Spersonalizzarsi

Perché mi piace la recitazione? In un film guardo due cose, se la sceneggiatura è scritta bene e come recitano gli attori. La prima componente è fondamentale per la seconda. Chi ha provato ha fare l’attore sa che se il testo è cattivo la recitazione non riesce. La recitazione ha da essere realistica; per essere realistica la recitazione, il testo ha da essere realistico. Aristotele direbbe: “Verosimile”. La chiave per creare narrazioni realistiche è la creazione dei personaggi. La creazione del personaggio è la chiave di tutto. Un buon personaggio, a 360 gradi, agisce realisticamente. Personaggi piatti non agiscono realisticamente, sono ostici e pallosi per gli attori e generano storie non credibili. Come ha detto qualcuno, forse T. S. Eliot: “I personaggi di Shakespeare sono più reali delle persone reali”, o qualcosa del genere. Shakespeare conosceva la Poetica aristotelica. Sapeva che il genere è determinato dai personaggi. Se i personaggi sono alti si ha la tragedia, se sono bassi si ha la commedia. Infatti nelle opere di Shakespeare i nobili parlano in versi (linguaggio alto) e i sottomessi in prosa (linguaggio basso). Come dice Bernhard, chi conosce la musica può ascoltare un’opera anche solo leggendo lo spartito. Non è necessario ascoltare quella particolare interpretazione. È come vedere l’adattamento a film di un libro. Mentre si legge il libro da soli, l’immaginazione lavora e crea l’interpretazione personale. Quando si va a vedere il film, o si ascolta la versione orchestrata di qualche opera musicale, si fruisce l’interpretazione di altre persone particolari, limitando le potenzialità della propria. La trasmissione è sempre una catastrofe, un fallimento. L’ideale sarebbe che i cervelli fossero uniti, collegati con qualche sorta di canale che bypassi il necessario storpiamento dovuto alla comunicazione linguistica, tipografica, letteraria, strumentale, ecc. Tutto è d’impedimento alla comunicazione; ciascun tentativo di comunicazione rovina ciò che sarebbe se ci fosse contatto diretto. Ciò a cui dobbiamo tendere è essere tutti uno. Nella pratica, ciò si ottiene solo mediante la carità, che è accettazione dell’altro, ascolto, accoglienza della diversità. Rinnegamento della propria volontà. Rinuncio a me stesso per far esistere te. Anche questa è una forma di ingiustizia, perché una voce, la propria, è messa a tacere. Non ci si può suicidare, il suicidio è omicidio; ma si deve accogliere con benevolenza chi vuole toglierci la vita (cf. Fedone). Lo sforzo per creare unità è visto dall’alto, l’azione di carità non passa inosservata, non è invisibile, l’intenzione di unire mettendo da parte se stessi è fonte di santificazione; santificazione è strada per raggiungere il luogo dove c’è Dio, dove si sarà finalmente tutti uno, in lui, mediante l’unione con lui. In definitiva il successo di un’opera di fiction risiede nei personaggi. Da lì si parte. Non parlo di successo di pubblico, anche se poi, quando c’è quello vero, ideale, c’è pure quello popolare. Forse il ritmo elevato serve solo al popolo, a chi fa lavori manuali, a chi non ha tempo per pensare e ha bisogno di essere intrattenuto. Chi può permettersi di pensare può amare anche opere lente, purché ci sia la condizione dei personaggi verosimili. Da personaggi ben creati nascono dialoghi e azioni verosimili, che potrebbero accadere davvero. È in questo spazio che nuota l’attore. Scopo dell’attore è recitare realisticamente. Non si deve vedere l’affettazione, il gesto artistico. L’arte va nascosta, come dico sempre. Assistere a un lavoro teatrale, sul palco o filmato, dev’essere guardare dal buco della serratura; la vita. Quando si capisce che l’attore sta recitando – come nel teatro Kabuki, che porta alle estreme conseguenze ciò che da noi è lo stile recitativo europeo contemporaneo, strehleriano – è fallita l’impresa dell’attore. Nella seconda metà del ‘900 negli Stati Uniti si è giunti alla perfetta realizzazione del realismo nella recitazione grazie al metodo Stanislawskij. In Europa e altrove, prima e dopo, i risultati del metodo Stanislawskij sono stati raggiunti da attori geniali, indipendenti, individuali, talenti solitari che spiccano sugli altri, i quali hanno capito come bisognava fare senza scuola. Prendiamo Bruno Ganz (si veda, in lingua originale, La caduta). Ma è solo un microesempio. Ce ne sono stati altri, tanti, geniali e in vetta, ovunque. Il merito dell’Actors Studio, fondato a New York da Elia Kazan, Cheryl Crawford, Robert Lewis e, più tardi, Lee Strasberg, è stato prendere il metodo Stanislawskij e farne materia di insegnamento. Il lavoro dell’attore sul personaggio e Il lavoro dell’attore su se stesso sono le opere fondamentali di Konstantin Stanislavskij; negli Stati Uniti sono state pubblicate insieme in un libro considerato la bibbia dell’attore: An actor prepares (1936). Il problema del cinema statunitense è che è fin troppo realistico. Genera imitazione. Non sempre le anime hanno gli strumenti per giudicare le azioni. Le azioni, buone o cattive, sono semplicemente imitate. Prendiamo l’emulazione generata dai film sulla mafia; è esattamente il contrario di ciò che si proponevano gli autori, cioè la denuncia. Ecco cosa succede quando l’attore si immedesima perfettamente nel personaggio. I grandi attori americani, come Robert De Niro, figlio dell’Actors Studio e uno dei più grandi attori di tutti i tempi, o Dustin Hoffman o Danel Day Lewis hanno poca vita pubblica. Tendono a sparire, a vivere l’anonimato per spersonalizzarsi. Si veda come si veste l’attore quando è fuori servizio in Tootsie, nella scena finale, quando Michael si scusa con Julie: pantaloni kaki e t-shirt. Così, dicevano, vestiva un insegnante dell’Actors Studio che andava a fare seminari a Bresso (MI), Favola di Mattoni, scuola di teatro da me frequentata sei mesi a 26 anni. L’attore deve sparire, deve apparire il personaggio. Però l’attore deve fare anche un lavoro su se stesso; deve saper dove andare a pescare le emozioni da esprimere; conoscersi. Allo stesso tempo spersonalizzarsi. Se un attore ha lavorato bene nella preparazione per entrare nel personaggio e i dialoghi sono scritti bene, dopo aver imparato a memoria le battute può anche dimenticarle. Non ha bisogno di sapere i suoi “cue”, cioè i punti dove intervenire. Basta ascoltare – se è entrato nel personaggio, beninteso. Se è entrato nel personaggio e ascolta, e ha studiato a memoria le battute per poi dimenticarle, e vive nel momento, nel qui e ora, nell’hic et nunc, la sua reazione a una data frase o a un dato atteggiamento, a un’azione, sarà esattamente quella prevista dall’autore. Dirà quella cosa, si metterà a piangere, cercherà la pistola, balbetterà... Non è un lavoro di memoria, è un lavoro di vita nel momento presente e reazione. Si dice che la diversità è ricchezza; secondo me la spersonalizzazione rende universali. Universali, più capaci di unione.


13 commenti:

  1. Bravo Filippo, riflessioni molto interessanti. Concordo sullo spersonalizzarsi, come una sorta di status- strategia su cui costruire al meglio.

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    1. Esatto, d'altronde se si deve far posto a un personaggio un po' di sé stessi si deve perdere...

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  2. Riflessioni che condivido in gran parte. Certe forme di teatro del passato, come quello elisabettiano di Skakespeare o il kabuki si basano sulla recitazione portata all'estremo, talmente esagerata da essere irrealistica, però sono la base per la recitazione moderna in cui il personaggio deve esprimere uno stato d'animo o un'emozione, il testo da solo non basta. Una delle cose che non sopporto di certe serie Rai (che infatti non guardo quasi mai) è la recitazione approssimativa: l'attore dice la sua battuta con la stessa voce, lo stesso tono, lo stesso sguardo con cui dice un'altra battuta in un contesto emotivo molto diverso. Dilettantismo insopportabile.

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    1. Ma infatti è mia convinzione che gli italiani non sappiano recitare, e questo a causa del retaggio di certo teatro che fa pesare ancora le sue conseguenze. Certo, poi ci sono gli attori bravi. Ciò che mi premeva dire però è che negli Stati Uniti c’è una scuola. Il cosiddetto ‘method acting’ ha influenzato l’intera recitazione a partire da Marlon Brando in poi. Non guardo mai cinema italiano, figuriamoci le fiction Rai. Guardo solo film americani in lingua originale (il doppiaggio fa perdere completamente le nuances della recitazione).

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  3. Sono per l'aristotelico ars est celare artem, purtroppo ai nostri tempi più che gli attori sono indecenti i copioni, i testi, le sceneggiature, le commedie, le fiction.. c'è un livello degradato al quale poi si adegua anche chi recita. L'utenza è sempre meno esigente, ed il risultato è sotto gli occhi di tutti. E' colpa nostra che non pretendiamo più la qualità ma la quantità, montagne di film, serie, sceneggiati.. sempre più robaccia..

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    1. In Italia manca anche la produzione di testi, è per questo che gli attori, che già hanno una preparazione fuorviante, non riescono a recitare bene. Negli Stati Uniti ci sono volumi e volumi su come scrivere una sceneggiatura. Ma a parte questo, basterebbe un bravo scrittore. Fino al Neorealismo bravi sceneggiatori ce n’erano. Se manca una buona sceneggiatura, non solo l’attore ma anche il regista ha le mani legate.

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  4. mi piacerebbe conoscere il tuo pensiero sul noto personaggio "Fracatz", tieni presente che fisicamente è ancora abbastanza alto 1,82 e quando ispirato ama esprimersi in versi

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    1. Fracatz mi sembra un personaggio a tutto tondo, con uno stile espressivo e contenutistico ben definito e sempre coerente. Forse mi sono perso qualcuno dei suoi versi, ma ho notato gli accenti di lirismo e di sentimento appassionato. Aspettiamo di vedere un arco, possibilimente verso l’alto.

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  5. Io, per la scuola, ho provato a fare un piccolo corso di recitazione ma non ne sono stata proprio capace !!! Però mi piace assistere ad un lavoro teatrale. Ciaoooo

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    1. Come in tutte le cose ci vuole preparazione, esercizio e lavoro duro. Mi congratulo con te comunque per averci provato.

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  6. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  7. Sì, sono d'accordo...
    io poi sono veramente poco "nerd", nei film non bado nemmeno al regista, non mi intendo di registi, il loro stile, eccetera... Per me il film è ciò che vedo quando lo guardo, quindi appunto gli attori...
    Eppure noto che molti attori hanno l'ambizione di diventare registi un giorno, adesso ho sentito che pure Beppe Fiorello
    (che come attore apprezzo molto) ha fatto il suo esordio alla regia, lo vedono come se fosse un salto di qualità 🤔 Forse sono tutti timidi e vogliono passare il prima possibile dall'altra parte della cinepresa? 😄
    Comunque questo discorso della "spersonalizzazione" l'ho sentito fare spesso anche a proposito dei fumetti, nel senso che quando una serie a fumetti che è sempre stata realizzata da un unico autore passa in mano ad altri autori che la proseguono (è accaduto, fra i tanti, a Corto Maltese) ci si chiede se il nuovo autore debba rinunciare a propri virtuosismi autoriali per rispettare le caratteristiche di una narrazione già creata da altri, o se invece possa metterci del suo che può anche arricchire il modo di vedere quel fumetto, mostrando scenari inediti, punti di vista nuovi, calando i personaggi in situazioni mai viste, ecc...
    Ovviamente la cosa diventa più evidente quando si parla di fumetti che sono legati in modo inscindibile al proprio autore, mentre in altri casi di prodotti più seriali conta di più il personaggio, tipo Diabolik, dici "leggo Diabolik", a prescindere da chi lo scrive/disegna...Ma i fan più accaniti le varie differenze fra un autore e l'altro le notano...
    Ciao Filippo 🙂🙋🏼‍♂️

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    1. Strano, ti avrei fatto un nerd di cinema... Invece so che sei appassionato di libri e fumetti.

      Diciamo che il regista è un super-attore, nel senso che, come il direttore d’orchestra, deve conoscere tutte le parti e saper dare indicazioni, ‘direzioni’ ai singoli su come interpretare la loro. Per dire, un esempio che si fa spesso è la direzione che Mike Nichols diede a Dustin Hoffman nella scena in cui deve chiedere alla reception dell’albergo qual è la stanza della signora Robinson: “Immagina di essere in farmacia e di chiedere dei preservativi”. (Allora era ancora una cosa che generava imbarazzo). Se guardi la scena, vedi Hoffman che in effetti balbetta ed è a disagio ecc. Per me il regista è innanzitutto direttore di attori. Discute con loro la loro parte, il loro personaggio e li aiuta non solo a entrarci, ma dà direzioni per tirare fuori le emozioni giuste scena dopo scena. Col fatto che il cinema è arte visiva si è imposta però negli anni la visione dell’arte del regista come specie di pittore, colui cioè che cura soprattutto l’aspetto visivo e dipinge ogni ‘shot’, ogni inquadratura come un quadro. Ma questo originariamente sarebbe compito del ‘cinematographer’, quello che noi chiamiamo banalmente ‘direttore della fotografia’.

      Secondo me è una cosa tutta italiana questa del passare da attore a regista come salto di grado. In America mi pare siano due vocazioni ben distinte. Sidney Pollack, ascoltato da me a una conferenza a Bologna quando ero studente: “Siccome facevo schifo come attore, mi sono messo a fare il regista e ho visto che lì riuscivo meglio”. Lo stesso Mike Nichols, un regista che amo proprio perché sa fare il regista di attori, ma ha anche una sensibilità per l’aspetto visivo, dopo aver fatto l’attore e aver raggiunto il successo con sketch comici in coppia con Elaine May, ha provato a fare il regista. Sue parole: “Facendolo, ho scoperto che era come se per tutta la vita mi fossi preparando per fare quello”. Però ha iniziato giovane e ha fatto tantissimi film, tutti di un certo peso. Consiglio ‘Birdcage’, naturalmente da vedere in lingua originale, perché soprattutto Nathan Lane è un portento.

      Interessante il discorso su spersonalizzazione e autorialità nel mondo del fumetto. Secondo me lo scenario migliore è quello di Diabolik, dove ciascun autore ha libertà di esprimere se stesso, dando al fumetto sempre colorazioni nuove. Non mi piace troppo il peso dell’autorialità di Corto Maltese. È come il Requiem di Mozart. Semplicemente non lo ascolto, perché so che è stato terminato da un altro. Non è più Mozart. D’altronde Mozart era morto e non aveva più diritto di decisione. Meglio, a questo punto, ascoltare l’‘incompiuta’, l’ottava sinfonia di Schubert.
      Non so come è accaduto con Corto Maltese. Se fossi in vita, è chiaro che non vorrei vedere la mia opera ‘storpiata’. Ma questo accadrebbe solo se mi incancrenissi sulla mia visione, sul mio stile e cercassi di imporli. Piuttosto, fossi io, darei il via libera e la benedizione, per così dire, cercando di far sì che nuovi autori siano liberi di adattare, esprimendo se stessi. Anzi, sarei orgoglioso che qualcuno traesse ispirazione dalla mia opera.

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