare lʼadattamento.
Vediamo se trovo la versione Kindle, scaricabile sul telefono.

Trovate:
The Collected Plays of Neil Simon. Volume 1
The Collected Plays of Neil Simon. Volume 2
The Collected Plays of Neil Simon. Volume 3
The Collected Plays of Neil Simon. Volume 4
Costano un poʼ. Devo pensarci.

Che vicino orribile

Ho provato a mettermi a guardare un film, A walk to remember, ma gli auricolari bluetooth sono scarichi, perciò ho dovuto metterli in carica e ho dovuto smettere di guardare il film. Tanto già dallʼinizio posso dire che è un film che non mi piace. Ne ho piene le palle di film adolescenziali. È che quando si cercano su internet liste di romcom vengono fuori parecchie storie dʼamore ambientate negli anni dellʼadolescenza. Ormai sono troppo vecchio per interessarmi di dinamiche adolescenziali. Anche se è vero che lʼamore non ha età. Però forse dovrei puntare più sulle vecchie commedie romantiche in bianco e nero.

La cosa peggiore del fatto che gli auricolari bluetooth siano scarichi non è non poter guardare il film, ma non potermi isolare dai rumori esterni.
I rumori esterni sono i miei vicini che passano il tempo nel loro spazio allʼaperto, che è appena fuori dalla mia porta. E il tempo che i miei vicini passano nel loro spazio allʼaperto spesso lo passano parlando. Il vicino, ossia il padre di famiglia, quando non ha ospiti o amici con cui parlare parla al telefono. Va a finire che cʼè sempre un rumore di sottofondo fuori dalla mia porta. Sta diventando una cosa insopportabile, specialmente se la sera voglio mettermi a leggere o scrivere.
La soluzione abituale è ascoltare musica (Mozart, Haydn, gregoriano) con gli auricolari bluetooth, ma in occasioni come questa non mi resta che prendere due strappi di carta igienica, inzupparli dʼacqua e improvvisare tappi per le orecchie. Ma le voci si sentono anche attraverso i tappi per le orecchie, a volte.

Io naturalmente non ho uno spazio allʼaperto perché ho un misero monolocale.
E soprattutto, a questi vicini di casa non si può dir niente perché hanno una bambina malata di leucemia. Sono una giovane coppia ucraina, e sono venuti a vivere nella città in cui vivo perché la città in cui vivo è famosa per le cure contro la leucemia infantile.
Sono entrambi pittori, quindi non schiodano mai, tranne quando vanno in ospedale.

Che altro posso dire? So di essere una persona orribile. Aspetto un fulmine dal cielo da un momento allʼaltro.
È evidente che questa è una famiglia che ha sofferto e soffre terribilmente. Solo negli ultimi mesi a V., la bambina, sono ricresciuti i capelli. Ultimamente sta meglio, ma so che le cure che ha fatto lʼhanno fatta soffrire tanto. Ogni tanto ha delle febbri.
È una famiglia a cui è permesso tutto. A me toccano solo dei gran tappi per le orecchie.
A loro, con tutto quello che passano, tocca pure un vicino come me.

Far ridere e ridere e basta

Una cosa di cui non sono minimamente capace è l'umorismo. È una cosa che mi rattrista parecchio, perché adoro umorismo e commedia. Anzi, non faccio altro che guardare commedie. La commedia è senza dubbio il mio genere preferito.

Ci sono persone con cui parlo quotidianamente, che hanno quotidianamente la capacità di fare battute. Fanno battute su qualsiasi cosa e ne fanno in continuazione. Ascolto, ma a me non viene in mente niente.

Guardo tonnellate di commedie.
Ho il dvd box di Friends e di The Phil Silvers show.
Se guardo un film, guardo una commedia. Per lo più guardo commedie romantiche, che in inglese chiamano “romcom”.
Su Youtube guardo tonnellate di spezzoni di sitcom. The office, Cheers, Frasier, Seinfeld, Curb your enthusiasm, Married with children, Parks and recreation, Leave it to Beaver... 
Mi sono appena svenato e ho comprato il dvd box di The office e di Curb your enthusiasm su Amazon. Arriveranno a settembre. Potrò vedere le puntate intere.
Guardo anche la cosiddetta “stand up comedy”, la commedia in piedi. Guardo la stand up comedy di Woody Allen quando era giovane.
Ho appena scoperto Rodney Dangerfield con le sue cosiddette “one-liners”, ossia battute da una riga. Sono tutte battute con “set up” e “punch-line”. Ad esempio:

I told my wife the truth. I told her I was seeing a psychiatrist. Then she told me the truth. That she was seeing a psychiatrist, a bartender and two plumbers. 
Ho detto a mia moglie la verità. Le ho detto che stavo vedendo uno psichiatra. Allora lei mia ha detto la verità. Che stava vedendo uno psichiatra, un barista e due idraulici.

Ho anche un libro con le commedie di George S. Kaufman. Ne ho letta una. You canʼt take it with you (da cui il film di Frank Capra che in italiano sʼintitola Lʼeterna illusione).

Insomma, la commedia la capisco. Le battute le capisco. In generale mi faccio grandi risate.
Ma non riesco a essere umoristico. Non riesco a pensare a battute.
È vero che gli scrittori comici dicono che pensare e scrivere battute è molto più difficile di quello che si pensa. Magari se mi sedessi e provassi a pensare e a scrivere battute, come fanno i professionisti, riuscirei a produrre qualcosa.
Però è anche vero che, come ho detto, ci sono persone che snocciolano battute quotidianamente, nelle normali conversazioni.
Cosa vorrà dire, sulla mia persona, la mia incapacità di fare battute? È mancanza di arguzia? È mancanza di intelligenza? Son cose che mi chiedo.

Lodare se si può

Da quando ho letto Simposio di Platone ho imparato a fare la distinzione tra elogio, biasimo, adulazione e insulto.

Il passaggio che mi ha ispirato tale distinzione è verso la fine, nel discorso di Socrate.

In Simposio ci sono sette discorsi. Parlano, in questʼordine, Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate e Alcibiade. Ciascuno è chiamato a fare un elogio di Eros.
La sera prima avevano partecipato alla festa in onore della vittoria di Agatone alle gare di tragedie, e tutti avevano bevuto assai. Ritrovatisi a casa di Agatone la sera dopo  la sera cioè in cui sono avvenuti i fatti registrati in Simposio – gli amici decidono di non continuare a bere perché sono tutti più o meno rintronati e col mal di testa, e decidono invece di intrattenersi con discorsi. A turno, girando verso destra, ciascuno deve fare un elogio di Eros.
Alcibiade arriva alla fine. È completamente ubriaco. Beve ulteriormente. Dice di non voler fare lʼelogio di Eros, ma di Socrate.
(Ma lasciamo perdere Alcibiade, anche se il suo discorso va letto se si vuole capire qualcosa su Socrate).

Socrate, quando è il suo turno, fa una puntualizzazione su cosa è elogio. Dice, cioè, che è dire la verità in positivo su qualcuno o qualcosa, tralasciando le cose negative. Dice di non essere capace di fare un elogio di Eros come li hanno fatti gli altri, che erano delle esagerazioni  quindi delle adulazioni  piene di dettagli non verificati, e si ripropone di non far altro, su Eros, che dire la verità.
(Suggerisco a chiunque di leggere Simposio nella traduzione di Giovanni Reale, in particolare il discorso di Socrate, per capire cosa e chi è Eros).

Ho costruito questo schema basandomi sulle parole di Socrate su cosa è elogio.


elogio equivale alla lode. Il biasimo equivale al rimprovero.
Adulare significa dire qualcosa di falso in positivo su una persona, tipo: “Sei il più grande artista di questa generazione!”. Insultare significa dire qualcosa di falso in negativo su una persona, tipo: “Sei una merda!”. Ma nessuno è merda, o un cane, o qualcosa di peggio, perché siamo carne e ossa e siamo uomini.

Sorridere

Sono cresciuto da solo con la mamma. Quandʼero piccolo ero un bel bambino. Mia madre ha cercato di farmi fare pubblicità. Sono riuscito a entrare in uno spot televisivo dellʼuovo Kinder. Non ero il protagonista; saltavo fuori con un altro bambino e insieme dicevamo: “E a noi, mamma?”. Mi hanno pagato 200.000 lire più due scatoloni di uova Kinder. Ho aperto subito tutte le uova, messo il cioccolato da parte e tirato fuori tutti i giocattolini sorpresa. Era lʼunica cosa che mi interessava.

Poi mia madre mi ha portato a un provino in cui mi dicevano di sorridere, ma io non riuscivo a sorridere. Dovevano farmi delle foto. Mia madre era incredibilmente contrariata; non riusciva a credere che non riuscissi a sorridere. “Sorridi”, mi diceva. “Perché non riesci a sorridere?”. Era anche imbarazzata con la gente che conduceva il provino.
Io, di fatto, non riuscivo a sorridere. Non sapevo proprio come si faceva. Ero mortificato. Non sai nemmeno sorridere.
La mia carriera pubblicitaria si è interrotta con questo provino. Non ho mai fatto né altri provini né altre pubblicità.
Mia madre diceva a tutti che non ero capace di sorridere.

In seguito, per anni, specialmente quando imperava Berlusconi, sono stato convinto che sorridere non andava bene se non era una cosa spontanea. Se uno è una persona che non sorride tanto, cavoli suoi, pensavo, significa che non è felice. Ma uno non può forzarsi a sorridere, pensavo. Si vede quando il sorriso è forzato. Lʼeffetto è terribile. Il sorriso di Berlusconi, soprattutto, mi è sempre sembrato talmente falso da farmi perdere qualsiasi interesse nel sorridere.

Poi ho iniziato a credere in Dio. È successo intorno ai 27-28 anni. (Un processo piuttosto lungo).
Sono stati i cristiani a convincermi che il sorriso è importante.
Possiamo sforzarci di sorridere, fare del nostro meglio, non importa il risultato. Lʼimportante è che abbiamo cercato di fare un dono. Il sorriso è uno dei gesti che possiamo fare col corpo per fare un dono.

Oggi ho imparato a sorridere. Sorrido molto alla gente. Anche, anzi soprattutto, quando faccio fatica.
Secondo me ha più valore un sorriso che si vede che uno è dovuto andare a cercarlo chissà dove, un sorriso che costa. Se uno è infelice e non ha alcuna voglia di sorridere, ma allo stesso tempo cerca di sorriderti, io dico che quello sforzo è encomiabile. Perché è facile sorridere quando si ha la gioia nel cuore.

Ho notato che più si sorride, più riesce facile. Oggi, spesso, vedo che riesco anche a invocare la gioia necessaria da trasmettere col sorriso, in modo che sia un sorriso autentico e non forzato. Il trucco è pensare alla persona a cui si sorride e volerle fare del bene. È per questo che molte volte prego negli istanti prima di sorridere. “Maria, dammi un sorriso decente per questa persona”. “Dio, ti prego, aiutami a trasmettere la tua gioia quando sorrido a questa persona”. “Gesù, faʼ che io tratti questa persona con la delicatezza con la quale la tratteresti tu”.
E così via.

Identità e spersonalizzazione

Una cosa che succede sul posto di lavoro dove lavoro io è il chi parla con chi. Si formano gruppetti. Mi ricorda il cortile allʼintervallo di quando andavo alle superiori. Quelli con cui stavi, quelli con cui ti facevi vedere, era tutto ciò che contava. Oggi tutto si ripropone sul posto di lavoro. Quei tempi non sono finiti. Gli anni del liceo, che ho sempre considerato i più bui della mia vita, non sono finiti. Continuano anche oggi. E poi cʼè chi dice che non vuole liberarsi del passato.

Ma magari fossi senza passato, magari fossi senza identità. Magari fossi spersonalizzato. La spersonalizzazione è ciò a cui ho sempre puntato. Non essere io. Non avere gusti. Non avere preferenze. Le nostre preferenze, i nostri bisogni, fanno male alle altre persone.

Avere pensieri che siano sempre e solo eterni, e mai il frutto di una qualche percezione sensoriale legata alla persona.

Non so, è di certo dalla tradizione buddista – nella quale per un periodo mi sono immerso – che ricavo questo tipo di obbiettivo.

Nella tradizione cristiana i santi che sono in Paradiso sono le stesse persone che erano sulla terra. Eppure questa tradizione da dove deriva? Da Dante. Ce lʼho un poʼ su con Dante. Capisco lʼimpresa mastodontica, inarrivabile, che ha compiuto nella sua vita. Ma non mi piace il suo verseggiare incatenato e asfissiante.
Il vero verseggiare è quello dellʼIliade, dellʼOdissea. Esametri. Verseggiatura tonica, cioè basata sul numero degli accenti, non sul numero delle sillabe. Che prigione che è la Divina Commedia. Senza respiro. La libertà degli esametri, al posto di esasillabi è vera poesia. Sarà stato un grande studioso, ma Dante non è altro che un rimasticatore.

Io vedo il Paradiso come una liberazione dalla personalità, dallʼidentità. Da tutte quelle cose che rendono limitati, deboli, fallibili. Il viaggio verso il Paradiso è una purificazione, sicuramente lo vedo così perché ho letto Platone. Ciò che rimane di noi in Paradiso è il meglio, non il peggio. I gusti, le preferenze, ciò che ci rende limitati e umani li perdiamo, se andiamo in Paradiso. Resta solo ciò che è eterno. Quanti pensieri eterni siamo stati in grado di pensare? Quante opere eterne siamo stati in grado di produrre e lasciare? Sono queste che identificano in Paradiso. Quaggiù lasciamo tutto ciò che è terreno, transitorio, ciò che non entra in cielo.
La vita eterna è fatta sì della risurrezione del nostro corpo, ma come dice Gesù in Paradiso non si prende moglie né marito perché si è come angeli. Ciò significa che se il nostro corpo risorge in Paradiso non è certo uguale a quando è quaggiù. Quando siamo quaggiù siamo forse in Paradiso? No. E allora il nostro corpo, con tutte le sue limitazioni, non risorge uguale.

Non so. Al momento non mi sento in grado di portare avanti questo discorso.
Ciò che è certo è che vedo la personalizzazione come qualcosa di negativo. Mentre vedo la spersonalizzazione come qualcosa di positivo.

Eppure Dio è una persona. Con un corpo. Delle mani. Delle gambe. Avrà avuto dei gusti. Gli saranno piaciuti di più i cosciotti di agnello o i cosciotti di pollo? Il pane o il pesce?
Eppure il Risorto per me non dovrebbe più porsi questi problemi.
Il fatto è che secondo me lui non se li poneva nemmeno prima.

Se entriamo in Paradiso, siamo privi di paure, angosce e altre tentazioni. Resta di noi solo ciò che è immortale. Perdiamo tutto ciò che è mortale.
La carne che risorge non è più come quando era sulla terra.

Una cosa è certa. I santi in Paradiso sono persone ben precise. Si sono guadagnati il diritto di mantenere quella persona anche in cielo.

Ma se io disprezzo così tanto chi sono e come sono, come posso volere essere così anche in Paradiso?

Significa o che non andrò in cielo così come sono e che devo cambiare, o che ho unʼerronea concezione di me stesso. Magari fosse vera la seconda. Di certo, non posso sapere come mi vede Dio.

Una cosa certa che so è che i santi erano amati anche in vita, da tante persone. Io non sono amato da tante persone.

Tutte indicazioni che non adrò in Paradiso, magari non allʼinferno, però almeno in purgatorio.
Questioni come questa mi preoccupano assai. So che lʼobbiettivo della vita di ciascun uomo è andare in Paradiso. Per farlo bisogna fare la volontà di Dio. Oppure essere perdonati da lui allʼultimo, perché nulla è impossibile a Dio.

Mi chiedo come è in Paradiso il ladrone salvato in extremis da Gesù. Che identità ha? Di certo non sta nello stesso cielo di San Tommaso dʼAquino, o di chissà quale altro santo. È in un cielo inferiore.
Possiamo dire che il ladrone è entrato in Paradiso per il rotto della cuffia, e sta nelle parti più basse di esso? La sua vita è pur sempre stata quella di un criminale, con un pentimento finale.

Tutto questo discorso lʼho fatto perché credo che lʼentrata nella vita eterna sia come lʼentrata nel presente. Possiamo sperimentare su questa terra la vita eterna se riusciamo a sperimentare la vita nel presente. Nella vita nel presente non esistono né passato né futuro. Per questo la vedo come una spersonalizzazione. Tutto qua.

Secondo me è ragionevole dire – se tutto questo discorso ha senso – che è più in alto in Paradiso chi è riuscito a restare più anonimo. Cosa sappiamo dei tre angeli che si sono presentati alla tenda di Abramo? Nulla. Eppure probabilmente erano Michele, Gabriele e Raffaele, i tre più in alto tra le schiere angeliche. Questi tre angeli non si sono forse personificati in persone diverse nella Scrittura? (Questo è da verificare).
Può darsi anzi che il grande lavoro lasciato da San Tommaso dʼAquino lo appesantisca e lo faccia essere più in basso rispetto ad altre realtà angeliche. Perché il suo grande lavoro è una grande personalizzazione. Checché ne dica Dante e ovunque Dante abbia deciso di metterlo.

Chi riceve riconoscimenti sulla terra non ha già ricevuto la sua ricompensa?
Invece Lazzaro lʼappestato non sta forse accanto ad Abramo?

Tante questioni che non so risolvere.